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lunedì 1 dicembre 2014

Una diabolica apparizione, di Anna Maccagni


In un caldo sabato di fine maggio, le guardie di Porta San Lazzaro vi­dero passare una povera donna, che si dirigeva verso la campagna con un cesto al braccio.
"Eccone un'altra che va a cercare qualcosa da mettere sotto i den­ti..." disse una sentinella.
"Già, come se fosse facile!" sogghignò il compagno, seguendo la donna con lo sguardo. A piedi e in quelle condizioni, non sarebbe andata lon­tano e lì intorno non c'erano altro che prati incolti e sterpaglia. Si trovavano, è vero, dei piccoli spazi coltivati, ma erano così stretta­mente sorvegliati che era quasi impossibile rubare qualcosa.
Dopo circa mezzo miglio, la donna lasciò la strada e s'inoltrò tra i campi, dove alcuni giorni prima aveva scoperto un orto coltivato a fa­gioli. Pensò che forse, con un po' di fortuna, sarebbe riuscita a riem­pire il paniere. Quando si chinò sulle piante, vide che i baccelli non erano ancora maturi, ma decise ugualmente di coglierli. Che cos'altro avrebbe potuto fare? La carestia continuava a mietere vittime ed erano ben pochi coloro che potevano scegliere che cosa mangiare.
All'improvviso si delineò un'ombra e la donna si voltò indietro atter­rita. Perse l'equilibrio e si trovò distesa ai piedi di un vecchio, la cui espressione furiosa e il randello che teneva in mano non lasciavano presagire nulla di buono.
"Pietà! Pietà per me e i miei figli!" gridò la poveretta.
"Pietà? Troppo comodo! - ringhiò il contadino, assestandole un colpo col bastone. - Tutti così voi di città: altezzosi e pieni d'arie; poi, però, non vi vergognate di derubare la povera gente... Se non sapete re­sistere alla fame, buttatevi nel Po!"
Il vecchio continuò a batterla, vomitando una sequela di bestemmie, finché la sua ira si fu placata. Allora prese la donna, che sembrava svenuta, e la trascinò fino al ciglio della strada, dove l'ab­bandonò.
La disgraziata aveva davvero perso conoscenza. Un po' per la debolezza dovuta alla fame, un po' per il dolore causato dalle percosse, s'era or­mai perduta in un mondo estraneo e lontano, bello come un sogno, in cui a fatica erano penetrati alcuni frammenti del reale.
"Potete sentirmi? Siete in grado di stare in piedi?"
La donna, dopo alcuni scossoni, aprì gli occhi e guardò il suo soccorritore con l'espressione vuota e stranita di chi si è smarrito nei labi­rinti della coscienza. Poi provò ad alzarsi, ma le gambe le cedettero; erano diventate così così dure e pesanti da parere dei macigni.
"Aspettate! Vi carico sul mio carretto" disse l'uomo, prendendola in braccio.
"E1 stata la Vergine Santissima a volere questo! - gridò la poveretta con gli occhi stralunati. - Capite? L'ho incontrata in quel campo di fa­gioli e con lei c'era Nostro Signore... Mi ha gravato le gambe perché non dimenticassi di riferire le sue parole... Tutti devono sapere che la città è in pericolo!"
Vaneggiava di bestemmie, di bastoni, di digiuni e di sabati, tanto che il carrettiere fu ben contento quando, portata a termine l'opera di soc­corso, poté far ritorno a casa.

Una settimana più tardi, non c'era famiglia di Piacenza che non fosse a conoscenza dell'apparizione e del miracolo capitato alla donna, le cui gambe la Vergine prima aveva reso pesanti e poi aveva guarito.
"Reverendo Padre, abbiamo le carte relative al caso dell'apparizione!" annunciò soddisfatto un giovane domenicano, entrando trafelato nella stanza del priore.
"Oh, finalmente! Spero che ci sia anche il verbale dell'interrogatorio fatto alla donna..." disse Padre Gattino, sfogliando avidamente le pagi­ne. Le dita ossute tremavano per l'eccitazione a stento trattenuta e an­che gli occhi, che una miopia vecchia d'anni aveva segregato in un mondo chiuso e circoscritto, tradivano un'insolita animazione.
Entro pochi giorni si sarebbe tenuta l'ultima e più importante riunio­ne che avrebbe deciso in via definitiva la veridicità dell'apparizione e quelle carte giungevano proprio al momento opportuno.
"Sia ben chiaro che non ho bisogno di queste scartoffie per dimostrare la verità. Tutti i fedeli della città mi hanno sentito sostenere che quella pretesa visione non è altro che una manifesta illusione diabolica e tutti i pulpiti fremono ancora della mia indignazione! Ma è sempre me­glio premunirsi... Se quello stolto di Don Riccardo dovesse parlare di nuovo in difesa della visione, saprò ribattere punto per punto!"
L'aiutante del priore di San Giovanni sorrise sollecito e compiaciuto. Conosceva lo zelo, l'erudizione e la profonda dottrina di Padre Gattino e non avrebbe voluto essere nei panni del canonico, Don Riccardo da Vercelli, quando si sarebbe discusso.
"Ecco, ecco! Guardate qui... - esclamò Padre Gattino, emergendo dai fogli che aveva tenuto incollati agli occhi fino a poco prima. - La donna ammette di essersi spaventata quando le è apparsa la Santa Vergine. Che vi dicevo prima? Questa è opera del Maligno, non c'è alcun dubbio! Come può far paura la visione della benedetta Madre di Dio, Regina dei Cieli? E poi quando dice che la Vergine Santissima c'impone di festeg­giare il sabato... Il sa-ba-to, avete inteso? Vi sembra possibile che la Madre del Signore possa indicare un giorno diverso dalla domenica, il giorno in cui il suo Figliuolo è risorto? No, vi dico; questa è opera del Demonio!"


Quel giorno, tutti i primari teologi e tutti i canonisti del clero piacentino, secolare e regolare, erano riuniti per dirimere la questione dell'apparizione avvenuta fuori dalla Porta di San Lazzaro.
I partecipanti erano divisi in due gruppi, posti uno di fronte all'altro, quasi a voler rimarcare con la distanza fisica la profonda diversi­tà delle loro opinioni. Ondate d'agitazione si propagavano lungo gli stalli, sollevando improvvisamente i toni di voce che diventavano acuti e aspri, per tornare subito dopo lievi e sommessi.
II relatore stava leggendo il racconto della visione fatto dalla don­na.
"La Madonna, vestita con un abito bianco da monaca, mi spiegò che il suo Figliolo era assai sdegnato con la nostra città, a causa delle molte bestemmie. Mi mostrò un poverello che teneva in mano un bastone e mi disse che era Nostro Signore..."
Un brusio prolungato interruppe la lettura.
"E aggiunse che, se il suo Figliolo avesse gettato quel bastone nel Po, tutto il mondo sarebbe stato distrutto. Poi Maria Vergine si sollevò la veste e mi mostrò le ginocchia: non avevano più pelle, né carne, ma il semplice osso; e ciò era accaduto per essere stata troppo a lungo in ginocchio a pregare Nostro Signore, affinché si placasse e perdonasse la nostra città. Poi mi ordinò di riferire quanto il Figlio di Dio fosse corrucciato e mi svelò il modo per evitare la sua ira: astenérsi dalla bestemmia, digiunare per tre sabati consecutivi a pane e acqua e festeg­giare il giorno del sabato..."
"Questa è bella! La Madonna che vuoi farci diventar giudei!" abbaiò un vecchio prete sdentato, inondando le tonache dei vicini con una miriade di spruzzi di saliva iridescente.
Risate e cenni d'assenso coinvolsero la fazione che sosteneva l'origi­ne diabolica della visione. Il più elettrizzato di tutti era Padre Gat­tino, che agitava sotto gli occhi dei convenuti un piccolo manoscritto.
Venne ripresa la lettura: "Le dissi che nessuno mi avrebbe creduto, ma la Vergine mi rassicurò: 'Farò in modo che ti crederanno'. E infatti le mie gambe divennero così pesanti che non riuscii più a muoverle. Rimasi a letto per tre o quattro giorni, dopo di che cominciai ad alzarmi; ma solo dopo altri tre o quattro giorni la Madre di Dio compì un altro mi­racolo ed io guarii completamente..."
Terminata la lettura del documento, cominciò la discussione. Venne de­ciso che per primi avrebbero parlato coloro che credevano che la causa dell'apparizione fosse da imputare a Dio. Essi potevano contare sull’appoggio autorevole del Vicario Generale e, addirittura, su quello del Reverendo Inquisitore della Fede.
"Noi riteniamo questa visione pia, cattolica, buona, santa e voluta da Dio - esordì Don Riccardo da Vercelli. - Per quanto ci siamo sforzati, mai abbiamo trovato qualcosa che andasse contro la dottrina. Le cose che ha detto la Santa Vergine non sono forse vere? Nessuno qui vorrà negare la brutta piega presa dalla città: sono sempre meno i fedeli che credono alla preghiera come mezzo per sconfiggere la carestia, mentre sono sem­pre più coloro che imprecano e bestemmiano. Riguardo alla parola che ha suscitato la garbata ironia del nostro amato confratello, devo dire che la donna, parlando del sabato, si era probabilmente sbagliata. Infatti in un secondo interrogatorio, da noi sollecitata e pregata di ricordare con esattezza, ha voluto correggere la prima dichiarazione. Leggo il passo: 'Forse ho detto troppo o male... Ma ora che mi avete così ben istruita, ricordo che non era da festeggiare tutto il sabato, ma che solo dopo l'ora nona del sabato si doveva far festa. Vedete dunque che non c'è nulla di sospetto? La visione viene da Dio e, anche se ammettessimo per assurdo che proviene da uno spirito maligno, noi crediamo che si debba interpretare piamente per il conforto spirituale degli abitanti e proponiamo che si costruisca un oratorio o una chiesa, là dove è avvenu­ta l'apparizione".
Don Riccardo si sedette, complimentato e applaudito dai suoi sosteni­tori, che per qualche istante dimenticarono chi erano e dove si trovavano. Nessuno dei loro fedeli avrebbe riconosciuto in quell'allegra compa­gnia il predicatore che tuonava dal pulpito o il confessore che sibilava dietro la grata, ordinando penitenze in cambio dell'assoluzione.
Padre Gattino dovette inghiottire qualche sorso d'acqua per placare il fastidioso singhiozzo che lo aveva colto durante il discorso della parte avversa; poi finalmente poté parlare.
"Reverendi fratelli, una cosa è certa: l'Anticristo sta spargendo ziz­zania anche nel cuore di alcuni di noi. Come spiegare altrimenti le pa­role udite poco prima? Questa visione è manifestamente diabolica e lo si capisce dal fatto che solo il Demonio poteva far credere al Reverendo
Vicario e al Reverendo Inquisitore, persone di limpida fede cattolica, che ad apparire era la Santa Madre di Dio! Non prendo neanche in considerazione la sciocca immaginazione della donna, dal momento che tutti sanno quale facile preda del Maligno sia il limitato intelletto femmini­le..."
A quel punto Padre Gattino fece una pausa. Guardò ad uno ad uno i vol­ti di coloro che gli sedevano di fronte, come se avesse dimenticato qualcuno; poi sorrise con espressione candida e benevola.
"Ah, già! Mi stavo scordando del nostro amato Don Vercelli... Che di­te? Davvero? Cari fratelli, sembra proprio che quello non sia il nome del relatore che mi ha preceduto. Chiedo scusa, ma è da così poco tempo che abbiamo la gioia di averlo tra noi che è facile dimenticare come si chiama... Vedete, egli non ha colpa delle cose che ha detto: non conosce ancora le sue pecorelle e la sua anima è così pura e ingenua - direi co­sì priva di perspicacia - che non vede il Male. Ma io che so, devo dirvi qual è la verità: è Satana all'origine di questa vicenda! L'ho scritto e ribadito anche in questo testo, che per volere di Dio sarà dato alle stampe".
Tra gli applausi dei sostenitori, mostrò un libello d'una cinquantina di pagine; lo teneva sollevato in alto, proprio come avrebbe fatto con l'ostensorio o la croce per tenere a distanza il Nemico.
La sua Crociata pareva cominciare davvero sotto buoni auspici.
Il volumetto odorava ancora di colla e d'inchiostro. Il priore di San Giovanni guardò per l'ennesima volta il frontespizio: "Ragionamento del Reverendo P.F. Pietro Martire Gattino da Vicenza, dell'Ordine di San Domenico, Minimo dei Teologi e Predicatore nella Città di Piacenza, a nome degli Illustrissimi ed Eccellentissimi Signori Farnesi, Signori Cristianissimi e veri figliuoli della Santa Chiesa Romana, sul caso della vi­sione veduta fuori della Porta di San Lazzaro" recitava il titolo im­presso a grandi lettere.
"Quando tutti lo avranno letto, nessuno più avrà l'ardire di negare l'origine diabolica dell'apparizione" pensò Padre Gattino, accarezzando il libercolo con la tenerezza che si riserva a un figlio.


Era trascorso circa un anno dal giorno dell'assemblea dei prelati pia­centini. Dopo lo scandaloso verdetto che aveva stabilito la parità tra i contendenti, il frate non aveva più avuto pace e si era adoperato in tutti i modi per far trionfare la verità, bussando e ribussando ad ogni porta del ducato. Aveva coltivato la sua ossessione giorno e notte, leggendo e rileggendo vecchi verbali del Tribunale dell'Inquisizione, cor­reggendo e limando il suo manoscritto.
"E' il mio Purgatorio!" soleva ripetere, crogiolandosi nel pensiero che le sue preoccupazioni erano il debito che doveva pagare per avere diritto, se non alla felicità, almeno alla tranquillità.
Era stato così preso da dimenticare persine i confratelli; costoro, d'altra parte, non ne avevano sofferto, dal momento che era diventato sempre più difficile sopportare i deliri e la sgradevolissima alitosi del priore.
Padre Gattino si sgranchii le membra. Sentiva la tensione che si allen­tava e per la prima volta dopo tanto tempo udiva il borboglio dello sto­maco affamato. Stava già pregustando la cena, quando giunse il suo aiutante con una terribile notizia: Don Riccardo da Vercelli era in procin­to di pubblicare un libro.
"Che... che libro?" balbettò, quasi rabbrividendo,
"Reverendo Padre, non agitatevi per amor del Cielo! Accettate questa croce e Dio ve ne renderà merito..."
"Che libro?" gridò il priore.
"Pare che sia sulla visione... Si dice che l'abbia scritto su consi­glio del Vicario Generale... Insomma, con quel titolo - Scrittura contro il Ragionamento - sembra proprio che cerchi di confutare le vostre te­si!"
Padre Gattino ebbe lunghi istanti di stordimento. Tutto il mondo, tut­te le sue speranze, tutto gli era crollato addosso.
"Il Demonio! Ditemi se questa non è opera del Demonio! - urlò gestico­lando scompostamente, rivolto ad un pubblico immaginario. - Solo il Ma­ligno poteva suggerire a quel prete delle false prove per dimostrare che ho torto... E chi se no? Il mio libro è ancora fresco di stampa!"
"Dimenticate che il vostro manoscritto circola liberamente per Piacenza da circa un anno" obiettò il giovane domenicano.
Quelle parole ammutolirono il priore. Come aveva potuto essere così sconsiderato? Aveva reso noto il Ragionamento, prima ancora che lo stam­patore di Bologna avesse preparato i punzoni necessari! Aveva peccato di superbia ed era stato punito...
"Sempre lui, il Demonio! Ecco chi mi ha indotto a peccare!" esclamò, battendosi il petto. Recitò qualche preghiera e, dopo aver allontanato lo stupefatto aiutante, si mise allo scrittoio.
Aveva già in mente la risposta alla Scrittura di Don Riccardo: "Apolo­gia del Reverendo P.F. Pietro Martire Gattino da Vicenza, dell'Ordine di San Domenico, Priore in San Giovanni di Piacenza e Predicatore, a nome degli Illustrissimi Signori Farnesi Cristianissimi, contro un trattato composto da Don Riccardo da Vercelli in difesa di una vana e diabolica apparizione, attribuita falsamente alla Vergine Maria in Piacenza, l'anno 1560".
Sì, questo sarebbe stato il titolo...

"Le lettere sono pronte. E questo è il decreto..."
Il Cardinal Ghislieri, Supremo Inquisitore della Fede, appose il suo sigillo e consegnò il plico al segretario. Entro qualche settimana l'In­quisitore e il Vicario di Piacenza avrebbero ricevuto le sue disposizio­ni in merito alla faccenda della visione.
Era stato Ottavio Farnese a chiedergli di esprimere un giudizio che mettesse fine all'interminabile diatriba che coinvolgeva tutta la dioce­si piacentina. Il Cardinale, uomo rigido e intransigente, paladino di ogni iniziativa contro la peste dell'eresia, aveva letto attentamente la mole di scritti che il Duca gli aveva fatto pervenire.
"Tutta questa storia è assurda e ridicola! Tirare in ballo la Madonna e il Demonio è davvero eccessivo, quando si intuisce benissimo che la visione non è altro che il frutto dei vaneggiamenti di una poveretta af­famata, magari sofferente di mal caduco!" aveva riferito al suo segreta­rio.
Costui, un Monsignore dall'aria sofferente, aveva sorriso con disprez­zo. Che razza di prelati finivano a Piacenza? Non saper distinguere un'allucinazione da una santa visione...
"No, non è questa la cosa grave! Ciò che mi indigna veramente è che nessuno, neanche 1'Inquisitore, si sia reso conto del reale pericolo che corre la città. La donna parla di festeggiare il sabato... Capite? Il sabato, il giorno di riposo degli ebrei! Ecco che cosa succede ad allen­tare il controllo su questa gente: diventa naturale per un cristiano parlare di sabato, assumere i costumi depravati e commettere gli errori dei giudei! Con la sua arrendevolezza, questo papa sembra dimenticare che costoro rifiutano la divinità di Cristo e, cosa più atroce, che sono i discendenti dei carnefici che hanno condannato Nostro Signore al sup­plizio della croce. Altroché farli uscire dal ghetto, permettere loro di non portare il berretto e consentire i loro sporchi traffici!"
Il Supremo Inquisitore, che voleva un ritorno della politica inflessi­bile del defunto papa, aveva trattenuto a stento il livore che nutriva per gli ebrei. Non era ancora giunto il momento di dar sfogo a tutto il suo odio, almeno finché c'era al potere questo pontefice.
Aveva scritto le due lettere con consumata abilità; in modo fermo ma prudente, per non offendere la suscettibilità dei due destinatari, aveva decretato la falsità dell'apparizione. Senza mai accennare direttamente agli ebrei, si era servito della tesi di Padre Gattino, affermando che la visione era d'origine diabolica.
"Mi spiace soltanto che quello sciocco, quel domenicano, crederà alla superiorità delle sue argomentazioni... Ma la consuetudine di Roma con­siste proprio nel tollerare certe cose e passarne sotto silenzio altre! L'importante è porre fine a orribili commistioni" aveva concluso il Car­dinale.


"Dio sia lodato!" biascicò Padre Gattino con un lungo sbadiglio. Si stiracchiò beato nel letto: finalmente, dopo tanto tempo, Iddio gli con­cedeva di dormire il sonno dei giusti.
Aveva vinto e le lettere del Supremo Inquisitore erano lì a dimostrar­lo. Prese dal comodino le copie che gli aveva dato il Vescovo e le lesse ancora, con l'interesse della prima volta. Giunto alla fine, baciò con riconoscenza il nome posto in calce e quindi, posati i fogli, spense il lume.
Restò immobile per qualche minuto. Poi allungò un braccio, riprese le lettere e le mise sotto il guanciale. Ora sì che poteva addormentarsi tranquillo...
"Che intuito, quale preparazione ha il Cardinal Ghislieri! E' uno dei pochi ad aver compreso il pericolo del Demonio, la cui funzione è quella di sconvolgere la verità introducendo in noi l'errore. I nostri giorni sono malvagi, ma con persone come il Cardinale sono certo che il potere non sarà mai in mano al Nemico".
Furono questi i suoi ultimi pensieri. Il sonno lo prese per mano e lo guidò per sentieri luminosi, dove gli angeli di Dio celebravano la pros­sima vittoria del bene.

Tuttavia il suo non fu un sogno profetico. Qualche anno più tardi, infatti, sarebbe salito al soglio pontificio proprio il Cardinal Ghislieri, il cui odio feroce avrebbe travagliato gli ebrei di tutta l'Italia.

martedì 24 luglio 2012

Memorie di una guerra fratricida,
di Anna Maccagni

Piacenza, 12 ottobre 1443 

Sono ormai quattro i mesi trascorsi in questa città di Lombardia, dove il padre mio mi ha mandato per impratichirmi nel mestiere di mercante. Il mio ospite e maestro, Matteo Cigala, mi ha accolto in casa sua come se fossi un figlio e, sotto la sua guida, ho cominciato a destreggiarmi tra numeri e scritture e ad imparare a riconoscere la qualità delle sete e delle lane. 
Avrò tempo in seguito per descrivere la città ed elogiarne gli abitanti e la cucina, perché ora mi preme raccontare i fatti curiosi che, da un po' di tempo, si stanno verificando a Piacenza. Qui sorge un antico convento dei domenicani, dedicato a San Giovanni e che quelli del posto chiamano San Giovanni al Canale per via della Beverora che vi scorre davanti. Ebbene, sembra che i padri conventuali non conducano più la vita esemplare di una volta, tanto che i piacentini, che di cose sacre evidentemente ne sanno più di me, hanno chiesto ed ottenuto che essi venissero sostituiti dai loro fratelli osservanti. Così, qualche giorno fa, muniti delle lettere del Generale dell'Ordine, quelli dell'Osservanza hanno preso possesso di San Giovanni, scacciando tutti gli altri. Sembra che solo due di loro, un certo fra Antonio da Luna e fra Marco Piacentino, siano potuti rimanere e chissà poi perché. Forse i loro occhi lasciavano trapelare una maggiore santità? 


Piacenza, 30 ottobre 1443 

Al ritorno da Milano, dove m'ero recato in compagnia di Matteo Cigala che doveva sbrigarvi certi suoi affari, ho trovato ad attendermi mio cugino Giovanni. Che gradita sorpresa, che feste ci siamo fatti! Non immaginavo proprio d'avere tutta questa nostalgia di casa… Giovanni mi ha portato alcuni pacchi e una lettera di mio padre. Caro padre, si preoccupa sempre per me! Mi ha inviato del denaro, anche se in realtà non ne ho bisogno, dal momento che il signor Matteo non mi fa mancare niente. E che dire di mia madre e delle mie giovani sorelle? Aprendo quei pacchi, che cosa non n'è uscito! Calze, vestiti e mantelli pesanti, affinché tu non abbia a patire il freddo, mi scrivono, perché sappiamo che gli inverni di Lombardia non sono mai come quelli di Genova. Quanta voglia di vederle e riabbracciarle! 
Ma bando alle malinconie! C'è una bella notizia: i frati osservanti hanno ripreso in seno alla loro comunità i fratelli conventuali. Sicuramente hanno mostrato una grande pietà; infatti, come avrebbero potuto cavarsela gli espulsi, soprattutto dopo il pubblico editto con il quale è stato vietato a chiunque, sotto pene gravissime, di dar loro consiglio, aiuto e favore? 


Piacenza, 8 novembre 1443 

Sembra che le cose tra i padri predicatori si stiano mettendo male. Anziché mettere pace, la riammissione dei conventuali ha inasprito ancor più gli animi. Ogni giorno, in città, si viene a sapere di screzi e dispettucci tra frati d'opposta fazione. Forse i conventuali non riescono proprio a vedersi come semplici fraticelli, senza alcun ruolo importante, obbligati a seguire tutte le osservanze della Regola in un luogo dove, poco tempo prima, erano padroni. 


Piacenza, 15 dicembre 1443 

Neanche l'approssimarsi del Santo Natale riesce a calmare gli animi di coloro che abitano nel convento di San Giovanni. In quest'ultimo mese, il traffico da una sponda all'altra del Po pare tornato quello dei periodi in cui si sta preparando una guerra; il via vai dei rappresentanti e dei deputati, che i due contendenti inviano a Milano, continua ad aumentare e si moltiplicano le lettere mandate al Padre Generale e al Papa. Tuttavia sembra che una decisione sia già stata presa e non so quanto piacere farà ai conventuali: a costoro sarà concesso di poter abitare in convento, e a spese del medesimo, ma a far da padroni saranno gli osservanti.


Piacenza, 3 gennaio 1444 

Ma in quali tempi viviamo? In questo clima è chiaro che abbiano buon gioco coloro che alimentano e diffondono foschi presagi e angosciose inquietudini. Mi viene in mente quel tale, fra Giambattista dell'Ordine dei Romitani, che, la scorsa estate, aveva creato tumulti, vaneggiando dell'Anticristo nato a Babilonia… Il vescovo di Piacenza lo mise a tacere; ma quanti altri visionari bisognerà zittire, se continuerà ad affievolirsi lo spirito religioso e l'amore agli studi dei nostri monaci? La scorsa notte, infatti, le controversie tra i domenicani hanno raggiunto il culmine: i conventuali, a furia di bastonate e di ferite, hanno cacciato fuori del convento quelli dell'Osservanza; e questo in barba ai nuovi ordini del Pontefice e alle prescrizioni dell'arcivescovo di Milano, che in questa causa funge da delegato apostolico. 


Piacenza, 18 febbraio 1444 

Forse questa scandalosa e ridicola guerra fratesca è giunta alla fine. Alcuni giorni orsono, gli ufficiali del duca hanno arrestato e rinchiuso nelle carceri della Cittadella parecchi conventuali, tra cui fra Rainaldo Cartàro. Non è stata una cosa facile liberare il convento per restituirlo agli osservanti: lo sforzo è stato durissimo e si è combattuto per tutto il giorno, fino a sera. Giunti allo stremo, i conventuali si sono arresi e, dopo aver spogliato tutto il monastero, lo hanno lasciato a quelli dell'Osservanza che ne hanno preso possesso pacificamente, senza strepito alcuno. La qual cosa sembra non abbiano fatto i conventuali che, carichi dei beni saccheggiati e armati di picche e forconi, hanno abbandonato San Giovanni simili ad una soldataglia che lascia l'accampamento. E come soldati hanno avuto i loro feriti e persino un morto: mentre gli uomini del duca tentavano di scalare i muri del convento, un conventuale - un certo fra Guglielmo da Gragnano - è caduto giù dal tetto, finendo nel rivo vicino. 


Piacenza, 1 aprile 1444

Ieri sera abbiamo ricevuto la visita di Antonio Gallo, un amico del signor Matteo. Oltre a parlare di certi prestiti che ci farebbe il Banco di San Giorgio, ci ha raccontato com'è andata la discussione dell'altro ieri, tenuta nella sala vescovile, che vedeva tutti i domenicani a confronto, alla presenza di emeriti religiosi e laici piacentini. Tra costoro c'era il signor Antonio che, da molti anni ormai, fa parte dei notabili della città pur vantando le sue origini genovesi. Pare che l'esame della situazione tra i due contendenti sia stato lunghissimo; ma alla fine tutti - il vescovo stesso, il commissario del duca, i molti religiosi, dottori e gentiluomini - hanno sentenziato in favore degli osservanti. 
"E adesso dove andranno i conventuali?" ho chiesto al signor Antonio. 
"Sicuramente non moriranno di fame, caro Lorenzo. Alcuni hanno trovato ricovero nella mansione della Misericordia, altri nel convento di Galilea fuori città; parte qua e là per le case dei loro parenti, amici e sostenitori. Sembra che alcuni di loro si fossero già sistemati presso il prevosto di Santa Brigida; ma un ordine successivo l'ha obbligato, sotto pena della privazione del beneficio, ad allontanarli". 
Chissà se questa storia può dirsi conclusa? Il signor Matteo, con il senso pratico del mercante genovese - pur essendo da molti anni cittadino di Piacenza - pensa che la città abbia perso fin troppo tempo a dividersi e a parteggiare per quello o quell'altro dei contendenti. Da parte mia devo costatare quanto poco avevo compreso del temperamento dei piacentini. Chiusi e riservati - avevo scritto alla mia famiglia - come la nebbia che avvolge torri e campanili, come le facciate austere delle case che nascondono più che rivelare… E, invece, quanta passione e sentimento dietro quell'aspetto dignitoso! 


Piacenza, 10 aprile 1444 

Credevo di non dover più parlare di questa squallida vicenda, perché pensavo che si fosse già toccato il fondo. Ma oggi, Venerdì Santo, è stato chiaro a tutti quanto la miseria umana non abbia limiti, anche in coloro che, per vocazione, dovrebbero fare da intermediari tra noi e il Cielo. 
Ecco i fatti: stamani, per un gesto di cortesia ed anche per la curiosità di vedere il luogo, ho accompagnato in San Giovanni la moglie e la figlia del signor Matteo, le quali desideravano ascoltare la predica di fra Donato degli osservanti di San Domenico. La chiesa era gremita di uomini e donne, nobili matrone e gentiluomini; come noi, erano molti quelli di altre parrocchie, venuti soprattutto per vedere coi propri occhi il teatro di tante e violente diatribe. Ad un tratto, mentre fra Donato era impegnato in sottigliezze dialettiche e teologiche, hanno cominciato a piovere sassi attraverso le finestre della chiesa. Il fragore era assordante, la gente quasi s'accapigliava per trovare riparo o per giungere all'uscita. Fra grida, urla e spintoni sono riuscito a portare in salvo la signora Giustina e la figlia Caterinetta. Poi, non appena ho potuto, sono tornato sul posto. 
Che cosa era successo? Un gran numero di uomini, su richiesta dei conventuali, avevano assaltato il convento; rotta la porta del Torchio, erano entrati nel chiostro di Sant'Alessio, dove con picche, pietre e balestre avevano combattuto ferocemente. 
"E c'è mancato poco che bruciassero il convento! - mi ha detto un uomo. - Per fortuna qualcuno ha cominciato a battere a stormo con la campana: un mucchio di persone si è riversato fin qui, spinto anche dalle esortazioni del canonico che stava predicando in piazza del duomo. Ma quando vengono le guardie?"
In quel mentre, è arrivato il podestà con tutta la corte armata. Subito i malfattori si sono dati alla fuga, chi da una parte e chi dall'altra. Alcuni, però, sono stati catturati e condotti alla prigione del castello di Sant'Antonino. 
Chissà se almeno nel giorno di Pasqua ci sarà una tregua? 


Piacenza, 15 ottobre 1444 

Sono appena tornato da Lione. Ancora carico d'emozioni e di ricordi, sono stato riportato bruscamente alla realtà con le solite e meschine beghe monastiche. 
Dunque, pare che i conventuali, dopo vari assalti e successive cacciate, ce l'abbiano fatta. Ma andiamo con ordine. Alla fine d'agosto, quando con Matteo Cigala stavo inerpicandomi per la strada tortuosa del Moncenisio, i conventuali avevano ripreso il controllo di San Giovanni. Evidentemente il loro ricorso alla violenza non aveva turbato più di tanto il duca di Milano: di lì a poco, in virtù d'alcune sue lettere, il convento veniva restituito ai frati dell'Osservanza. Finché, qualche giorno fa, si sono rinnovate le scandalose scene da parte dei conventuali, che sono riusciti a cacciare gli osservanti. Per quanto tempo non si sa; dipende dalle decisioni che verranno prese. Per ora si parla di scomuniche… 


Piacenza, 1 novembre 1444 

Poche righe per dire che tutte le clamorose liti tra i domenicani sono finite. Forse tutti i santi del Cielo, messi insieme, sono riusciti dove uno solo di loro, San Domenico, niente aveva potuto. Assolti dalle scomuniche, mediante la restituzione fatta alla sagrestia di San Giovanni dei libri, dei paramenti, dei calici e di tutte le cose di cui s'erano impossessati, i conventuali rimangono padroni del campo. 


Piacenza, 5 febbraio 1445 

"Caro Lorenzo, che cosa credevi? Di questi tempi - pensa soltanto al duca che cerca di liberarsi di suo genero, lo Sforza, o alle lotte appena finite tra i vari papi per occupare la cattedra di San Pietro - non c'è da meravigliarsi che dei frati si facciano la guerra" mi diceva, questa sera, il signor Matteo. 
Sarà pur vero, tuttavia queste cose mi scandalizzano ancora. Non contenti di rimanere padroni di San Giovanni, i conventuali hanno preso a perseguitare quelli dell'Osservanza: giorni fa imprigionando fra Pietro Rinaldi, che si era rifugiato nelle case del Consorzio dello Spirito Santo, e oggi catturandone altri. 
"Dio solo sa come, hanno armato una grossa masnada di uomini - gente pessima, dico io - e con questa gentaglia sono andati alla parrocchia di San Giorgio dove si erano rifugiati gli osservanti. Ne hanno presi alcuni, che poi hanno cacciato nelle carceri di San Giovanni. Quattro frati dell'Osservanza, che erano ospitati in casa di Lazzaro della Porta, sono sfuggiti all'arresto per miracolo: Giovanni Anguissola, avuto forse il sentore di quanto si andava preparando, è riuscito nottetempo a farli arrivare sani e salvi a casa sua con la scorta di duecento uomini armati". 


Piacenza, 14 maggio 1445 

Ho riletto queste pagine e mi sono reso conto che rispondono ben poco a quanto mi ero proposto di fare. Avevo cominciato a scrivere, pensando che ciò potesse servire da sfogo nei momenti di solitudine; dovevano essere le impressioni di un forestiero ospitato in una terra non sua, le memorie di viaggi e di fatti curiosi. Avete visto fin dove è andato Lorenzo Trigosio, chi ha incontrato e che cosa ha fatto? immaginavo che avrebbero detto di me i miei discendenti. E invece che cosa mai potranno pensare di un uomo che in questi due anni non ha fatto altro che raccontare una guerra grottesca tra domenicani? Ma dato che sono giunto fino a questo punto della storia, è opportuno che l'aggiorni. 
Le scene che si sono verificate a febbraio sono continuate sino al principio di questo mese. Il podestà, proprio in questi giorni, è riuscito a sventare la cattura di fra Tommaso Bresciano, un predicatore dell'Osservanza. Il piano ordito dai conventuali prevedeva che un certo Baderna Beccajo, su ordine di fra Rainaldo Cartàro e fra Guglielmo Scurzano, rapisse l'osservante per condurlo nelle carceri di San Giovanni.


Piacenza, 22 giugno 1445 

Dopo tanti rabbiosi litigi, Filippo Maria Visconti si è deciso e ha fatto valere la sua autorità: San Giovanni rimane ai conventuali e dello stesso parere è il Maestro Generale dell'Ordine. I più informati dicono che si è giunti a questa decisione per la pressione e gli uffici dei molti e potenti protettori dei conventuali. E i poveri frati dell'Osservanza? Se non riescono a trovare un altro luogo sacro che li ospiti, essi dovranno ribattere la via per cui erano venuti, hanno ordinato il duca e il Generale dei domenicani. 
Dunque questa storia è finita, così come è cominciata; con l'unica differenza che alla gioia ora si sostituiscono le lacrime dei nobili, delle matrone e di chi aveva voluto i frati dell'Osservanza. C'è chi prevede addirittura che il Cielo irato verserà su Piacenza l'intero vaso di Pandora. Io non sarò qui a vedere, visto che tra qualche giorno farò ritorno a Genova, e nemmeno m'interessa la veridicità di questa profezia. Tuttavia una domanda continua ad assillarmi: a cosa è servito tutto ciò? 



Terzo episodio dei racconti piacentini di Anna, questa volta in forma epistolare. Anche questo è tratto da una storia vera, il conflitto sanguinoso all'interno dell’ordine domenicano di Piacenza per il possesso di un monastero, nel triennio 1442-1445. Qualche anno più tardi sarebbe nato Girolamo Savonarola, un altro domenicano capace di incendiare una città.

venerdì 20 luglio 2012

Opera buffa, di Anna Maccagni

Nessuno avrebbe potuto immaginare che quell'anno il carnevale sarebbe terminato prima del tempo. Colpito da una violenta indigestione, l'ultimo duca di casa Farnese agonizzava in compagnia degli schiamazzi delle maschere e dell'acciottolio insistente delle carrozze, che s'inseguivano per le vie cittadine sfidando i rigori dell'inverno. Era un requiem assai poco spirituale, ma che si adattava bene a quell'uomo gaudente e portato agli eccessi. 
Steso sul letto e quasi soffocato dalla straripante pinguedine, Antonio Farnese riviveva in una sorta di delirio i momenti più esaltanti della sua ancora breve vita. Invano il confessore cercava di richiamarlo ai suoi ultimi doveri di cristiano; il duca pensava solo alle baldorie fatte prima di dover succedere al fratello, morto senza eredi. 
Torino, Parigi, Londra, i Paesi Bassi, Vienna e poi Roma… Aveva assaporato e gustato i migliori frutti di mezz'Europa: tornei, concerti, balli e banchetti, i vellutati segreti delle alcove, niente era sfuggito alla sua insaziabile ingordigia. I ricordi fluivano, si sovrapponevano e si frammentavano nelle immagini più strane: carni burrose di cortigiane che si squagliavano in bocca come dolci zabaioni, voluttuose consistenze d'ostrica che scivolavano umide sulle labbra… 
Il sacerdote guardò con disgusto quel corpo enorme che si agitava sul letto di morte e il viso arrossato che s'illuminava ancora di lascivia e di desideri impronunciabili. Come poteva concedere l'assoluzione ad un uomo che non dava segno di voler morire cristianamente? D'altronde era impossibile rifiutare il perdono di Dio a chi tra gli avi contava un papa e alcuni cardinali, a meno di suscitare uno scandalo d'enormi proporzioni. Monsignor Marazzani gli aveva lasciato capire che tutta la curia romana guardava al duca con particolare benevolenza; e quando un monsignore diceva tutta a quel modo, alzando un dito in direzione del cielo, ad un povero prete non restava altro che obbedire. Così, allontanando gli scrupoli come se fossero insetti molesti, benedisse il moribondo concedendogli la remissione di tutti i peccati. 
All'indomani della morte dell'ultimo Farnese, quando già gli spagnoli e l'imperatore si preparavano a prendere possesso di Piacenza e Parma e i papalini scalpitavano a Bologna per fare altrettanto, si aprì il testamento e si venne a sapere che la dinastia, che aveva governato le due città per circa duecento anni, non si era estinta. Il duca Antonio, infatti, convinto che la moglie fosse rimasta incinta, aveva lasciato suo erede il ventre pregnante della Serenissima signora Duchessa. 

Monsignor Marazzani camminava inquieto da più di mezz'ora. Il suo passo pesante, riconoscibile per lo sbattere dei tacchi, risuonava per il lungo corridoio che portava agli appartamenti ducali. 
"Credete che ci vorrà ancora molto?" chiese al commissario apostolico. 
"Mettetevi tranquillo! Il medico e le levatrici che stanno visitando la duchessa sanno il fatto loro. Vedrete che tra un po' verranno a confermarci quanto già sappiamo". 
"Ma se, per ipotesi, la duchessa non fosse incinta?" 
"Per carità, monsignore… per carità! Non pensatelo neanche! Sapete bene quanto ne soffrirebbe il pontefice, che tanto ha fatto perché questa dinastia continuasse". 
Monsignor Marazzani ricordava bene con quale zelo il papa avesse cercato di dare moglie ad Antonio Farnese, che dal canto suo aveva ben altro in mente. Diverse erano state le proposte di matrimonio, tutte lasciate cadere: una Condé, una Borghese, una principessa del Liechtenstein… Finché era arrivata Enrichetta, la terzogenita del duca di Modena, che aveva sposato Antonio quando ormai nessuno ci sperava più. 
"Parliamoci chiaro, monsignore - continuò il commissario apostolico. - Dove troveremmo un'altra famiglia disposta a governare sotto l'altro patronato della curia? Non penso proprio che l'infante di Spagna, proposto come successore dei Farnese dai trattati di pace di Vienna, sia quello che si definisce un docile agnello! Perciò negli interessi della Chiesa dobbiamo credere fermamente all'esistenza di un erede e, trattato o no, vedrete che alla fine gli imperiali se ne dovranno andare". 
Camillo Marazzani percepì dell'astio nella voce dell'uomo mandato da Roma. Evidentemente l'arrivo dei tedeschi, che avevano occupato il ducato in nome dell'infante Carlo, gli bruciava ancora; pareva quasi che avesse subito un affronto personale… Cosa avrebbe potuto fare un individuo del genere, se tutto non fosse andato secondo i suoi piani? 
Ad un tratto, da una delle porte, uscirono il medico e le cinque levatrici che avevano visitato Enrichetta.
"Dunque?" chiese il commissario apostolico con voce leggermente stridula. 
"Possiamo affermare che la signora duchessa è in stato interessante" rispose il medico, senza mai staccare gli occhi dalle cinque donne. 
"Ne siete davvero sicuri? Siete pronti a firmare una dichiarazione giurata?" 
"Naturalmente. Se desiderate interrogare le levatrici, anche loro non potranno che ribadire quanto vi ho già detto. Non è vero? Rispondete dunque!" le esortò il medico con fare arrogante. 
Abbastanza in soggezione, le donne confermarono la gravidanza. 
"Va bene, va bene! Adesso potete ritirarvi… Avete visto, monsignore? La reggenza della duchessa è salva!" esclamò compiaciuto il commissario. 
"Sì, ma per quanto tempo ancora?" pensò Camillo Marazzani. Se anche in quei pochi mesi fosse andato tutto bene, che cosa sarebbe capitato al ducato, se a nascere fosse stata una femmina anziché il sospirato erede maschio? La soldataglia spagnola, angherie, nuovi soprusi… Con quelle immagini negli occhi, il prelato cominciò ad invocare la divina provvidenza, perché esaudisse i desideri del papa. 

Seduta ad una delle grandi finestre della sua camera, Enrichetta lasciava correre lo sguardo sugli alberi del parco. Che strano… Non si era mai accorta del languore sottile che coglieva le piante nel mese di settembre; bastava un refolo di vento o la bava impalpabile delle prime foschie, per fare breccia tra il fogliame rigoglioso. Già, ma quante volte si era fermata ad osservare ciò che la circondava? Sapeva di non essere molto intelligente: la dolce e cara Enrichetta dicevano di lei a Modena, poiché era evidente che non riuscivano a trovare un complimento migliore. Non era brillante, né bella e non aveva nessuna delle doti che avevano rese grandi le sue ave. Il matrimonio con Antonio Farnese era giunto inaspettato, quando tutti ormai la vedevano vestita da monaca in uno dei tanti conventi della zona. 
"Antonio, perché mi avete lasciata?" singhiozzò, versando qualche lacrima. 
Si sentiva perduta senza le cure e le attenzioni che il duca le aveva sempre prestato. All'inizio, quell'uomo grasso e molto più anziano di lei l'aveva spaventata; poi si era resa conto che quel poco che le chiedeva come marito veniva ogni volta ripagato con larghezza e signorilità. Le aveva fatto conoscere i giardini di delizia, i carnevali, le feste e le parate e lei si era fatta trascinare in quella girandola di lusso e di divertimenti con la leggerezza e l'irresponsabilità di una bambina. 
La morte di Antonio aveva interrotto quel gioco e di colpo si era trovata circondata da persone importanti, che conosceva poco e che non le piacevano affatto, le quali avevano preso il controllo della situazione, imponendole un ruolo che non era suo. Voleva fuggire, scappare… Ma dove avrebbe potuto nascondersi, se gli occhi gelidi del commissario apostolico la seguivano ovunque? Anche durante la visita che le avevano imposto per verificare il suo stato, aveva sentito quello sguardo su di sé e le mani che perquisivano, violavano e umiliavano la sua intimità le erano sembrate quelle dell'incaricato del papa. 
Tutto ciò che riguardava quella visita costituiva ancora un mistero. Ne aveva atteso il responso con timore e trepidazione, allo stesso modo di chi aspetta d'essere liberato d'un peso o d'una colpa. E invece non era successo nulla: il medico e le levatrici avevano accertato la gravidanza con soddisfazione di tutti, anche del papa che, con un breve, aveva confermato la reggenza. Nessuno aveva notato il suo stupore e il suo imbarazzo. 
"Coraggio, duchessa - le aveva detto il vescovo Marazzani, immaginando che temesse per il buon esito della gravidanza. - Affidiamoci a Dio, perché tutto dipende dalla sua volontà!" 
Gli occhi del commissario apostolico l'avevano sfiorata con un guizzo beffardo, in cui si mescolavano provocazione e ammonimento, e a lei non era rimasto altro che tacere. 
Il letto troneggiava in mezzo alla stanza: preziose sete, finissime tele di Fiandra, pizzi e merletti d'un candore immacolato attendevano da giorni che si compisse il lieto evento. 
Nascosta dietro una pesante portiera, Enrichetta vedeva finalmente il luogo dove si sarebbe deciso il suo destino. Avrebbe dato qualsiasi cosa per liberarsi dalla rete tessuta con le fragili illusioni del marito. Povero Antonio! Oppresso dalle continue insistenze del papa, aveva creduto che quella notte avesse risolto tutti i problemi della successione. Oh, ma non gliene faceva una colpa! Anche lei, alla lettura del testamento, se n'era convinta, nell'intima persuasione che le parole di un uomo ormai giunto in Cielo non potessero non essere vere. 
Poi erano giunti i giorni del disinganno, ma per lei non c'era stato niente da fare. Come poteva dire la verità, quando nessuno voleva udirla? E più il tempo passava e più era difficile parlare: temeva di deludere le aspettative di tutto il ducato, temeva di essere derisa ed umiliata. Era al corrente che nelle città si scommetteva sulla sua gravidanza e che molti ridevano ancora per quel ventre pregnante scritto nel testamento. Così si era rassegnata e aveva cominciato a sperare in un miracolo. C'erano tanti santi in paradiso, capaci di compiere cose meravigliose! C'era chi riattaccava una gamba, chi sanava ferite, chi riportava in vita i morti. Piangerò la mia vedovanza e piangerò la mia sterilità si lamentava Sant'Anna; ma il Signore aveva ascoltato la sua preghiera... Perché non poteva capitare anche a lei di ricevere una grazia? Si era aggrappata con tenacia a quest'idea e continuava a crederci ancora, nonostante fosse ormai scaduto il tempo senza che niente fosse accaduto. 
"Che fate, signora duchessa? - chiese una delle sue dame, scorgendola dietro alla portiera. - Nelle vostre condizioni, non dovreste stare in piedi!" 
"Perché stanno mettendo quelle sedie? Perché quelle poltrone attorno al letto?" domandò Enrichetta. 
"Ci sarà molta gente ad assistere al parto, duchessa. I membri della reggenza, i legati del papa e quelli dell'imperatore…" 
"Volete dire che saranno tutti qui, mentre io…" 
"La nascita di un Farnese non è mica una questione che si risolve in famiglia! - esclamò la dama, sconcertata da quell'ingenuità un po' ottusa. - Vedete? Là sederanno il vescovo e il commissario apostolico; qui il conte Baiardi e il conte Dal Verme…" 
Enrichetta non sentiva più le parole della donna. Tutto le girava attorno: vedeva i visi, le espressioni, le smorfie di quel pubblico scelto, che attendeva le ultime battute di quella farsa. S'immaginò le risate di derisione e di scherno, le volgarità pensate e mormorate, la pietà e il disprezzo. Vide l'orrore in cui stava precipitando… 
"Non sono incinta! - urlò con tutto il fiato che aveva in gola. - Non sono incinta, non lo sono mai stata!" 
"Che dite, duchessa? Calmatevi, per carità! Qualcuno potrebbe sentirvi e andare a riferire cose non vere!"
"Non sono incinta! Qui non c'è nessuno che deve partorire!" gridò ancora la duchessa, sfuggendo all'abbraccio della dama. 
Qualcun altro, però, dovette udirla, poiché in breve tempo tutti furono al corrente della falsa gravidanza; la sentì anche il commissario apostolico, mentre era ancora intento alle sue macchinazioni impossibili. 

Il 14 settembre 1731 poteva dirsi conclusa l'opera buffa recitata all'ombra del teatro Farnese: con un comunicato ufficiale, in cui dichiarava sul suo onore di essersi ingannata, Enrichetta usciva di scena. Accompagnata dalle continue e vane proteste del papa, cominciava l'epoca dei Borboni. 


–O–O–O– 


Il secondo dei racconti piacentini ancora inediti di Anna. Anche questo è tratto da una storia vera, compreso il bizzarro particolare del titolo lasciato da Antonio Farnese (1679-1731), ultimo della dinastia, al ventre pregnante della moglie Enrichetta d’Este che non era incinta. Il ducato passò così ai Borbone.

sabato 23 giugno 2012

In hoc signo vinces (di Anna Maccagni)

"Buffone! Millantatore!" gridavano i senatori della Serenissima. Il frastuono delle voci era assordante, ma più terribile ancora era lo sguardo gelido del doge. "La sfrontatezza di quest'uomo è imperdonabile! – tuonò un anziano. – Sostiene di essere il vero erede dei Comneni e ci offre il gran magistero dell'Ordine Costantiniano in cambio di denaro. Ma con chi crede di parlare? Sono ormai tre secoli che circolano titoli e onorificenze costantiniane, più o meno false, dispensate da individui che affermano d'avere sangue imperiale nelle loro vene!" 

Per la prima volta in vita sua, Giovanni Comneno si sentì perduto. La loquacità, con cui aveva ammaliato e confuso mercanti e signori, villani e prelati di mezzo mondo, sembrava svanita di fronte allo sdegno di quei nobili padri. Forse questa volta aveva davvero esagerato! Si guardò attorno spaventato, cercando d'indovinare dove fosse la porta che conduceva alle segrete del palazzo. Aveva sentito parlare degli sventurati che marcivano in quell'oscurità senza tempo; bastava una semplice denuncia anonima per finire sepolti in una cella dagli umidi muri, ricamati dal flusso e riflusso delle maree. Forse anche lui… ma no, non poteva finire così! Non c'era nessuno in grado di smascherarlo: egli era Giovanni Andrea Angelo Flavio Comneno, duca di Tessaglia e di Moldavia, principe di Macedonia, conte di Drivasto e Durazzo. Non avrebbero osato fargli del male: era l'ultimo discendente di quella lunga serie di Flavi, Angeli, Comneni, Lescaris e Paleologi che avevano imperato sulle terre d'Oriente. C'erano i documenti a provarlo e l'elegante calligrafia del falsario di Smirne era ancora ben leggibile, nonostante fossero passati molti anni… Egli era il Gran Maestro del sacro Ordine equestre della milizia angelico-aurata Costantiniana e sfidava chiunque a dimostrare il contrario! 
"Via! Mandatelo via! Non m'importa chi sia: questo Consiglio non ha tempo da perdere né con visionari né con imbroglioni!" ordinò infine il doge. 

Le voci sul rifiuto del senato si diffusero ben presto. La famiglia del Comneni si ritrovò bandita dalla migliore società veneziana. Risate velenose e mormorii di disprezzo inseguivano l'erede dei Flavi lungo le calli, rimbalzando tra le case di campielli solitari. Imbroglione! Ciarlatano! gorgogliava l'acqua, sciabordando spinta dalla brezza di mare. 

Il Comneno, che aveva fatto conto sul denaro che la cessione del maestrato gli avrebbe fruttato, cominciò a sentire l'odore della povertà. Malediceva il giorno in cui aveva accettato di sposare la sorella del Mandricardi: le ricchezze che donna Virginia e il conte Giuseppe dicevano di possedere si erano rivelate del tutto illusorie e così, oltre a se stesso e alla figlia che aveva avuto da una precedente relazione, si trovava costretto a mantenere anche la moglie e il cognato. 

La situazione era quasi disperata, quando da un piccolo stato lombardo – in cui si diceva che la gente crescesse a butirro e formaggio  –  giunse un uomo interessato ad acquistare il titolo di Gran Maestro. Gli occhi di Giovanni Comneno tornarono ad illuminarsi della strana luce che sempre lo accendeva quando credeva di avere il mondo tra le mani. 

"Onori, ricompense, ricchezze! Ma ci pensate? E voi che non credevate alle mie parole…" 
"Già, già… Ma questa volta a trattare ci sarò io, caro cognato – lo tacitò il conte. – Se è vero che il Farnese può pagare simili somme, converrete con me che non è proprio il caso di rischiare un altro insuccesso! Innanzi tutto occorre la massima segretezza: non vorrei che a qualche spione venisse il ghiribizzo di riferire le parole dette in Gran Consiglio; allora sì che sarebbero guai!" 

Il Mandricardi, che aveva ereditato dagli avi di Zante l'arte sottile del mercanteggiare, giocò bene le sue carte. Agitando con sapienza lo spauracchio del doge, che l'emissario del Farnese temeva di veder rientrare nella partita, chiese ed ottenne più di quanto non avesse mai sperato. In poco tempo la famiglia del Comneno fu pronta a lasciare Venezia. 

Infuriava la guerra per la successione al trono di Spagna e sul piccolo ducato immiserito gravava il peso degli acquartieramenti delle truppe imperiali; ma furono tanti gli onori con cui furono accolti i profughi, che essi pensarono di aver trovato il paese della cuccagna. Subito vennero fatti i preparativi per la cerimonia che avrebbe visto il duca rivestito del nuovo titolo. 
"Io, Giovanni Andrea Angelo Flavio Comneno, rinuncio al gran maestrato dell'imperiale angelico-aurato Ordine Costantiniano sotto il titolo di San Giorgio martire e della regola di San Basilio, in favore del duca Francesco e dei figliuoli discendenti, eredi e successori di lui in perpetuo" affermò solennemente l'uomo che si proclamava nipote dei Cesari. 
Mancava soltanto l'approvazione del papa e dell'imperatore. E quando, dopo vari maneggi e con una copiosa profusione di denaro, essi riconobbero nel Farnese la nuova dignità, piovvero le ricompense. Al Mandricardi toccò la castellania di Bardi, mentre il Comneno, provvisto di una pingue pensione, divenne castellano di Piacenza tra lo sconcerto dei cittadini, che non sapevano spiegarsi perché fosse stato scelto proprio quello straniero dall'accento cantilenante. Ma tante erano le cose che i piacentini non sapevano; una di queste era che all'interno del convento dello Spirito Santo languiva suor Maria Costanza della Croce, la figlia di Giovanni Comneno, monacata a forza per ragioni di stato. 


Non appena a Piacenza cominciò a circolare lo scritto De fabula equestris Ordinis Constantiniani, gli avversari di Francesco Farnese gongolarono. La soddisfazione di possedere l'opera del marchese Maffei si tramutò ben presto in un atto di sfida, quando si sparse la voce che il duca stava facendo il possibile per requisire tutte le copie esistenti nelle terre d'Italia. 

"Che cosa pensa d'ottenere? – malignarono in molti. – Tutta l'Europa ormai sa del raggiro e ride della sua dabbenaggine. Lui fa finta di niente, mostrandosi severo e altezzoso, ma chissà come si rode il fegato!" 

Non avevano tutti i torti: il Farnese si stava davvero consumando dalla rabbia, anche se non lo dava a vedere per paura di offuscare la sua immagine di principe rigoroso e di cristiano irreprensibile. Rigido e bacchettone, mal sopportava i giochi e gli scherzi, i motti arguti e le schermaglie; odiava le allusioni, i doppi sensi e tutte quelle sottigliezze verbali che, essendo privo di vivacità e d'ironia, non comprendeva e temeva. Non aveva preso nulla dal padre, il prodigo, fastoso e splendido Ranuccio; non appena gli era succeduto, aveva licenziato musici, buffoni e nani, tutta quella gaia corte per la quale il genitore aveva dilapidato somme favolose. Francesco si compiaceva di quel nuovo rigore, senza rendersi conto che ogni cosa, attorno a lui, illanguidiva nella tristezza e nella mediocrità. 

Ma, tra l'impegno ad escogitare nuove tasse, come quella prescritta per l'uso di cuffie e parrucche, e il tentativo di destreggiarsi tra i contendenti della guerra che insanguinava la Lombardia, il duca aveva avuto il tempo di concedersi un piccolo regalo: il gran maestrato dell'Ordine Costantiniano. Sì, perché l'uomo intransigente, che amava le privazioni, aveva sempre coltivato la segreta ambizione di ottenere qualche alta onorificenza che gli desse prestigio, forse parendogli poca cosa l'essere duca di uno staterello. Non avrebbe mai ammesso con nessuno questa sua debolezza e meno che mai di essere disposto a pagare per soddisfarla. Così, con gran riserbo, si era accaparrato a peso d'oro il titolo di Gran Maestro, facendo credere d'esserne diventato cessionario per alti meriti. I crucci che lo avevano afflitto, giacché l'uomo che lesina su tutto difficilmente si priva del suo a cuor leggero, furono ben poca cosa rispetto alle sofferenze che stava patendo per l'opera dell'erudito veronese. 

"Imbroglio? Raggiro? Che ne sa quel Maffei? – andava rimuginando il duca. – Solo un veneto è capace di simili bassezze! Celebre letterato? Ma via, non diciamo sciocchezze!" E intanto cercava di capire chi avesse indotto il marchese a scrivere quell'orribile dissertazione che infangava la memoria del povero Comneno e screditava il nome dei Farnese. Scipione Maffei aveva pubblicato il testo a Parigi… Che c'entrasse la Francia? No, non era possibile! Francesco pensava piuttosto al governo della Serenissima che, dopo aver rifiutato il maestrato, ora si ribellava all'idea che fosse un altro a godere dei privilegi conferiti da quell'alta carica. Sì, più ci pensava e più era sicuro che l'ispiratrice dell'opera fosse Venezia. 

"On à supprimè la lettre que le Marquis Maffei, homme sovrainement habile, a ècrit l'an 1712 sur la fable des Chevaliers de Constantin; parceque se savant homme demontroit trop evidement ce qu'il avoit entrepris de prouver" 

Con un gesto di stizza, Francesco Farnese chiuse il volumetto e cominciò a misurare la stanza a grandi passi. Era furioso e nel pallore del viso risaltavano soltanto gli zigomi arrossati. 

"Via, non prendetevela!" – lo consigliò padre Tajani, chinandosi a raccogliere il libro che il duca aveva lasciato cadere. Era la famosa Dissertazione sopra il duello, che Jacopo Basnage aveva dato alle stampe l'anno precedente.

 "E' facile per voi parlare in questo modo! Sono quasi dieci anni che in Europa si ride di me, da quando quel Maffei ha osato mettere in dubbio la mia qualità di Gran Maestro; ed ora le sue calunnie vengono riprese da altri… Leggete, leggete pure! Uno acquista un libro per provare diletto, sfoglia le pagine ed ecco, a tradimento, quelle parole che feriscono come tante pugnalate. Mi pento di non aver dato retta a chi mi domandava l'autorizzazione d'uccidere il marchese!" 

"Duca, duca… Non dite così! Posso ricordarvi che cosa rispondeste in quell'occasione? La proposta che mi fate troppo si disdice a un principe e troppo più a un cristiano, così diceste. Ricordate? Sono queste le parole che il pontefice vuol sentire da voi". 

Francesco Farnese guardò il gesuita venuto da Roma. Era alto, belloccio, di quella bellezza un po' florida e molle che poteva far pensare a un carattere mite e benevolo; ma bastava osservare la bocca stretta e sottile, gli occhi piccoli e freddi per cogliere la vera natura del soldato della milizia di Sant'Ignazio. 

"Questo prete sarebbe capace di fare e di dire qualsiasi cosa nell'interesse del papa  – pensò il duca, sentendo il rancore montargli dentro.  –  Parla di carità e di bontà, quando sa benissimo che la clemenza di Roma nei miei confronti è stata pagata con moneta sonante". Teneva al titolo di Gran Maestro più di ogni altra cosa al mondo; l'aveva bramato e desiderato con quell'intensità che solo i fanciulli provano per un balocco che forse non possederanno mai. Aveva sborsato fior di quattrini per ottenerlo, ma era stata così grande la sua soddisfazione che si era quasi convinto di essere stato chiamato da una volontà superiore a guidare l'antico e sacro Ordine. Nonostante i dispiaceri causati dal Maffei, si era cullato in quel sogno e lo coltivava con amore. Era un giocattolo fragilissimo, effimero come la porcellana più fine; bastava il respiro di chi era a conoscenza della verità per farlo incrinare. No, non poteva gradire la presenza del gesuita, che in ogni momento gli ricordava cose che aveva deciso di dimenticare… 

Padre Tajani colse l'ombra che offuscava lo sguardo del duca e subito cercò di porvi rimedio, usando le parole che la sua grande abilità persuasiva man mano gli suggeriva. 

"Pensate davvero che il papa non vi abbia nel cuore? Non dimenticate che vi ha difeso dagli attacchi del principe di Zweibruecken; senza chiedere nulla in cambio, questo pontefice vi ha dato ragione e vi ha accordato rendite, privilegi e onori non certo disprezzabili!" 

Quelle parole agirono sul Farnese come un balsamo miracoloso, portando sollievo al suo animo piagato da mille sospetti. Ricordava ancora il ricorso presentato da Gustavo Leopoldo, principe di Zweibruecken, il quale pretendeva di essere il vero Gran Maestro della dorata milizia Costantiniana. Quante sofferenze, quanti dispiaceri! Gli era persino venuto il sospetto che Giovanni Comneno l'avesse ingannato. Oh, ma poi si era pentito di quei pensieri poco cristiani! La bolla solennissima di Clemente XI, che dichiarava insussistenti le pretese del tedesco e che riconosceva invece i suoi diritti, era la prova che non era stato raggirato. Erano piuttosto i suoi nemici a ordire trame, a macchinare in segreto per rovinarlo; egli era la vittima di un grande complotto che partiva da Venezia e arrivava chissà dove. Oh, ma aveva capito gli oscuri disegni che miravano a distruggere la sua credibilità! Era l'invidia ad animare quei signori, pura e semplice invidia per il gran magistero che l'ultimo e unico erede dei Comneni gli aveva ceduto. In hoc signo vinces erano state le parole che il grande Costantino aveva visto in cielo prima di sconfiggere Massenzio. In hoc signo vinces avevano proclamato solennemente i cavalieri del Sacro angelico imperiale Ordine Costantiniano; Federico Barbarossa, Riccardo Cuordileone, Filippo II di Francia, Casimiro di Polonia e tanti altri re ed imperatori sembravano a Francesco benevoli numi tutelari. In hoc signo vinces: era ormai sicuro che nessuno più avrebbe osato discutere la sua carica. 

All'illustrissimo Cardinale Legato di Bologna. 
Eccellenza, è con grande soddisfazione che posso annunciarvi che sono state ritrovate le tracce dell'uomo che il Santo Padre fa ricercare. Sembra che l'Alberoni abbia trovato ricetto nel Vostro distretto, dove vivono alcuni dei suoi più fedeli amici. Sono certo che troverete utile quest'informazione e che presto potrete procedere all'arresto del Cardinale. 

Non occorre che ricordi alla Signoria Vostra l'aiuto prezioso che il duca Francesco ci ha offerto in questo frangente e le indicibili diligenze che ha usato per scovare la dimora dell'Alberoni: l'arresto di certi fiorenzuolani e l'invio d'uffiziali a frugare nelle case di alcuni signori, con i quali il Cardinale ha avuto commercio di lettere, sono opera sua. Finché il gran maestrato rimane in cima ai suoi pensieri, ritengo che il duca continuerà a servire con coscienza gli interessi della Santa Chiesa Romana. Rammentate con quanta sollecitudine rispose all'invito di Sua Santità, che chiedeva a tutti i principi cristiani d'intervenire nel Peloponneso contro il turco Acmet? Persuaso che la Macedonia, la Moldavia e la Dalmazia fossero sue in virtù della cessione a lui fatta dal Comneno, in un batter d'occhio inviò in quelle provincie il battaglione Costantiniano di ben seicento fanti. Bastò fargli credere che, una volta liberati dai Mussulmani, quei luoghi sarebbero tornati in suo possesso perché accorresse per primo. 

Ho dovuto ripetere fatti già noti, e di questo chiedo perdono all'Eccellenza Vostra, ma sono convinto che una loro analisi permetta di comprendere a fondo il duca, che è e rimane una pedina molto importante. Egli, non dimentichiamolo, ha bisogno di noi per difendersi dagli attacchi che gli vengono mossi in merito all'Ordine Costantiniano. A questo proposito mi è giunta notizia che è stato pubblicato a Ratisbona l'albero genealogico di un certo Gian Antonio Lazier, da Perlò della Val d'Aosta, calzolaio di professione. Costui, che si fa chiamare Gian Antonio de Flavi, Angeli, Comneni, Lascaris, Paleologi, sembra che intenda provare la sua discendenza per retta linea maschile dall'imperatore Emanuele II Paleologo e conseguentemente gl'incontrastabili diritti suoi al gran maestrato dell'Ordine suddetto. Il nostro duca è andato su tutte le furie e pensa di ribattere per iscritto, anche se a me non pare buona cosa che un sovrano debba prendersi la briga di confutare le tesi di un ciabattino. Sarebbe una provvidenza che tale opera non vedesse la luce delle stampe, perché le ragioni che il Farnese adduce sono miserabili e ridicole insieme, e le ingiurie petulanti e maligne. 

Nell'attesa di poter fornire altre notizie, mi raccomando alla benevolenza della Signoria Vostra. 
Di Piacenza, nel giorno 25 di febbraio 1721 
padre Giuseppe Tajani S. J.

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Uno dei racconti piacentini ancora inediti di Anna. È tratto da una storia vera: l’Ordine Costantiniano, nato dall’invenzione di un impostore e dalla dabbenaggine di Francesco Farnese, è tuttora esistente e intrattiene rapporti ufficiali con il Presidente della Repubblica.