Un’ulteriore conferma alle dimostrazioni di Eulero arrivò da Gauss con l’opera Disquisitiones generales circa superficies curvas, vera pietra miliare nella storia della geometria differenziale, che Gauss pubblicò nel 1828. Riflettendo su cosa significasse definire le superfici, scoprì che la curvatura è una loro caratteristica intrinseca, perché è interamente determinata dalle misurazioni nella superficie e non coinvolge in alcun modo una terza dimensione normale ad essa. Così le superfici non andavano più considerate come immerse nello spazio tridimensionale, ma piuttosto “non come contorni di corpi, ma come corpi di cui una dimensione è infinitamente piccola”, una specie di velo “flessibile ma inestensibile”. La maggior parte delle superfici ha una curvatura non nulla, maggiore o minore di 0. Al contrario, se la superficie è un piano, la sua curvatura è nulla in tutti i suoi punti.
Gauss studiò anche quando
una superficie può essere mappata su un'altra in modo tale che le distanze non
siano alterate, e dimostrò che una condizione necessaria affinché ciò accada è
che le curvature nei punti corrispondenti siano le stesse. Ad esempio, il
cilindro e il piano sono localmente isometrici; sebbene curva, la superficie
laterale del cilindro ha una curvatura zero nel senso di Gauss, proprio come il
piano, ed è per questo che è possibile stampare con un tamburo rotante (la
geometria intrinseca del cilindro è piatta, in quanto su di essa valgono tutti
gli assiomi del piano euclideo). Una sfera (con curvatura positiva) e il
piano (con curvatura nulla), invece, hanno sempre curvature diverse e non
possono essere fra loro isometriche.
Visto che l’errore è
sempre presente, si sceglie la proiezione che lo minimizza per il nostro scopo.
Esistono infatti diverse leggi proiettive, in grado di privilegiare il
mantenimento delle proporzioni tra le superfici, o tra le distanze, o
conservare gli angoli tra direzioni. Un altro importante fattore di distorsione
è la scala, cioè il rapporto tra distanze sulla mappa e distanze sul terreno.
In genere, tanto più grande è la scala, tanto maggiore è l’errore.
Il paradosso della mappa
in scala 1.1
L’ideale sarebbe una
mappa in scala 1:1, ma anche in questo caso sorgono problemi. Il notissimo
paradosso di Borges relativo alla Mappa dell’Impero, contenuto in Storia
universale dell’infamia (1961), e contenuto nel frammento
Del rigore della scienza, ci permette di evidenziarli. Come
sua abitudine, l’autore argentino attribuisce la citazione a un libro che in
realtà non esiste:
“(…) In quell'Impero,
l'Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola
Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell'impero tutta una Provincia.
Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero
una Mappa dell'Impero che aveva l’Immensità dell'Impero e coincideva
perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno
portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme fosse
inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e
degl'Inverni. Nei deserti dell'Ovest rimangono lacere Rovine della Mappa,
abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle
Discipline Geografiche. (Suárez
Miranda, Viajes de varones prudentes, libro
IV, cap. XIV, Lérida, 1658)”.
Umberto Eco, nel Secondo
diario minimo (1992), esaminò con finta serietà la possibilità teorica di
tale mappa e, attraverso speculazioni sulla sua possibile natura (mappa opaca
stesa sul territorio, mappa sospesa, mappa trasparente, permeabile, stesa e
orientabile), sul suo ripiegamento e dispiegamento, giunse a concludere, sulla
base del paradosso di Russell (l’insieme di tutti gli insiemi che non
appartengono a se stessi appartiene a se stesso se, e solo se, non appartiene a
se stesso), che tale mappa non potrebbe rappresentare l’insieme territorio +
mappa.
Il logico e divulgatore
Piergiorgio Odifreddi è stato più conciliante, affermando che l’ipotesi di una
mappa perfetta di un territorio disegnata su una sua parte non implica comunque
una contraddizione, perché esiste almeno un punto del territorio che coincide
con la sua immagine sulla mappa. Il teorema del punto fisso di
Banach-Caccioppoli garantisce infatti che una qualsiasi contrazione definita su
uno spazio metrico ammette almeno un punto fisso, dove l'immagine sulla mappa
coincide con il punto stesso. Il che vuol dire che una mappa, anche in scala
1:1, è sempre infedele, tranne che in quel solo punto.
Odifreddi dice inoltre
che “Una delle ossessioni di Borges, apparentata all'autoriferimento e
apparentemente paradossale, è la cosiddetta mappa di Royce, che egli ha citato
almeno tre volte”. In effetti Borges cita esplicitamente il paradosso del
filosofo idealista americano Josiah Royce in un passo del saggio Magie
parziali del “Don Chisciotte”, contenuto in Altre inquisizioni (Feltrinelli,
1963, ma l’originale è del 1960):
“Le invenzioni della
filosofia non sono meno fantastiche di quelle dell’arte: Josiah Royce, nel
primo volume dell’opera The world and the individual (1899),
ha formulato la seguente: ‘Immaginiamo che una porzione del suolo d'Inghilterra
sia stata livellata perfettamente, e che in essa un cartografo tracci una mappa
d’Inghilterra. L’opera è perfetta. Non c’è particolare del suolo d’Inghilterra,
per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto ha lì la sua
corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve contenere una mappa della mappa,
che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così all'infinito’.”
Il paradosso di Bonini
Charles P. Bonini,
professore emerito di Scienze gestionali alla Stanford Graduate School of
Business, è stato esperto, ricercatore e insegnante delle applicazioni delle
tecniche quantitative e statistiche ai problemi decisionali. Queste tecniche
includono analisi delle decisioni, modelli di ottimizzazione, sistemi di
elaborazione, teoria delle code, simulazione e data mining. È stato autore e
coautore di numerosi libri di testo.
Nel 1963 propose quello
che è noto come il Paradosso di Bonini che illustra la difficoltà di
costruire modelli o simulazioni che colgano completamente il funzionamento di
sistemi complessi (come il cervello umano).
Nel dibattito scientifico
moderno, il paradosso è stato articolato nel 1971 da John M. Dutton e William
H. Starbuck: "Quando un modello di un sistema complesso diventa più
completo, diventa meno comprensibile. In alternativa, quando un modello diventa
più realistico, diventa anche altrettanto difficile da capire quanto i processi
del mondo reale che rappresenta”.
Questo stesso paradosso
era stato accennato nel 1942 da un “cattivo pensiero” del filosofo-poeta Paul
Valéry: "Ce
qui est simple est toujours faux. Ce qui ne l'est pas est inutilisable" (Ciò
che è semplice, è sempre falso. Ciò che non lo è, è inutilizzabile.)
Inoltre, lo stesso
argomento fu discusso dall’agronomo, matematico, ecologo e filosofo della
scienza Richard Levins nell’articolo per l’American Scientist "The
Strategy of Model Building in Population Biology" (1966), dove
affermava che i modelli complessi hanno "troppi parametri da misurare,
portando a equazioni analiticamente insolubili che supererebbero la capacità
dei nostri computer, ma i risultati non avrebbero alcun significato per noi
anche se potessero essere risolti”.
Il paradosso di Bonini
può essere visto come un caso di relazione mappa-territorio: mappe più semplici
sono rappresentazioni meno accurate ma più utili del territorio.
Devo dire che mi è subito
affiorato alla mente il ricordo della frequenza ai corsi di aggiornamento sulla
costruzione delle mappe concettuali (quelle vere, non dei semplici diagrammi
spacciati per esse), dove veniva chiesto di programmare delle attività
didattiche interdisciplinari e di costruire la mappa dei contenuti della
propria materia da integrare con quelle elaborate dai colleghi. Il risultato di
tale volenterosa attività erano dei lenzuoli incomprensibili a tutti i
partecipanti. Il bello è che in seguito questa prassi fu utilizzata
obbligatoriamente nelle progettazione delle cosiddette Unità Formative a
livello di istituto, che andavano declinate anche come competenze, in ossequio
ai dettami del vangelo predicato da Bertagna e fatto proprio dall’allora
ministra Moratti. Ero bravissimo a preparare tali mostruose e rizomatiche piovre,
ma mentivo sapendo di mentire.
La mappa non è il
territorio
L’originale matematico, ingegnere e filosofo
polacco-americano Alfred Korzybski (1879-1950) osservò che "la mappa
non è il territorio" e che "la parola non è la cosa",
sintetizzando la sua visione che un'astrazione derivata da qualcosa, o una
reazione ad essa, non è la cosa stessa. Korzybski sosteneva che molte persone
confondono le mappe con i territori, cioè confondono i modelli della realtà con
la realtà stessa.
Korzybski voleva criticare le ambiguità del linguaggio
e fondare una nuova dottrina di (quasi) tutto che chiamava Semantica generale
(un’idea che purtroppo sedusse anche gente psico-cosa tipo L. Ron Hubbard,
quello di Scientology, per dire), ma la sua frase rimase nella storia
del pensiero.
Korzybski sosteneva che gli esseri umani sono limitati
in ciò che conoscono dalla struttura del loro sistema nervoso e dalla struttura
delle loro lingue. Gli uomini non possono sperimentare il mondo direttamente,
ma solo attraverso le loro "astrazioni" (impressioni non verbali o
"spunti" derivati dal sistema nervoso e indicatori verbali espressi
e derivati dal linguaggio). Questi a volte ci ingannano su quale
sia la verità. La nostra comprensione a volte manca di somiglianza di
struttura con ciò che sta realmente accadendo. In termini più astratti, la
proposizione di Korzybski asserisce che sempre quando c'è pensiero o percezione
oppure comunicazione sulla percezione vi è una trasformazione, una
codificazione, tra la cosa comunicata e la sua comunicazione. Soprattutto, la
relazione tra la comunicazione e la cosa comunicata tende ad avere la natura di
una classificazione, di un'assegnazione della cosa a una classe. Dare un
nome è sempre un classificare e tracciare una mappa è essenzialmente lo stesso
che dare un nome. Bisogna anche dire che onestamente riconobbe che “Una
mappa non è il territorio che rappresenta, ma, se corretta, ha una struttura
simile al territorio, il che spiega la sua utilità”.
L'espressione comparve per la prima volta in stampa in
"A Non-Aristotelian System and Its Necessity for Rigor in Mathematics
and Physics", resoconto di una conferenza che Korzybski tenne a una
riunione della American Association for the Advancement of Science a New
Orleans il 28 dicembre 1931. Il documento fu ristampato in Science and
Sanity (1933). In questo libro, Korzybski riconosceva il suo debito nei
confronti del matematico Eric Temple Bell, la cui epigrammatica asserzione "la
mappa non è la cosa mappata", comparve nel saggio Numerology nello
stesso anno. Il libro di Temple Bell era un serio tentativo di smontare ogni
velleità di intravvedere significati simbolici nei numeri e dedicava un
capitolo intero a criticare l’idea di alcuni matematici suoi contemporanei che “Il
cosmo è matematica pura e la matematica pura è il Cosmo”, giungendo a
contestare persino l’idea di isomorfismo se riferita alla relazione tra
matematica pura e realtà esterna.
Il territorio non è il territorio
Gregory Bateson, in Verso un'ecologia della mente
(1972), nel capitolo "Forma, sostanza e differenza" (basato sulla conferenza per il
diciannovesimo Annual Korzybski Memorial, tenuta il 9 gennaio 1970), sostenne
in modo radicale l’impossibilità di sapere cosa sia un territorio reale.
Qualsiasi comprensione di qualsiasi territorio si basa su uno o più canali
sensoriali che riportano in modo adeguato ma imperfetto:
“Diciamo che la mappa è diversa dal territorio; ma che cos’è il
territorio? Da un punto di vista operativo, qualcuno (...) è andato a ricavare
certe rappresentazioni che poi sono state riportate sulla carta. Ciò che si
trova sulla carta topografica è una rappresentazione di ciò che si trovava
nella rappresentazione retinica dell’uomo che ha tracciato la mappa; e se a
questo punto si ripete la domanda, ciò che si trova è un regresso
all’infinito, una serie infinita di mappe: il territorio non entra mai in
scena. Il territorio è la Ding an sich [la cosa in sé], e con esso non c’è
nulla da fare, poiché il procedimento di rappresentazione lo eliminerà sempre, cosicché
il mondo mentale è costituito solo da mappe di mappe, ad infinitum”.
“Tutti i ’fenomeni’ sono letteralmente ’apparenze’. Oppure si può andare
nel verso opposto della catena. Io ricevo vari generi di mappe, che chiamo dati
o informazioni; e, quando le ricevo, agisco. Ma le mie azioni, le mie
contrazioni muscolari, sono trasformate [informazioni] di differenze nel materiale
d’ingresso, e io ricevo dati che sono a loro volta trasformate delle mie
azioni. Si ottiene così un quadro del mondo mentale che in qualche modo si è
affrancato dal nostro quadro tradizionale del mondo fisico”. (...)
“Torniamo alla mappa e al territorio e chiediamoci: "Quali sono le
parti del territorio che sono riportate sulla mappa?". Sappiamo che il
territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui
qui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe
riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità
cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di
fatto, è la differenza, si tratti di una differenza di quota, o di
vegetazione, o di struttura demografica, o di superficie, o insomma di
qualunque tipo. Le differenze sono le cose che vengono riportate sulla mappa.
Ma che cos’è una differenza? Una differenza è un concetto molto peculiare
e oscuro. Non è certo né una cosa né un evento. Questo pezzo di carta
differisce dal legno di questo leggio; vi sono tra essi molte differenze, di
colore, di grana, di forma, eccetera. Ma se cominciamo a porci domande sulla
localizzazione di quelle differenze, cominciano le difficoltà. Ovviamente la
differenza tra la carta e il legno non è nella carta; ovviamente non è
neppure nel legno; ovviamente non è nello spazio che li separa; e non è
ovviamente nel tempo che li separa. (Una differenza che si produce nel corso
del tempo è ciò che chiamiamo ’cambiamento’). Dunque, una differenza è un’entità
astratta”. (...)
“Nelle scienze fisiche gli effetti, in generale, sono causati da condizioni
o eventi piuttosto concreti: urti, forze e così via. Ma quando si entra nel
mondo della comunicazione, dell’organizzazione, eccetera, ci si lascia alle
spalle l’intero mondo in cui gli effetti sono prodotti da forze, urti e scambi
di energia. Si entra in un mondo in cui gli ’effetti’ (e non sono sicuro che si
debba usare la stessa parola) sono prodotti da differenze. Cioè essi sono
prodotti da quel tipo di ‘cosa’ che viene trasferita dal territorio alla mappa.
Questa è la differenza”.
Altrove, in quello stesso volume, Bateson ha sostenuto che l'utilità di una
mappa non è necessariamente una questione di veridicità letterale, ma di avere
una struttura analoga, per lo scopo in questione, al territorio.
Jean Baudrillard in Simulacri e
simulazione (1981) sosteneva che il processo di mascheramento della mappa è
ormai giunto alle sue estreme conseguenze: lo sviluppo dei media offusca il
confine tra mappa e territorio, consentendo la simulazione delle idee
codificate in segnali elettronici. Oramai è la mappa che precede il territorio,
o addirittura lo sostituisce. Adesso si direbbe che viviamo in un’epoca di
post-verità, che è come dire di menzogna (occhio: non sta parlando di scienza,
ma di media).
Un'analogia specifica che Jean Baudrillard
usa è proprio il racconto della mappa dell’impero. Nell'interpretazione di
Baudrillard, il territorio non precede più la mappa né sopravvive alla mappa. È
la mappa che precede il territorio. Le persone vivono nella mappa, ossia nella
simulazione della realtà in cui la gente dell’impero passa la vita, garantendo
che il loro posto nella rappresentazione sia adeguatamente circoscritto e
dettagliato dai cartografi che hanno creato la mappa. Di contro la realtà si
sgretola per il disuso, infatti ciò che non si usa si atrofizza e ciò che si
atrofizza si perde. La transizione da segni che nascondono qualcosa a segni che
nascondono che non c’è nulla è la svolta decisiva.
“L'astrazione oggi non è più quella della
mappa, del doppio, dello specchio o del concetto. La simulazione non è più
quella di un territorio, di un essere referenziale o di una sostanza. È la
generazione per modelli di un reale senza origine né realtà: un iperreale. Il
territorio non precede più la mappa, né le sopravvive. Ormai è la mappa che
precede il territorio - precessione dei simulacri - è la mappa che genera il
territorio e, se dovessimo far rivivere la favola oggi, sarebbero i brandelli
del territorio che stanno lentamente morendo sulla mappa. È il reale, e non la
mappa, di cui vestigia sussistono qua e là, nei deserti che non sono più quelli
dell'Impero, ma i nostri. Il deserto del reale stesso. (…)
Ma non si tratta più né di mappe né di
territorio. Qualcosa è scomparso: la grande differenza tra loro, che era il
fascino dell'astrazione. Perché è la differenza che forma la poesia della mappa
e il fascino del territorio, la magia del concetto e il fascino del reale.
Questo immaginario rappresentativo, che culmina ed è al tempo stesso
inghiottito dal folle progetto del cartografo di una coestensività ideale tra
mappa e territorio, scompare con la simulazione, il cui funzionamento è
nucleare e genetico, e non più speculare e discorsivo. (…) Il reale è prodotto
da unità miniaturizzate, da matrici, banchi di memoria e modelli di comando - e
con questi può essere riprodotto un numero indefinito di volte. Non deve più
essere razionale, poiché non è più misurato rispetto a qualche istanza ideale o
negativa. Non è altro che operativo. Infatti, poiché non è più avvolto da un
immaginario, non è più affatto reale. È un iperreale: il prodotto di una
sintesi irradiante di modelli combinatori in un iperspazio senza atmosfera. In
questo passaggio ad uno spazio la cui curvatura non è più quella del reale, né
quella della verità, l'età della simulazione inizia così con una liquidazione
di tutti i referenti (...) nei sistemi di segni, che sono un materiale più
duttile che il significato, in quanto si prestano a tutti i sistemi di
equivalenza, a tutte le opposizioni binarie e a tutta l'algebra
combinatoria.
(…) Mai più il reale dovrà essere
prodotto: questa è la funzione vitale del modello in un sistema di morte, anzi
di risurrezione anticipata che non lascia più alcuna possibilità anche in caso
di morte. Un iperreale ormai al riparo dall'immaginario, e da ogni distinzione
tra reale e immaginario, che lascia spazio solo alla ricorrenza orbitale dei
modelli e alla generazione simulata della differenza”.
Che fare?
Forse aveva ragione Lewis Carroll, che, per non
sbagliare, disegnò per i protagonisti de La caccia allo Snark una mappa
dell’Oceano completamente vuota? Assolutamente no. La mappa non è il
territorio, e forse tutti i modelli sono falsi. Ma proprio perché consci di
questo, senza derive di nichilismo epistemologico (Ignoramus et ignorabimus),
possiamo dedicarci a scoprire, con tutti i nostri limiti, il mondo che ci
circonda. Sono i suoi limiti epistemologici, ontologici, semplicemente logici,
che fanno grande l'impresa scientifica, compreso il difficile compito di
costruire mappe e modelli che siano esplicativi, predittivi, coerenti con il
contesto e altre mappe. È scienza: funziona, anche se ci sarà sempre un mistico
fallito, un complottista, un teorete, un terrapiattista o un prete a sparare
cazzate.