Il blog vive una piccola fase di stallo, per motivi di vita e lavoro, e non viene aggiornato con la solita frequenza. Comunque è meglio non dir nulla che dover scrivere compulsivamente basta che sia. In attesa di un articolo serissimo, che arriverà presto, un'incursione nel campo della vignetta.
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mercoledì 4 dicembre 2013
martedì 28 agosto 2012
Leporeambi politici irregolari indignati disincantati
Al talento bizzarro del poeta Ludovico Leporeo (1582–1653 circa) ho già dedicato un articolo un paio d’anni fa. Egli fu l’inventore dei leporeambi, poesie di forme diverse (molto spesso sonetti), con metrica variabile, piene di termini inusitati, parole sdrucciole e bisdrucciole, rime interne, assonanze, allitterazioni, un funambolico meccanismo al quale l’autore pensava di affidare la propria fama d'inventore di un nuovo modo di far poesia. Autore barocco per eccellenza, in lui la grande capacità tecnica prevaleva sul messaggio: la sua arte è stata accusata di dir niente nel modo più complicato possibile, eppure è una poesia seducente, a tratti anticipatrice degli esperimenti delle avanguardie o dei giochi dei ludolinguisti.
I leporeambi morirono con il proprio creatore, almeno fino a quando un blogger che poeta non è gli ha trovati simpaticamente adatti all’invettiva politica, pur essendo consapevole della sua grande imperizia tecnica. Preveggente, il Leporeo gli dedicò questo sonetto:
Leporeambo alfabetico duodecasillabo satirico unisono irrepetito
Contra un improvisatore
acoli-ecoli-icoli-ocoli
O tu, che in poesia fai li miracoli
E 'l tutto hai penetrato allor che specoli,
Giust'è che l'universo si trasecoli,
Ché in verseggiar non hai minimi ostacoli.
Tu stampe non adopri o carte macoli,
E fai versi latini, etruschi, e grecoli,
E dicon quelli a cui narrando io recoli
Che per la bocca tua parlan gli oracoli.
Tu li poeti e i retori sventricoli,
L'Arcifanfano fai degli Arcicocoli,
E del rimario sai tutti gli articoli.
Argo sei de' Tersiti e de' monocoli,
Degno che per le piazze e per li vicoli
Ti si lancino aranci e bericocoli.
Quelli qui di seguito presentati sono componimenti dal metro irregolare, piuttosto zoppicanti, scritti per sfogare una certa indignazione in una forma che la fa virare verso il disincanto. La loro allegra idiozia è un tentativo di cogliere l’odierno cretinismo parlamentare e mediatico.
Leporeambo irregolare politico indignato irrepetito
A un trasformista di lungo corso
otto-etto-atto-itto
Meriteresti di prigion anni otto,
per il ceffo tuo che pare un retto,
la bocca larga da fare effetto
e il naso grosso da fagiol borlotto.
Poi altri trenta perché sei corrotto,
piduista come il nano abbietto,
vestito sempre in doppiopetto,
che ti prese come zerbinotto.
Per la menzogna tu sei adatto,
e dentro di te ti credi un dritto,
ma tarocco sei come il bagatto.
Or finisce l’era del gran guitto
e tu con lui, politico d’accatto,
leccante lacchè, ciccio Cicchitto.
Leporeambo irregolare politico infuriato irrepetito
Al moderato dai toni concilianti
ente-inte-onte-ante
I compari ti dicon intelligente
per le tue uscite assai distinte,
che nella saggezza paion intinte:
del compromesso tu sei l’agente.
Ma non scordo quando, indecente,
con parole di doppiezza incinte,
parlasti alla Camera dalle quinte
rivendicando opposizion clemente.
E quando dicesti di tua sponte
a seguaci e nipoti di Almirante
che Salò era un degno fronte.
Mente conciliante e benpensante,
per il poter, vero camaleonte,
daresti pur il culo, mio Violante.
Leporeambo irregolare politico acrostico irrepetito
Il capopopolo
allo-ello-ollo-illo
Benvenuto anche tu al gran ballo
E della politica il gran bordello,
Per pestar col tuo randello
Padrino, ruffiano e lor vassallo.
Eminenza, deputato e maresciallo,
Gelosi del lor pingue orticello,
Riuniti in furioso capannello,
Imprecan con parole da camallo.
La Presidenza perde il controllo,
Levandosi con fare da caudillo:
Oramai paventa il suo tracollo.
Ritieni che basti indicar bacillo?
Inver sei illuso fino al midollo,
Perché curar non sai, Beppe Grillo.
sabato 18 agosto 2012
Il missile del Papa
L’obelisco è ancora lì, nel bel mezzo di Piazza San Pietro, da quando fu issato nel 1586. Sì, quello portato a Roma per ordine di Caligola nel 37, l’unico rimasto in piedi da quei tempi, che si ergeva di fianco alla chiesa di Santa Maria della Febbre e fu portato dove adesso si trova per realizzare il folle progetto di Sisto V e del suo architetto di fiducia, Domenico Fontana. L’Obelisco Vaticano doveva infatti servire per ben altro che abbellire il centro della cristianità.
Papa autoritario e inviso a molti, in soli cinque anni di pontificato (1585-1590), Sisto V cambiò il volto fisico e morale di Roma, costruendo grandiosi edifici, sventrando strade, sterminando i briganti e risanando le finanze vaticane con imposte odiose. Tuttavia, come molti grandi sovrani cui le contingenze hanno fornito poteri quasi assoluti, era percorso da una vena di ambizione smisurata e, dopo essere stato uno zelante e feroce inquisitore, da un certo delirio di onnipotenza. Era convinto che, sotto la sua guida, la cristianità avrebbe potuto annientare il Turco e voleva trasportare il Santo Sepolcro in Italia, come avevano fatto gli Angeli con la Casa di Maria portata in volo a Loreto, nelle sue Marche.
Il ticinese Domenico Fontana era l’artefice preferito di Sisto V da ben prima che questi diventasse papa e lo nominasse architetto di San Pietro, insignendolo dello Speron d’Oro. Grande ingegnere civile, sapeva organizzare i cantieri con metodo ed efficienza, risolveva con soluzioni geniali i problemi di statica e di idraulica, ma le sue numerose opere architettoniche sono piuttosto ripetitive perché, una volta trovata una soluzione, tendeva ad applicarla ovunque lo ritenesse necessario. Lo si direbbe persona di grande razionalità, se non si conoscesse quanto il lettore troverà di seguito.
Entrambi questi uomini avevano una passione nascosta, che li avvicinò sempre più e che fu la radice del loro folle progetto: guardare il cielo notturno. L’astronomia era l’ossessione del cardinal Montalto, il futuro papa Sisto, che nella contemplazione delle meraviglie del creato trovava un mezzo per l’elevazione spirituale. Possedeva una copia dell’Almagesto di Tolomeo e sapeva calcolare le posizioni dei pianeti per mezzo dei loro epicicli. Anche Fontana era un osservatore del cielo, soltanto che egli quelle meraviglie voleva cambiare, lasciando un segno dell’umano ingegno nello schema celeste voluto dall’Onnipotente. Ne parlavano tutte le volte che si incontravano, tra un progetto e l’altro, tra un comando e un resoconto. Fontana sapeva come solleticare la vanità del potente cardinale, e un giorno gli propose di intitolare una stella a suo nome. Ottenne un diniego, ma sapeva che la modestia nasconde spesso ambizioni ancor più elevate. Dopo qualche mese, si era alla vigilia del conclave, parlarono finalmente del progetto, insieme folle e spudorato: far nascere una nuova stella, perforando la sfera delle stelle fisse e creare una nuova luce nel firmamento.
Una volta divenuto Vicario di Cristo, secondo solo a Lui sulla Terra, Sisto V poté finalmente tentare di realizzare il suo sogno, che nel frattempo il Fontana aveva studiato nei minimi dettagli. La sfera più esterna dell’Universo Mondo è perforata da buchi attraverso i quali può penetrare un po’ di luce dell’Empireo. Sono questi buchi le stelle fisse, così dette perché, al contrario di quelle dello zodiaco, non cambiano mai posizione durante l’anno. Nel corso della millenaria vicenda umana, Iddio si è compiaciuto di variare il suo schema primigenio: nuove stelle sono comparse sulla sfera, spesso con bagliori tanto intensi da essere visibili per qualche tempo anche di giorno. Evidentemente la sfera superiore non è inattaccabile: un corpo sufficientemente grande, lanciato con moto sufficientemente elevato, può perforarla liberando la luce divina.
Il problema, se teoricamente è risolvibile, è per l’uomo praticamente irrealizzabile: nessun proietto lanciato dall’uomo, neanche con un potente cannone, potrà mai aver la forza sufficiente per raggiungere tale distantissimo obiettivo. L’uomo da solo non potrà mai, ma Dio volendo… e come può Dio volere se non attraverso la preghiera del Papa? Il proietto sarebbe stato mosso dalla forza spirituale della preghiera congiunta del Papa e dei cardinali presenti a Roma. Il proietto ideale, che doveva perforare come un chiodo la parete dell’ultima sfera celeste, fu individuato dal Fontana nell’obelisco, che avrebbe dovuto essere portato davanti a san Pietro per essere più vicino alla fonte stessa della misericordia e della preghiera: la tomba dell'Apostolo.
I colossali lavori di trasporto e di innalzamento in posizione verticale dell’enorme obelisco in granito rosso sono noti a tutti e sono rimasti nell’immaginario del popolo romano. Lo stesso artefice ne ha fatto un’accurata relazione, corredata da bellissime incisioni, in Della trasportazione dell'obelisco vaticano et delle fabriche di Nostro Signore Papa Sisto V fatte dal Cavallier Domenico Fontana architetto di Sua Santità, libro primo, Domenico Basa, Roma 1590. Le immagini rendono l’idea assai più delle parole. Da solo, il castello di legno che doveva servire da rampa di lancio è un’opera ingegneristica che ancor oggi suscita ammirazione.
L’opera fu completata il 10 settembre del 1586, quando l’obelisco fu issato con l’ausilio di un gigantesco sistema di argani. Il lancio, inizialmente previsto per la ricorrenza della Madonna del Rosario, il 7 ottobre, fu rinviato per una leggera indisposizione del pontefice. La data celebrava la vittoria del 1571 ottenuta contro il Turco nella Battaglia di Lepanto, quando Papa Pio V chiese alla cristianità di pregare con il rosario per chiedere la vittoria della flotta cristiana, che infatti avvenne, grazie all'intercessione della Vergine Maria. Si decise allora di dare corso all’ambito sogno pontificio alla mezzanotte del successivo 25 dicembre, quando una nuova luce nel cielo, la Stella Sistina, avrebbe celebrato la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo come una novella cometa.
Senza rivelarne il vero motivo, si ordinò che in tutte le chiese di Roma fosse recitato il Santo Rosario a partire da un’ora prima della mezzanotte fino allo scoccare del dodicesimo tocco. Il Papa, i Cardinali e i diaconi si riunirono in preghiera sulla tomba del Santo. Solo Sisto e il Fontana conoscevano la miracolosa sorpresa che avevano intenzione di fare all’ecclesia cristiana, talmente grande da poter riportare i luterani nell’ovile di Cristo, e forse gli stessi mussulmani.
Carichi di tensione, i due attesero il momento programmato. C’è chi giura di aver sentito Domenico Fontana accompagnare gli ultimi rintocchi contando alla rovescia: “Quattro, tre, due, uno, Alleluia!”. Ma nulla accadde. Il Papa scambiò tristemente gli auguri natalizi con i cardinali, avviandosi a celebrare la Messa di Natale. Il Fontana si diresse verso la propria residenza, chiedendosi che cosa fosse andato storto, giungendo persino a dubitare della reale santità di Sisto. Fu un pensiero momentaneo, che scacciò mentre spegnava la luce della candela.
L'obelisco è rimasto dov'era, mancato missile del Papa.
domenica 12 agosto 2012
Monet, la cataratta e i colori
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Ninfee, 1897-1899. Galleria
d’arte moderna e contemporanea, Roma
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Nel 1912 a Claude Monet (1840-1926), che da qualche anno lamentava problemi agli occhi, fu diagnosticata una cataratta bilaterale, che comporta un processo di progressiva perdita di trasparenza del cristallino e un ingiallimento e oscuramento dei colori percepiti. Man mano che la malattia progredisce, i cristallini degradati filtrano una parte dello spettro della luce visibile, e i colori che si percepiscono diventano confusi: i bianchi e i verdi diventano giallastri, i rossi assumono un tono arancio, i blu e i violetti sono sostituiti dai rossi e dai gialli; i dettagli si fanno vaghi e i contorni scompaiono per diventare sfuocati.
Monet continuò a dipingere, ma la malattia lo costrinse a lottare per farlo. Si lamentava con gli amici che gli pareva di vedere tutto in una nebbia. Così scriveva intorno al 1914: "i colori non avevano più la stessa intensità per me; non dipingevo più gli effetti di luce con la stessa precisione. Le tonalità del rosso cominciavano a sembrare fangose, i rosa diventavano sempre più pallidi e non riuscivo più a captare i toni intermedi o quelli più profondi (...) Cominciai pian piano a mettermi alla prova con innumerevoli schizzi che mi portarono alla convinzione che lo studio della luce naturale non mi era più possibile ma d'altra parte mi rassicurarono dimostrandomi che, anche se minime variazioni di tonalità e delicate sfumature di colore non rientravano più nelle mie possibilità, ci vedevo ancora con la stessa chiarezza quando si trattava di colori vivaci, isolati all'interno di una massa di tonalità scure". In quegli anni, durante la fase acuta della malattia i colori dei suoi quadri assumono il fondo giallo opalescente dovuto al difetto del cristallino. Anche se stendeva i colori secondo l’abitudine e l’esperienza, confidando nell’ordine invariato dei colori sulla tavolozza e nelle etichette dei tubetti, non era più in grado di giudicare l’effetto che la sua opera poteva avere sul pubblico, né poteva ritoccare i dipinti senza il rischio di errori di giudizio.
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Stagno di ninfee, 1899. The Art Museum Princeton University, Princeton, New
Jersey
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Stagno di ninfee, 1908. Collezione
privata, Sankt-Gallen
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Tra il 1919 e il 1922 Monet temeva di dover smettere di dipingere. Poteva farlo solamente durante certe ore in cui l’illuminazione era ottimale, ed era conscio che la vividezza dei colori che vedeva era compromessa. Aveva da qualche anno rifiutato la proposta di un intervento chirurgico almeno all'occhio più colpito, perché temeva di perdere la vista o, quantomeno, di non riuscire più a cogliere distintamente le forme degli oggetti. La situazione stava tuttavia peggiorando, ed egli fu infine persuaso dall'amico Georges Clemenceau (suo futuro biografo) a vincere le proprie paure.
Il
ponte giapponese, 1920-22. The Museum of Modern Art, New York
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Dopo anni di cure infruttuose, nel gennaio 1923, Monet fu operato per la rimozione del cristallino dell’occhio sinistro. Con una spessa lente correttiva, Monet poteva di nuovo vedere in modo accettabile, ma all’inizio lamentò visione doppia e distorsione delle immagini, rifiutando l’operazione all’altro occhio. Anche la percezione dei colori era radicalmente mutata: “Vedo il blu e non vedo più il rosso; ciò mi fa arrabbiare terribilmente perché so che questi colori esistono, perché so che sulla mia tavolozza c’è il rosso, il giallo, un verde speciale, un violetto particolare; non li vedo più come li vedevo un tempo”. Verso la fine dell’anno i problemi visivi si risolsero ed egli poté tornare a dedicarsi alla pittura. Solo che poteva vedere anche colori che non aveva mai visto prima. Monet, infatti, incominciò verosimilmente a vedere (e a dipingere) anche nell’ultravioletto.
Noi possiamo convertire la luce nella visione grazie ai fotorecettori (coni e bastoncelli) della retina, che catturano i fotoni e attivano segnali elettrici che viaggiano fino al cervello attraverso il nervo ottico. I coni sono strutture pigmentate che si concentrano nella zona centrale della retina (la fovea) e sono deputati alla visione dei colori (fotopica) e alla visione distinta; ne esistono tre tipi diversi, sensibili rispettivamente al rosso, al verde e al blu. I bastoncelli, invece, sono più sensibili al movimento, sono impiegati per la visione al buio (scotopica) e si concentrano nella zona periferica della retina.
L'occhio umano non è in grado di captare le onde luminose di lunghezza d'onda inferiore a quella del viola (ultraviolette) o di lunghezza superiore a quella del rosso (infrarosse). La visione avviene all’interno del cosiddetto spettro della luce visibile, che si colloca tra le lunghezze d’onda dai 380 ai 760 nm (1 nm, nanometro, corrisponde a un miliardesimo di metro). Gli uccelli, molti insetti e altri animali possiedono recettori in grado di vedere lunghezze d'onda luminose diverse da quelle percepite dall'essere umano. Ad esempio, si è scoperto che le api percepiscono i raggi ultravioletti, ma non percepiscono quelli rossi, che noi vediamo. La visione ultravioletta ha favorito l’evoluzione di pigmentazioni ultraviolette in molti organismi. In alcune specie di farfalle, maschi e femmine appaiono identici all'occhio umano, Tuttavia, alla luce ultravioletta, i maschi sfoggiano nitide macchie ultraviolette sulle ali per attirare le femmine. Molti fiori possiedono colori ultravioletti, spesso utilizzati per attirare l’attenzione degli insetti pronubi, come api e farfalle.
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Visione ultravioletta |
Ciascun tipo di cono risponde con efficacia a un particolare colore, ma può essere sollecitato più debolmente dalle onde vicine nello spettro. Ad esempio, il fotorecettore sensibile alla luce violetta può rispondere debolmente alla luce ultravioletta, che possiede una frequenza maggiore. La maggior parte delle persone non fa questa esperienza, perché i nostri cristallini filtrano i raggi ultravioletti. Ma Monet poteva farlo, perché i soggetti con afachia (assenza del cristallino) sono spesso in grado di essere sensibili a lunghezze d’onda di 350 nm o meno ancora. Rimosso il cristallino, egli poté continuare a dipingere le ninfee e gli altri fiori, il ponte in stile giapponese, lo stagno e i giochi d’acqua e di luce tra i salici del suo giardino di Giverny, che fu il centro della produzione artistica del pittore negli ultimi trent’anni di vita.
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Lo stesso angolo di giardino prime e dopo l'intervento |
Dopo l’operazione, sappiamo che Monet distrusse alcune delle sue tele più recenti. Molte di queste rimangono oggi solo perché furono messe in salvo dalla famiglia e dagli amici. Egli era perfettamente consapevole del mutamento nella sua percezione dei colori dopo l’intervento. Infine riprese fiducia nella sua capacità visiva e lavorò con lena a rifinire le grandi tele delle ninfee ora esposte al Musée de l’Orangerie di Parigi.
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Ninfee,
1920-26. Musée de l’Orangerie, Paris
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Le ninfee rimasero uno dei suoi soggetti preferiti, solo che, dopo l’asportazione del cristallino, i fiori erano diversi. Scomparvero i toni giallastri dei dieci anni precedenti e tornarono i blu e i bianchi. Non è escluso, come è stato ipotizzato, che gli occhi di Monet potessero catturare alcune delle frequenze nel campo ultravioletto riflesse dai petali e a trasferirle su tela mescolando opportunamente il blu e il bianco.
Un artista vede sempre cose che gli altri non vedono, è il suo dono ed è il suo compito rivelarle: così Marcel Proust (1871-1922), che amava i quadri di Monet e ne condivideva la sensibilità, dipinse (è il caso di dirlo) ad esempio le ninfee, in un brano del primo libro di Alla ricerca del tempo perduto, “La strada di Swann” (1913), che mostra rispetto all’opera del pittore una vicinanza impressionante:
Ma più lontano il fiume rallenta il suo corso, percorre una tenuta il cui accesso era aperto al pubblico da colui che la possedeva e che s’era compiaciuto in lavori d’orticoltura acquatica, facendo fiorire, nei piccoli stagni formati dalla Vivonne, veri giardini di ninfee. (…) Qua e là, alla superficie, rosseggiava come una fragola un fior di ninfea dal cuore scarlatto, bianco agli orli. Più lontano, i fiori più numerosi erano più pallidi, meno lisci, più graniti, più increspati, e disposti dal caso in volute di tanta grazia che pareva di vedere nuotare alla deriva, come dopo lo sfogliarsi malinconico d’una festa galante, delle rose borraccine in ghirlande disciolte. Altrove, un angolo sembrava riservato alle specie più comuni, che sciorinavano i lindi bianchi e rosa della giuliana, lavati come porcellana con cura casalinga, mentre un po’ più lontano, serrati gli uni contro gli altri in una vera aiuola galleggiante, si sarebbero detti delle viole del pensiero, venute a posare come farfalle le loro ali bluastre e lucenti sull’obliquità trasparente di quell’aiuola acquatica; (…)
(traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1978, pp. 180-181)
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Il
ponte giapponese, 1919-24. National Gallery, London
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Tuttavia, nel caso di Claude Monet, possiamo supporre che, negli ultimi due anni di vita, egli potesse vedere davvero cose che gli altri non possono vedere.
martedì 6 marzo 2012
Gli Astrostoppisti
Premetto che, in ogni caso, la risposta è 42, ma non so se farà piacere ai molti seguaci di Douglas Adams sapere che Guida galattica per gli autostoppisti, pubblicato per la prima volta nel 1979 e capostipite dell’omonima serie, può avere un precedente italiano. Si tratta della serie a fumetti Gli Astrostoppisti, scritta dal milanese Alfredo Castelli (1947) e disegnata dal rodigino Nevio Zaccara (1924-2005), che fu pubblicata per qualche anno da Il Giornalino a partire dal 1971. Devo confessare che non conoscevo questo fumetto, sia perché in casa mia era sempre entrato solo Il Corriere dei Piccoli, sia per motivi anagrafici, dato che all’epoca giocavo già al piccolo rivoluzionario. Ne sono venuto a conoscenza parlando con un collega durante l’intervallo, il quale ricordava con affetto queste peripezie spaziali.
Le avventure di Arthur Dent e Ford Perfect nell'Orlo Esterno Est della Galassia sono qui anticipate da quelle di Kal e Morgan, che iniziano e terminano sempre al Bar ai confini della galassia (e coincidenza inquietante, il secondo libro della “trilogia in cinque parti” di Adams s’intitola proprio Ristorante al termine dell’Universo). Qui sotto pubblico solo le prime due tavole di un episodio degli Astrostoppisti, rimandando il lettore al blog Corrierino e Giornalino per leggerlo interamente. C’è tuttavia da considerare che Guida Galattica è infallibile. È la realtà, spesso, ad essere inesatta.
DON’T PANIC!
venerdì 17 febbraio 2012
Altre biografie essenziali
Sapevo che Peppe Liberti prima o poi le avrebbe ripescate. L’ha fatto ieri sul blog Quantum Beat, che gestisce sul portale di Focus. Sto parlando delle biografie essenziali degli scienziati (in particolare dei fisici), ispirate da quelle più generaliste e altrettanto belle che da anni costituiscono una delle perle della collana di Barabba, la cosa editoriale del Many, Marco Manicardi, ultima delle tante glorie di Carpi. Si tratta di biografie di poche righe, talvolta scherzose, talaltra amare, che cercano di cogliere l’essenza della vita e dell’opera di un grande personaggio.
A quel gioco giocammo, nell’aprile del 2010, Peppe, io e il fisico delle particelle Tommaso Dorigo, e lo facemmo proprio sul blog di quest’ultimo, in inglese perché sui blog degli scienziati si scrive in inglese. Giunsero contributi anche dagli Stati Uniti e ci si svagò in modo intelligente sulle due sponde dell’Atlantico. Sapevo che Peppe ne aveva scritte altre, che infatti ha pubblicato nell’articolo di Focus. Anch’io avevo proseguito a scriverne da solo, ma aspettavo di renderle note perché l’idea iniziale era stata sua e suo era il diritto di parlarne per primo. Ora posso pubblicare le mie, scritte e pensate in italiano, che allargano il campo ad altre discipline oltre alla fisica e forse possiedono un pizzico di maggiore irriverenza (ergo: sono più sceme). Sono state concepite per puro divertimento (“e lasciatemi divertire!”), che spero di trasmettere al lettore.
William Gilbert provò nel De Magnete che la Terra è una grande calamita, attaccata sullo sportello del frigo dell’universo.
Secondo un biografo fiorentino, James Clerk Maxwell morì prima dei cinquant'anni in seguito al suo viaggio a Pisa.
L’abate Gregor Mendel scoprì le leggi dell’ereditarietà studiando piselli odorosi. Anche in quel caso la Chiesa cercò di mettere tutto a tacere.
Quando Volta inventò la pila, finalmente si capì come utilizzare le radioline a transistor.
Solo a Torino Avogadrò poté determinare il numero di molecole contenute nella mole.
Giordano Bruno fu una delle figure più luminose degli inizi del Seicento.
La leggenda vuole che Gerberto di Aurillac, in seguito divenuto papa Silvestro II, possedesse una testa meccanica in grado di parlare come Celentano.
Arthur Eddington fu il primo a osservare la deviazione della luce di una lampada accesa dietro a Giuliano Ferrara.
Secondo la Legge di Liebig, la crescita di una pianta è controllata dalla disponibilità della risorsa più scarsa, ma alcuni preferiscono aggiungere un pezzo di manzo e gli odori per il brodo.
Se l'istituto di fisica fosse stato in via Garibaldi, nessuno oggi ricorderebbe i ragazzi di via Panisperna.
Su L'uomo a una dimensione di Marcuse anche i matematici possono azzardare una linea di commento.
Grande esperto di geometrie non euclidee, Aldo Moro inventò le “convergenze parallele”. Il compromesso storico avvenne nell’equilibrio precario su una superficie sferica.
Storia di un’ossessione: dopo aver disegnato un pidocchio ingrandito dal microscopio, Robert Hooke non riusciva a toglierselo dalla testa.
Giuseppe Peano complicò la matematica semplificando il latino.
Le immagini che corredano questo articolo sono dell’artista russo Sergey Tyukanov, il nuovo Hyeronimus Bosch surrealista, con un po’ di Jacovitti.
sabato 28 gennaio 2012
Benvenuti al Gatto Nero
Posto ai piedi della collina di Montmarte, il cabaret de Il Gatto Nero fu, nei due decenni alla fine dell’Ottocento, uno dei locali più alla moda e uno dei luoghi favoriti dagli artisti e dalle persone che contavano a Parigi. Fondato nel novembre 1881 da Rodolphe Salis, un artista di scarso talento giunto a Parigi nove anni prima, il locale, che prese il nome da un gatto nero perduto sul marciapiede che Salis trovò durante i lavori che precedettero l’apertura, sarebbe dovuto diventare un ritrovo “nello stile dell’epoca di Rabelais” dove “gentiluomini, borghesi e ricchi proprietari saranno d’ora in poi invitati a bere l’assenzio preferito di Victor Hugo (quello che piaceva a Garibaldi) e del vino speziato in coppe d’oro”.
In realtà, nonostante le velleità del proprietario, forse infiammato della lettura di Huysmans, all’inizio vi si serviva del vino mediocre in un ambiente abbastanza anonimo, ma i clienti erano già accolti da un portiere in livrea, coperto d’oro dalla testa ai piedi, incaricato di far entrare i pittori e i poeti e di lasciar fuori “gli infami preti e i militari”. Questa trovata si rivelò una delle chiavi del successo del Gatto Nero, e fu mantenuta in tutti i diversi luoghi nei quali il locale si trasferì, sempre nella stessa zona di Parigi. L’altra chiave del suo successo fu l’acquisto di un pianoforte e la possibilità per i clienti di cantare ed esibirsi in letture di poesie, dibattiti artistici, vernici pittoriche e tutto ciò che potesse animare e allietare le serate degli avventori. Più tardi nel locale fu allestito un teatro d’ombre colorate nel quale vennero rappresentati dei piccoli capolavori di artisti come Henri Rivière e Caran d'Ache, accompagnati dalle musiche di Georges Fragerolle.
Pittori (tra i quali talvolta Henri de Toulouse-Lautrec), poeti, scrittori, musicisti, umoristi, davano vita alle serate del cabaret, il quale, come sempre succede in questi casi, attirò la miglior clientela della capitale, in cerca di emozioni trasgressive e di sapore di Bohème: con il loro denaro, Salis poté acquistare uno spazio più ampio, disposto su tre piani arredati in modo fintamente antico, con vere opere d’arte accostate alla paccottiglia più kitsch. Secondo il poeta satirico e polemista Laurent Tailhade, Le Chat Noir fu “il miscuglio de Lo Scannatoio di Zola e della Divina Commedia”, mentre secondo lo scrittore Jean Lorrain fu “il minestrone di tutti gli stili e di tutte le stravaganze, la sfilata del casual d’artista, di tutto un quartiere di ladri e poeti, un museo picaresco e barocco di tutte le elucubrazioni dei bohémiens venuti ad arenarsi tutti in quel luogo per vent’anni, di tutti questi relitti; il cattivo gusto più vero a fianco di ritrovamenti raffinati, (…) nello scenario più miracolosamente truccato”.

Steinlen (1859-1911), fu l’autore nel 1896 del celebre manifesto della Tournée du Chat noir, una litografia di 40 x 62 centimetri oggi al museo Van Gogh di Amsterdam, ma diventato uno dei simboli di Parigi, al punto da essere riprodotto su milioni di poster e cartoline. Per quanto la maggior parte delle sue opere fosse testimonianza delle idee politiche di ribelle nemico dell’ingiustizia (scene di lavoro in fabbrica e miniera, mendicanti e prostitute, artigiani di strada e disperati), Steinlen è diventato famoso per essere il pittore dei gatti, che egli dipinse in tutte le pose e in ogni situazione. Eccone alcuni.
Come è noto, gatti e mistero costituiscono un connubio frequente, e non poteva mancare per Le Chat Noir una leggenda oscura, diffusasi quando l’alchimista Fulcanelli pubblicò nel 1930 le Dimore filosofali. Secondo le parole dell’enigmatico pensatore, il locale sarebbe stato fino alla morte di Salis “un centro esoterico e politico” che avrebbe attribuito grande importanza a tutta una serie di simboli dissimulati con cura.
L’eredità del pensiero occulto nascosta, ma sotto gli occhi di tutti, tra la paccottiglia raccolta al Mercato delle Pulci, sotto l’insegna del Gatto Nero. Per me è perfetto.
lunedì 9 gennaio 2012
Riflessioni sui paesaggi incantati
Quattro riflessioni su alcune delle opere dell’amica Paola Senesi.
Borgo lunare con scia di luce
Un singolare fenomeno celeste,
così l’astronomo lo decreta:
sopra il villaggio, durante le feste,
è apparsa una Luna cometa.
Con regolare gobba a ponente
e plurima coda incantata,
percorre la notte lentamente,
presagio di una felice giornata.
Paul Klee
Non li vendono dagli ottici
gli occhialetti di Paul Klee:
son di vetri catadiottrici
temperati nel Beaujolais.
Se li inforchi con l’intento
di disegnare un paesello,
nell’avanguardia del ‘900
entra subito il tuo pastello.
All I have to sing is songs of freedom
Perché cantano le casette
allineate sul davanti?
Che cosa dicon le vocette
di edifici melodianti?
Cantano un reggae delicato,
una song di redenzione,
con il disegno colorato
speranza di liberazione.
Borgo orientale sulle nuvole
Un villaggio sospeso in aria,
su una nube rossa equilibrista,
sembra l’utopia rivoluzionaria
di un malinconico maoista,
ma per l’assalto al cielo
sola non basta l’ideologia:
all’inventiva si tolga il velo,
vada al potere la fantasia.
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