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domenica 23 giugno 2024

Varietà e tempi della storia

 



Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. E’ quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

(Eugenio Montale, da Satura, 1971)

Un accenno di Umberto Eco in un lungo articolo dell'ottobre 1963 pubblicato in due parti su Rinascita (Per una indagine sulla situazione culturale) ricorda, non senza criticare il suo marxismo messianico e utopistico, il pensiero del filosofo e scrittore tedesco Ernst Bloch (1895-1977) e soprattutto una concezione del tempo storico molteplice e plurale, di non simultaneità (Ungleichzeitigkeit) tra il tempo a seconda dei luoghi, delle culture, delle classi sociali ed economiche. Ecco il passo:
“E, in polemica con altre posizioni, Bloch cerca di suggerire una metodologia di indagine storica che risulti capace di collegare questi sviluppi non paralleli, avanzando una teoria della molteplicità, all'interno del decorso della Storia, dei tempi storici, quasi dislocati a titolo di appendice spaziale. E tuttavia, temendo di geografizzare relativisticamente questi tempi come tante isole di civiltà non comunicanti, arriva a proporre l'idea di una struttura temporale «classica» nella storia, secondo l'analogia con lo «spazio» di Riemann, uno spazio mutevole e deformabile secondo il «mutevolissimo accadere della materia», interpretato secondo una «metrica variabile» (e si tratta, ovviamente, di metrica storica). Questo cercando di salvare (...) tutta la insopprimibile unità di connessione dello sviluppo storico, non come concetto lineare, ma come qualcosa cronologicamente differenziato e federativo, e solo così utilmente accentrato. Dunque “il progresso non procede solo in una omogenea successione di periodi, ma scorre anche in diversi tempi sovrapposti o sottoposti a successivi piani di tempo”
Questo implica una sorta di multiverso temporale, dove il passato, il presente e il futuro si intrecciano in modi complessi e non lineari.

L'accenno a Riemann è stuzzicante per chi si occupa di matematica. La metrica variabile suggerisce il concetto di varietà, che è infatti la traduzione italiana del termine tedesco Mannigfaltigkeit (più letterale è la traduzione con “molteplicità”) che compare per la prima volta nella tesi di dottorato del 1851 di Bernhard Riemann, Grundlagen für eine allgemeine Theorie der Functionen einer veränderlichen complexen Grösse. Nella sua tesi Riemann si pone il problema di introdurre delle "grandezze molteplicemente estese", aventi cioè "più dimensioni", e le definisce usando quel termine, che gli inglesi traducono con “manifold”. In geometria, una varietà è uno spazio topologico che localmente è simile a uno spazio euclideo 𝑛-dimensionale, ma che globalmente può avere proprietà geometriche differenti (ad esempio può essere "curvo" contrariamente allo spazio euclideo).

Riemann lo definì come tentativo di fornire un quadro unitario dello studio degli ambienti geometrici, dopo lo sconcerto legato alla scoperta delle geometrie non euclidee e avvalendosi dei nuovi più astratti strumenti messi a disposizione nel frattempo dalle varie branche della matematica. La definizione dipende dall’ambiente in cui si opera, dalla natura degli elementi che lo costituiscono e dalle proprietà che si vogliono studiare. Quella di varietà è un'idea sufficientemente semplice da potersi adattare a diversi contesti, in quanto è possibile definire ulteriori strutture su una stessa varietà.

Nel caso più generale una varietà é un concetto che generalizza quelle di curva e superficie della geometria analitica. Intuitivamente, una varietà è uno spazio a più dimensioni che localmente, intorno a ogni suo punto, presenta una struttura simile a quella dello spazio euclideo.

Ora, se guardiamo la superficie della sfera, non è sicuramente uno spazio euclideo: nella geometria euclidea, la somma degli angoli interni in un triangolo è 180°, il che non è vero per la superficie di una sfera. Tuttavia, se si guarda solo una piccola parte della sfera, è approssimativamente vero. Ad esempio, si percepisce la Terra come piatta, anche se non lo è se la guardiamo dall'alto.

Una varietà è ogni "spazio" con questa proprietà: localmente, sembra un piano euclideo. Il cerchio è una varietà (localmente sembra una linea, che è lo spazio euclideo unidimensionale ℝ), la sfera (localmente sembra un piano 2), una stanza (localmente sembra uno spazio euclideo 3) ecc.

La cosa interessante delle varietà è che questa proprietà di sembrare uno spazio euclideo localmente rende possibile descriverle completamente usando solo spazi euclidei. Ad esempio, si può costruire una carta geografica dell’Italia. Questo è un modo perfettamente valido per descrivere l'Italia, anche se in realtà è parte di un oggetto rotondo. Si possono mettere insieme molti di questi grafici per ottenere un intero atlante.

Una varietà è quindi uno spazio in cui si può creare un atlante di carte, ognuna delle quali è parte di uno spazio euclideo. Nell’atlante della Terra, alcuni grafici si sovrapporranno, e i punti nella sovrapposizione che sono vicini tra loro su un grafico saranno vicini tra loro sull'altro grafico. In altre parole, si ottiene una mappa tra le regioni sovrapposte di due grafici qualsiasi e quella mappa è continua (a quel punto si ottiene una varietà topologica) o persino differenziabile (una varietà differenziabile, che può essere approssimata a meno di un resto infinitesimo da una trasformazione lineare in un intorno abbastanza piccolo di quel punto).


A questo punto, dovrebbe essere possibile dire che lo spazio intorno a noi è una varietà differenziabile. Sembra perfettamente accurato descriverlo usando 3 localmente. Ed è anche così che le varietà entrano nella relatività: se si aggiunge la dimensione temporale, si scopre che è ancora possibile modellare lo spazio + tempo come una varietà a quattro dimensioni (il che significa che ogni grafico appare localmente come 4). Questo è ciò di cui tratta la relatività generale: le equazioni fondamentali della relatività generale ci dicono come la misura della distanza nello spazio-tempo è correlata alla materia e all'energia.

La relatività del tempo non è una esclusiva della fisica contemporanea. Due atti che sembrano avvenire simultaneamente in realtà possono essere asincroni a seconda dell'osservatore e del sistema di riferimento. Altrettanto avviene per i fatti della storia (anche di quella delle idee), che, privati del loro contesto, sembrano sincronici solo perché avvengono negli stessi tempi segnati dal calendario gregoriano (ma è significativo che di calendari ne esistano tuttora molti differenti).

Ma il tempo non è uno spazio geometrico ed è lecito domandarsi se il paragone con le varietà riemanniane di Bloch sia lecito. Che cosa intendeva Bloch parlando di tempi storici con metrica variabile?

La non simultaneità è un concetto che denota il ritardo temporale, o sviluppo irregolare, prodotto nella sfera sociale dai processi di modernizzazione e/o dalla natura incompleta di tali processi. Il termine, specialmente nella frase "la simultaneità del non simultaneo”, illustra l'inclusione di sistemi di valori e pratiche più antichi nella costruzione del presente, insieme a una certa resistenza al cambiamento. L'idea di temporalità coesistenti, o strati, all'interno di un dato periodo di tempo è centrale nell'opera di Bloch: "Non tutte le persone esistono nello stesso Ora. (...) Piuttosto, portano con sé cose precedenti, cose che sono intricatamente coinvolte. Si hanno i propri tempi in base a dove ci si trova fisicamente, soprattutto in termini di classe". Esistono crepe da dove idee, utopie e sogni del passato possono emergere dal loro stato di latenza ed esprimere il loro richiamo nel presente e nel futuro. Il passato non sempre è definitivamente passato, ma esiste in ogni caso una tensione verso la costruzione di un cambiamento futuro. Per Bloch, il tempo è strettamente legato al concetto di utopia. Il futuro non è predeterminato ma è un campo aperto di possibilità che possono essere realizzate attraverso l'azione umana. Questo implica un "multiverso" di futuri potenziali, ognuno dei quali può emergere in base alle scelte e alle azioni collettive.

La sincronicità del non-sincrono si oppone alla visione lineare evolutiva della storia che ha preso forma nell'Illuminismo. L'idea di Bloch aiuta a relativizzare questa visione del progresso. L'eterogeneità del tempo storico dà voce alla pluralità delle temporalità storiche, comprese le società non occidentali. È collegata alla fondamentale non-identità dell'esperienza individuale: un individuo non è mai contemporaneo a se stesso. Varie formazioni sociali, come nazioni, regioni geografiche, classi o logiche istituzionali, potrebbero essere non-contemporanee in quanto tali e tra loro. Vari elementi non-contemporanei potrebbero sia bloccare il lavoro di emancipazione sia aiutare a rivitalizzarlo dopo la sua presunta sconfitta. La non-contemporaneità è il concetto appropriato per la visione utopica della società, permeata da discontinuità rivoluzionarie.

La teoria della modernità di Bloch cerca di fatto di ripensare l’analisi sociale come un conglomerato di temporalità eterogenee che, tuttavia, interagiscono, si oppongono e si costituiscono a vicenda. A volte, sembra voler superare la non-contemporaneità nella visione di una vera presenza, che dovrebbe essere utopica e mediata dialetticamente dal futuro.

Bloch parla di "noch-nicht-bewusstes" (non-ancora-consapevole) come un livello della coscienza umana che contiene potenzialità non realizzate e visioni di futuri possibili. Questa dimensione temporale è un luogo di intersezione tra il presente e molteplici futuri possibili, ognuno dei quali può essere concretizzato tramite il progresso sociale e personale.

Il tempo storico è quindi molteplice, forma una varietà di Ora, ma, nella visione del filosofo tedesco, è possibile, per dirla come un matematico (forse non troppo rigoroso), costruire una serie di mappe che costituiscono un atlante della speranza e dell'utopia.

venerdì 30 dicembre 2022

Singolarità e cammini nello spaziotempo

 


Forse la conseguenza più eclatante della descrizione della gravità da parte di Einstein in termini di geometria curva dello spaziotempo, nel quadro della sua teoria generale della relatività, è la possibilità che lo spazio e il tempo possano presentare "buchi" o "bordi", cioè delle
singolarità.

Una singolarità dello spaziotempo è una sua rottura, nella geometria o in qualche altra struttura fisica di base. Purtroppo, non è così facile dare un significato preciso a ciò che questo significa. In altre teorie fisiche, le singolarità sono definite come una sorta di "comportamento patologico" che si verifica in un quadro ordinato fornito dallo spazio e dal tempo. Ad esempio, un modello che descrive un fluido potrebbe prevedere che, in determinate condizioni, la pressione diventa infinitamente grande da qualche parte in un determinato momento, chiaramente in contrasto con la realtà. Ma nella relatività generale, lo spaziotempo stesso può comportarsi in modo patologico, e può farlo in molti modi.

Quando è la geometria fondamentale a rompersi, le singolarità dello spaziotempo sono spesso viste come una fine, o un "bordo", dello spaziotempo stesso. Tuttavia, sorgono numerose difficoltà quando si cerca di precisare questo concetto. La relatività generale non solo ammette le singolarità (big-bang, buchi neri, ecc.), ma ci dice che sono inevitabili in alcune circostanze. Perciò abbiamo bisogno di comprendere la natura delle singolarità se vogliamo cogliere quella dello spazio e del tempo nell'universo reale.

I buchi neri, ad esempio, sono regioni dello spaziotempo da cui nulla, nemmeno la luce, può sfuggire e la gravità tende a infinito. Questa previsione della relatività generale ci dice che essa, mentre prevede l'esistenza dei buchi neri, non è sufficiente per descriverli. È necessaria una nuova fisica dei buchi neri. Naturalmente, la relatività generale è molto efficace nel descrivere molti altri aspetti dell'universo fisico. Ma, per il centro di un buco nero, che sperimenta un estremo di gravità, le equazioni della relatività generale non funzionano più. Che cosa accada oltre l’orizzonte degli eventi (se c’è), è una domanda senza senso, perché, dove non c’è spazio tempo, anche il verbo accadere è un paradosso.


Un altro modo per descrivere la singolarità di un buco nero è che è il punto in cui materia, energia, spazio e tempo scompaiono dal nostro universo. Notiamo che lo spazio e il tempo, essi stessi, scompaiono nella singolarità. Naturalmente, i fisici non sanno esattamente cosa significhi la scomparsa del tempo e dello spazio. Dove vanno? I buchi neri contengono genericamente una singolarità spaziotemporale al loro centro; quindi, non possiamo comprendere appieno un buco nero senza comprendere anche la natura delle singolarità, che può essere ancora più complicata se essi ruotano o emettono radiazioni (di Hawking) in obbedienza alle leggi della termodinamica.

Il secondo punto descritto come "singolarità" è il Big Bang. Questa singolarità, un punto più piccolo di un atomo, è considerata da molti scienziati come dotata di densità e massa infinite. Al momento del Big Bang, si espanse rapidamente, creando tutto lo spazio, il tempo, la materia e l'energia del nostro universo fisico. Come è successo? Gli scienziati non hanno equazioni che descrivono un punto più piccolo di un atomo che ha massa e densità infinite. Questo, come il centro di un buco nero, è una singolarità per la quale sono necessarie nuove leggi fisiche.

Le singolarità segnalano in qualche modo una rottura della geometria dello spaziotempo stesso, ma ciò presenta un'ovvia difficoltà nel riferirsi a una singolarità come a una "cosa" che risiede in qualche posizione nello spaziotempo: senza una geometria, non può esserci posizione.

I tentativi più comuni di definire le singolarità si concentrano su una delle due idee fondamentali. La prima è che uno spaziotempo ha una singolarità se contiene un percorso incompleto, che non può essere continuato all'infinito, senza possibilità di estensione. Il secondo è che uno spaziotempo è singolare solo nel caso in cui ci siano dei punti "mancanti".

Un’altra idea comune, a cui si fa spesso riferimento nella discussione delle due nozioni primarie, è che la struttura singolare, sotto forma di punti mancanti o di percorsi incompleti, debba essere correlata a un comportamento patologico di qualche tipo nella curvatura dello spaziotempo, cioè una deformazione fondamentale dello spaziotempo che si manifesta come “campo gravitazionale”. Ad esempio, una certa misura dell'intensità della curvatura ("la forza del campo gravitazionale") può aumentare senza limiti mentre si attraversa il percorso incompleto.

Sebbene esistano definizioni contrastanti delle singolarità dello spaziotempo, il criterio più ampiamente accettato si basa sulla possibilità che alcuni spaziotempi contengano percorsi incompleti e inestensibili. In effetti, le definizioni concorrenti (in termini di punti mancanti o patologia della curvatura) si basano sulla nozione di incompletezza del percorso.

Un percorso nello spaziotempo è una catena continua di eventi attraverso lo spazio e il tempo. I percorsi utilizzati nei più importanti teoremi di singolarità rappresentano possibili traiettorie di particelle e osservatori. Tali percorsi sono noti come linee di universo; consistono nella sequenza continua di eventi istanziati dall'esistenza di un oggetto in ogni istante della sua vita. 


Il fatto che i percorsi siano incompleti e inestensibili significa, in parole povere, che, dopo un periodo di tempo finito, una particella o un osservatore che segue quel percorso "scapperebbe dal mondo", per così dire, e precipiterebbe nello squarcio nel tessuto dello spaziotempo per poi svanire. 



In alternativa, una particella o un osservatore potrebbe saltare fuori dallo strappo per seguire tale percorso. Anche se non c'è alcuna contraddizione logica o fisica in tutto ciò, sembra fisicamente sospetto che a un osservatore o a una particella venga permesso di entrare o uscire dall'esistenza proprio nel mezzo dello spaziotempo: se ciò non basta per concludere che lo spaziotempo è singolare, è difficile immaginare cos'altro sarebbe. Nello stesso momento in cui fu proposto per la prima volta questo criterio per le singolarità, il lavoro pionieristico che prevedeva l'esistenza di tali percorsi patologici (Penrose, Hawking, Geroch alla fine degli anni Sessanta) non ha prodotto consenso su ciò che dovrebbe essere considerato una condizione necessaria per la struttura singolare secondo questo criterio, e quindi nessun consenso su una definizione fissa.

In questo contesto, un percorso incompleto nello spaziotempo è sia inestensibile che di lunghezza propria finita, il che significa che qualsiasi particella o osservatore che attraversi il percorso sperimentano solo un intervallo finito di esistenza che in linea di principio non può più continuare. Affinché questo criterio funzioni, tuttavia, dovremo limitare la classe di spaziotempo in discussione.

In particolare, bisogna considerare spazi-tempi che sono massimamente estesi (o semplicemente "massimali"). In effetti, questa condizione dice che la propria rappresentazione dello spaziotempo è “quanto più grande può essere”. Non c'è, dal punto di vista matematico, alcun modo per trattare lo spaziotempo come un vero e proprio sottoinsieme di uno spaziotempo più grande ed esteso. 




Se c'è un percorso incompleto in uno spaziotempo, sostiene il pensiero alla base del requisito, allora forse il percorso è incompleto solo perché non si è reso il proprio modello di spaziotempo abbastanza grande. Se si dovesse estendere al massimo la molteplicità dello spaziotempo, allora forse il percorso precedentemente incompleto potrebbe essere esteso nelle nuove porzioni dello spaziotempo più ampio, indicando che nessuna patologia fisica è alla base dell'incompletezza del percorso. L'inadeguatezza risiederebbe semplicemente nel modello fisico incompleto che avevamo usato per rappresentare lo spaziotempo.

Si può facilmente avere un esempio di uno spaziotempo non esteso al massimo, insieme a un'idea del motivo per cui intuitivamente sembrano in un modo o nell'altro carenti. Per il momento, immaginiamo che lo spaziotempo sia solo bidimensionale e piatto, come un foglio di carta senza fine. Ora asportiamo da qualche parte su questo piano un insieme chiuso della forma che si desidera. Qualsiasi percorso che passa attraverso uno dei punti nell'insieme rimosso ora è incompleto.

In questo caso, l'estensione massima dello spaziotempo risultante è ovvia, e in effetti risolve il problema di tutti questi percorsi incompleti: incorporare l'insieme precedentemente asportato. 


La natura apparentemente artificiale e artificiosa di tali esempi, insieme alla facilità di correggerli, sembra militare a favore della necessità che lo spaziotempo sia massimale. Inoltre, l'inestensibilità è talvolta discussa sulla base del fatto che non esiste alcun processo fisico noto che potrebbe far sì che lo spaziotempo si avvicini, per così dire, e non continui come avrebbe potuto, se avesse avuto un'estensione.

Una volta stabilito che siamo interessati a spazio-tempo massimi, la questione successiva è quale tipo di incompletezza di percorso sia rilevante per le singolarità. Qui troviamo una buona dose di pareri discordi. I criteri di incompletezza in genere guardano a come cresce un parametro naturalmente associato al percorso (come la sua lunghezza corretta). Generalmente si pongono anche ulteriori restrizioni sui percorsi che si considerano: ad esempio, si possono escludere cammini che potrebbero essere percorsi solo da particelle che subiscono un'accelerazione illimitata in un periodo di tempo finito. Uno spaziotempo, quindi, si dice singolare se possiede un percorso tale che il parametro specificato associato a quel percorso non può aumentare senza limiti mentre si attraversa l'intero percorso massimamente esteso.

Per un percorso che è ovunque simile al tempo, cioè che non comporta velocità pari o superiori a quella della luce, è naturale prendere come parametro il tempo proprio che una particella o un osservatore sperimenterebbe lungo il percorso, cioè il tempo misurato lungo il percorso da un orologio naturale, come quello basato sulla frequenza vibrazionale di un atomo. L'interpretazione fisica di questa sorta di incompletezza per i percorsi simili al tempo è più o meno semplice: un percorso simile al tempo, incompleto rispetto al tempo proprio nella direzione futura, rappresenterebbe la possibile traiettoria di un corpo massiccio che non invecchia mai oltre un certo punto della sua esistenza. (Un'affermazione analoga può essere fatta, mutatis mutandis, se il percorso fosse incompleto nella direzione passata.)

Non possiamo, tuttavia, stabilire semplicemente che uno spaziotempo massimale è singolare solo nel caso in cui contenga percorsi di tempo proprio finito che non possono essere estesi. Un tale criterio implicherebbe che anche lo spaziotempo piatto descritto dalla relatività ristretta è singolare, il che è sicuramente inaccettabile. Ciò seguirebbe perché, anche nello spaziotempo piatto, ci sono percorsi simili al tempo con accelerazione illimitata che hanno solo un tempo proprio finito e sono anche inestensibili.

L'opzione più ovvia è quella di definire uno spaziotempo come singolare se e solo se contiene geodetiche simili al tempo incomplete, inestensibili, cioè percorsi che rappresentano le possibili traiettorie di osservatori inerziali, quelli in caduta libera. Questo criterio, però, sembra troppo permissivo, in quanto conterebbe come non singolari alcuni spazi-tempi la cui geometria sembra altrimenti patologica. Ad esempio, Geroch (1968) descrive uno spaziotempo che è geodeticamente completo e tuttavia possiede un percorso temporale incompleto di accelerazione totale limitata, vale a dire un percorso inestensibile nello spaziotempo attraversabile da un razzo con una quantità finita di carburante, lungo il quale un l'osservatore potrebbe sperimentare solo una quantità finita di tempo proprio. Sicuramente l'intrepido astronauta in un tale razzo, che non sarebbe mai invecchiato oltre un certo punto, ma che non sarebbe mai necessariamente morto o avrebbe cessato di esistere, avrebbe avuto motivo di lamentarsi del fatto che c'era qualcosa di singolare in questo spaziotempo.

Quando si decide se uno spaziotempo è singolare, quindi, vogliamo una definizione che non sia ristretta alle geodetiche. La soluzione più ampiamente accettata a questo problema utilizza una nozione di lunghezza leggermente diversa e tecnicamente complessa, nota come "lunghezza affine generalizzata" (che omette la nozione di misura della distanza e utilizza strumenti di calcolo quali il trasporto parallelo). A differenza del tempo proprio, questa lunghezza affine generalizzata dipende da alcune scelte arbitrarie. Se la lunghezza è infinita per una di queste scelte, tuttavia, sarà infinita per tutte le altre. Quindi la domanda se un percorso abbia una lunghezza affine generalizzata finita o infinita è una domanda ben definita, e questo è tutto ciò di cui avremo bisogno.


La definizione che ha ottenuto l'accettazione più diffusa, portando Earman (1995) a definirla la definizione semi ufficiale di singolarità, è la seguente:

Uno spaziotempo è singolare se e solo se è massimale e contiene un cammino inestensibile di lunghezza affine generalizzata finita.

Dire che uno spaziotempo è singolare significa quindi dire che esiste almeno un percorso che ha una lunghezza limitata (affine generalizzata). Per dirla in altro modo, uno spaziotempo è non singolare quando è completo, nel senso che l'unica ragione per cui un dato percorso potrebbe non essere estendibile è che è già infinitamente lungo (in questo senso tecnico).

Il problema principale che deve affrontare questa definizione di singolarità è che il significato fisico della lunghezza affine generalizzata è opaco, e quindi non è chiaro quale potrebbe essere la rilevanza fisica delle singolarità, definite in questo modo.

Recentemente, il filosofo e logico della scienza americano J. B. Manchak (2021) ha proposto una condizione che lo spaziotempo può soddisfare, rilevante per la questione di ciò che caratterizza il comportamento singolare, che chiama "completezza effettiva":

“Si consideri la raccolta U di varietà lorentziane lisce quadridimensionali (M, g). Di solito si identifica questa collezione di oggetti geometrici con i modelli della relatività generale. Ma, all'interno di U, si nascondono modelli di spaziotempo "fisicamente irragionevoli". Ad esempio, prendiamo qualsiasi (M, g) ∈ U e rimuoviamo un punto p ∈ M. La struttura risultante (M−{p}, g) ∈ U sembra essere “fisicamente irragionevole” nel senso che non è “grande come potrebbe essere”. Come si possono escludere tali esempi? Diciamo che un modello (M, g) ∈ U è inestensibile se non può essere propriamente e isometricamente incorporato in qualche altro modello (M’, g’) ∈ U. È stato suggerito di limitare il numero di modelli "fisicamente irragionevoli" nella relatività generale richiedendo che l'inestensibilità sia soddisfatta. (...) Facendo un passo indietro, il suggerimento generale sembra essere che, per una varietà P⊂U, si potrebbe modificare la relatività generale come segue: la nuova teoria deve essere la relatività generale, ma con la condizione aggiuntiva che solo [P] spazio-tempi sono consentiti”. Prendiamo seriamente questa idea in questo modo. Per ogni collezione "fisicamente ragionevole" di modelli P⊂U, abbiamo una variante della teoria della relatività generale – chiamiamola GR(P). Poiché dobbiamo ancora identificare una collezione privilegiata P⊂U di modelli "fisicamente ragionevoli", è utile pensare alla "relatività generale" in modo pluralistico; possiamo studiare una raccolta di tali raccolte di modelli "fisicamente ragionevoli".”

Sinceramente sembra che ci si voglia arrampicare sugli specchi della singolarità: “non è che se gli allarghi la stalla le mucche diventano Miss Universo” (pseudo-cit.) Il consenso sembra essere solamente che, mentre è facile concludere che percorsi incompleti di vario tipo nello spaziotempo rappresentano una struttura singolare, non è stata ancora formulata una sua definizione rigorosa e del tutto soddisfacente.

Molti ricercatori ritengono che una teoria unificata della gravitazione e della meccanica quantistica (la gravità quantistica a loop) permetterà in futuro di descrivere in modo più appropriato i fenomeni connessi con la nascita di una singolarità nel collasso gravitazionale delle stelle massicce e l'origine stessa dell'universo. Intanto aspettiamo.

lunedì 12 dicembre 2022

La canzone di Perel’man

 


Il racconto breve Perel’man’s Song della poetessa, scrittrice, accademica e editrice sino-americana Tina S. Chang (1969) è apparso nel numero di febbraio 2008 della rivista Math Horizons. Utilizza una conversazione tra divinità che manipolano universi per informare poeticamente il lettore sulla Congettura di Poincaré. Questo è un esempio dell'uso della finzione matematica per dire, attraverso la metafora, ciò che altrimenti potrebbe essere troppo astratto per essere facilmente trasmesso ai non esperti.

La topologia delle varietà o superfici bidimensionali era ben nota già nel XIX secolo. Esiste infatti un semplice elenco di tutte le possibili superfici lisce compatte orientabili. Qualsiasi superficie di questo tipo ha un genere ben definito g ≥ 0, che può essere descritto intuitivamente come il numero di fori; e due di tali superfici possono essere poste in una regolare corrispondenza biunivoca l'una con l'altra se, e solo se, hanno lo stesso genere.

Ad esempio, una sfera ha genere 0: non ha "buchi". Più rigorosamente, ogni curva chiusa tracciata su di essa la separa in due calotte sferiche; un toro ha invece genere 1: è possibile tagliare il toro lungo una curva chiusa che segue una delle due circonferenze generatrici, ottenendo in ogni caso un cilindro connesso; ogni altro taglio supplementare otterrebbe due superfici non connesse.


La domanda corrispondente nelle dimensioni superiori è molto di più difficile. Henri Poincaré fu forse il primo a tentare di fare uno studio simile sulle varietà tridimensionali. L'esempio più basilare di tale varietà è la sfera unitaria tridimensionale, cioè il luogo di tutti i punti (x,y,z,w) nello spazio euclideo quadridimensionale che hanno distanza esattamente 1 dall'origine:


Poincaré notò che una caratteristica distintiva della sfera bidimensionale è che ogni semplice curva chiusa nella sfera può essere deformata continuamente in un punto senza lasciare la sfera. Nel 1904, fece una domanda corrispondente nella dimensione 3. In un linguaggio più moderno, può essere formulata come segue:

Domanda. Se una varietà tridimensionale compatta M3 ha la proprietà che ogni semplice curva chiusa all'interno della varietà può essere deformata continuamente in un punto, ne consegue che M3 è omeomorfa alla sfera S3?

Egli commentò, con notevole lungimiranza, “Mais cette question nous entraînerait trop loin”. Da allora, l'ipotesi che ogni 3-varietà chiusa semplicemente connessa sia omeomorfa alla 3-sfera è nota come Congettura di Poincaré. Da allora ha ispirato i topologi, e i tentativi di dimostrarla hanno portato a molti progressi nella comprensione della topologia delle superfici.

Detto in parole più semplici (ovviamente tralasciando particolari tecnici e essendo meno rigorosi), esiste un modo per dire con certezza se ci si trova su una sfera o meno, anche senza volare nello spazio per guardarla da lontano. Prendiamo una lunga corda e fissiamone un'estremità nel punto in cui ci troviamo. Quindi camminiamo sulla superficie per una grande distanza, allungando la corda mentre procediamo. Quando alla fine si torna al punto di partenza, prendiamo le due estremità della corda (quella che è rimasta in un punto e quella che abbiamo portato con noi) e le leghiamo in un cappio. Con un nodo del genere, stringendo si può rendere il cappio sempre più piccolo, e su una sfera si può sempre farlo, mantenendo la corda in superficie, ma se stessimo camminando su una ciambella (un toro) allora potrebbe non essere possibile. Immaginiamo di essere su una ciambella e di camminare attraverso il buco e tornare al punto di partenza. In questo caso non saremmo in grado di rimpicciolire il cappio senza tagliare la ciambella. (Possiamo anche camminare intorno al buco, nel qual caso il cappio non può diventare più piccolo del buco senza lasciare la superficie).

Il punto è questo: se abbiamo una superficie e sappiamo che è di dimensioni finite senza bordi, allora se ogni anello sulla superficie può essere ridotto alla dimensione del punto, deve essere una sfera (e, viceversa, non può essere una sfera se c'è un cappio che non può essere ridotto ulteriormente).

La Congettura di Poincaré è l'affermazione che la stessa cosa si può dire anche per gli spazi dimensionali superiori. In particolare, Poincaré affermò che qualsiasi spazio tridimensionale compatto in cui gli anelli possano essere rimpiccioliti in questo modo (cioè sia semplicemente connesso) debba essere la versione tridimensionale di una sfera, chiamata S3. (1) Da allora, l'affermazione è stata generalizzata a qualsiasi numero di dimensioni. Quindi, quando qualcuno oggi parla della Congettura di Poincaré intende dire che uno spazio compatto, n-dimensionale è equivalente alla n-sfera, Sn, se e solo se è un omeomorfismo equivalente.

Questo è stato un problema aperto molto famoso, elencato anche come uno dei problemi del millennio per i quali il Clay Institute ha offerto un premio di 1 milione di dollari. Tuttavia, ora è stato risolto. Sebbene questo programma di ricerca sia stato avviato da Richard Hamilton e anche molti altri geometri abbiano contribuito al programma, il passaggio finale è stato completato da Grigori Perel’man.

-o-

La canzone di Perel’man

A Hamilton e Perel’man e a tutti gli altri matematici le cui ricerche hanno portato alla dimostrazione della Congettura di Poincaré.

C'era un universo amorfo, una varietà tridimensionale seduta radiosamente nella mano di un dio. Anche se questo dio era onnipotente, non era onnipresente, non poteva vedere l'essenza del suo universo. "Non ha singolarità (2), né buchi neri", osservò, sentendo la levigatezza della forma tra le mani. "Pensi che sia una sfera? Non sembra una bella sfera a tre dimensioni, ma forse è una ipersfera deformata e contorta che sembra semplicemente incomprensibile perché l'ho messa insieme in modo così casuale quando è stata creata."

Una dea lì vicino gettò da parte il suo universo e sbirciò da sopra la sua spalla curva. Tracciò pigramente degli anelli nel suo universo, poi li strinse in punti. Lo fece all'infinito. Controllò tutti i possibili anelli che riusciva a disegnare e nessuno si impigliava nel buco di una ciambella. Non ci volle tempo, perché vivevano fuori dal tempo, fuori dalla dimensione, in uno spazio inimmaginabile per l'uomo.

Lei ridacchiò per il suo fastidio quando riportò il suo universo tra le mani chiuse. "Beh, è semplicemente connesso (3)", concluse e prese il suo universo prima che potesse andare alla deriva.

Il suo era un universo toroidale increspato punteggiato di singolarità appuntite. Quando disegnò un anello attorno al buco della ciambella al centro, rimase come un arco luccicante attraverso il minuscolo cielo incapace di stringersi. Altri anelli che disegnava si contraevano in scintille d'oro.

"E come ciò risponde alla mia domanda?" chiese il dio, curioso di come i suoi anelli d'oro potessero far vedere che il suo universo era una 3-sfera. Queste dee onniscienti ma in qualche modo meno potenti spesso avevano assi matematici nella manica. Questa particolare dea inventava sempre nuovi universi con strane equazioni, per governarli.

La dea sorrise. "Qualsiasi varietà 3 chiusa semplicemente connessa è una sfera." Fece scivolare le mani tra le sue per accarezzare il suo universo. "Il tuo è liscio e tridimensionale e… semplicemente connesso" Tracciò un altro anello dorato. Scivolò lentamente attorno alle spire del suo universo e poi su una delle sue estremità simili a un sigaro finché non si strinse fino a diventare un punto sulla punta.

"E perché questo lo rende una 3-sfera?" disse dolcemente, scostandole la mano.

"Uno dei miei abitanti lo ha dimostrato." Lei rise. Toccò con il dito un punto del suo universo, "Perel’man è qui sul bordo di una galassia a spirale." Il suo universo era duro, increspato secondo le sue leggi e completamente invulnerabile al suo tocco. A giudicare dal luccicante arco dorato, non era semplicemente connesso. Né era liscio. Tirò via la mano prima che lei potesse raschiare una delle sue dita su una singolarità.

“Ah, uno dei tuoi abitanti lo ha dimostrato.” la assecondò, chiedendosi come un universo dettato da equazioni potesse avere degli abitanti intelligenti di cui parlare.

"Beh, se non mi credi." lo schernì, “Puoi usare tutte le tue potenti abilità per plasmare quel tuo universo in una sfera. La prova è costruttiva”.

"OK" disse, sollevando la sua varietà tridimensionale nello spazio vuoto tra di loro. "Cosa stai suggerendo esattamente?"

"Prima devi trasformarlo con il flusso di Ricci (4)." iniziò.

"Questa è una delle equazioni della tua varietà adesso..." disse, ricordando che il tensore di Ricci misurava la curvatura dello spazio e dei volumi al suo interno.

"No, la mia è l'equazione di Einstein. Contiene anche il tensore di Ricci. ma è un'equazione d'onda. Il mio universo cambia con le increspature gravitazionali che emanano e si fondono..."

“e causando ogni sorta di singolarità!” obiettò lui.

"Hai paura delle singolarità?" scherzò lei.

"No…"

"Perché potremo creare delle singolarità, ma le taglieremo..."

"Ehi!" Il dio riprese l'universo tra le sue braccia protettive

. "Solo temporaneamente, rimetteremo insieme l'universo quando avremo finito." lei lo rassicurò. “Comunque, il flusso di Ricci è un'equazione parabolica, funziona come il calore, non come le onde. Dissipa la curvatura attraverso l'intero universo rendendolo omogeneo, così che alla fine dovrebbe sembrare un cilindro o una sfera che si restringe..."

"E le parti che hai tagliato via?!"

"Le rimettiamo e sembra ancora una sfera."

"E questo tuo abitante ha inventato tutto questo?"

"Oh. no. Perel’man ha dimostrato che le 3-varietà semplicemente connesse sono sfere, ma il flusso di Ricci è stato sviluppato da Hamilton, e in realtà è la somma totale del lavoro di oltre una ventina di abitanti diversi vissuti in tempi diversi. Anche il tensore di Ricci era complicato da capire per gli esseri tridimensionali."

"E allora cosa ha fatto questo Perel’man?"

"Ha aggiunto una canzone. Ascolta attentamente e sentirai cantare il tuo universo. Cambia la forma e la nota cambia."

Il dio sollevò il suo universo e ne suonò la nota. Ribolliva e si avvolgeva e la nota cantava su e giù scivolando dolcemente in una melodia che poteva controllare.

Poi plasmò il suo universo con il flusso di Ricci e la nota incominciò a salire. La nota suonava sempre più alta mentre le protuberanze si allargavano e le spire si tendevano in lunghi cilindri. Man mano che il suo universo si restringeva, si allungava in una rete di tubi sottili.

"Taglia quello!" la dea indicò un tubo che stava collassando in una corda tesa. "Taglia ciascuno prima che si sviluppi un singolo filo."

Il dio fermò il tempo, il suo universo congelato, timoroso di tagliare il filo. "La canzone di Perel’man dimostra che le singolarità simili a filamenti sono cilindri tridimensionali prima di collassare". disse la dea. “Puoi riparare facilmente la rottura con due tappi dopo il taglio."

Tagliò delicatamente il tubo e, quando sollevò le metà, i loro bordi erano sfere rotonde bidimensionali. Gli porse due palline e lui riempì i bordi sferici vuoti, levigando delicatamente prima di far ripartire il tempo per i due universi che ora teneva davanti a sé.

. La coppia di universi riprese il flusso di Ricci e i loro mezzi filamenti tornarono a posto. Entrambi cantavano ancora, sempre più alti, dossi che si allargavano e spire che si allungavano in nuovi fili.

Lui tagliò il filo sottile successivo e lei gli diede due nuove palline per rattoppare i nuovi pezzi e lui tagliò più fili su pezzi diversi e l'universo si è moltiplicato. Ad ogni taglio il successivo saltava su un registro più alto e poi cantato dolcemente verso l'alto.

"Ad Infinitum?" chiese, quando ebbero completato il loro centesimo taglio.

"No, se è una sfera a tre", disse, osservando gli universi che si svolgevano intorno a loro.

"E se non è una sfera a tre?" chiese mentre esaminava la millesima fetta sferica.

«Poi alla fine smettiamo di tagliare ed esaminiamo la forma collassata a cui si avvicina.» sussurrò, temendo che Perel’man potesse sbagliarsi.

“Ma è una sfera a tre perché è semplicemente connessa.” sorrise, immaginando che l'ultimo taglio fosse vicino.

"E tutti i pezzi." pregò, "dovrebbero diventare 3-sfere che si restringono fino all'estinzione..."

All'improvviso alcuni dei minuscoli universi si arrotondarono in 3 sfere in rapida riduzione. Le raggiunse, raccogliendo il loro flusso prima che potessero uscire dall'esistenza.

I loro occhi si incontrarono momentaneamente. prima che lei indicasse le successive tre parti che si assottigliavano e gli lanciasse sei palle.

Mentre il dio lavorava sempre più velocemente. spezzando nuovi fili e catturando nuove sfere, la nota salì più in alto di qualsiasi tono che la dea avesse mai sentito prima.

Alla fine, accadde: tagliarono il loro ultimo filo e l'ultima coppia di universi si arrotondò in identiche sfere tridimensionali.

Il dio li prese tra le mani e li strinse. Anche lui era immobile, stupito dai milioni di minuscole 3-sfere perfette che fluttuavano intorno a loro.

"Adesso vedi." disse senza fiato. prendendo un paio di sfere nelle sue mani "se rimuovi le palline con cui le abbiamo rattoppate e le unisci di nuovo insieme, puoi vedere che in realtà erano 3-sfere deformate prima che le spezzassimo a metà..."

Rimosse con cura le sfere corrispondenti dalle sfere gemelle e le unì le mani in modo che i bordi emersero vicino alla punta delle sue dita. Quindi, insieme, riformarono l'universo unito in un'unica luminescente 3-sfera tenuta tra le loro mani aperte.

"Incredibile" Il dio sollevò tutti i pezzi in aria all'unisono, rimettendoli al loro posto, aprendoli e fondendo insieme i bordi sferici.

Il suo universo, liberato dal flusso di Ricci, palpitò per alcuni battiti e poi si congelò in una perfetta sfera tridimensionale omogenea che fluttuava tra di loro.

Sedevano insieme, in uno spazio senza tempo, osservandone in silenzio la bellezza. Il dio disegnò un anello d'oro attorno al suo equatore e lo guardò scivolare su per le latitudini e scomparire con una scintilla al polo.

Liberandolo dalla matematica, lo riavvolse dolcemente nella sua forma originale. Ora poteva veramente vedere che era sempre stata una 3-sfera, una ipersfera deformata e contorta, ma ininterrotta.

Si rivolse alla dea..."... e cosa accadrebbe se mettessimo insieme i nostri universi."

"L'unione non sarà semplicemente connessa e non sarà una sfera." Avvicinò il suo universo per fonderlo con quello di lui. "Ma forse, se appianiamo le mie singolarità, possiamo farle confluire in una geometria che non abbiamo mai visto prima."

-o-

Note:

1 -Sfera tridimensionale, o 3-sfera - In matematica, una 3-sfera (detta anche ipersfera) è un analogo dimensionale superiore di una sfera. Può essere visto nello spazio euclideo quadridimensionale come l'insieme di punti equidistanti da un punto centrale fisso. Analogamente a come la frontiera di una palla in tre dimensioni è una sfera ordinaria (o 2-sfera, una superficie bidimensionale), la 3-sfera è una varietà tridimensionale che fa da frontiera alla palla 4-dimensionale. Una 3-sfera è una varietà 3-dimensionale compatta, connessa e senza bordo. Inoltre, è un insieme semplicemente connesso: ogni curva chiusa sulla sua superficie può essere ristretta ad un singolo punto senza lasciare la 3-sfera. Secondo la congettura di Poincaré, dimostrata  da Perel'man, la 3-sfera (a meno di omeomorfismo) è l'unica figura con queste proprietà.



2 - Singolarità - Il concetto di singolarità ha origine in matematica, dove indica in generale un punto in cui un ente matematico, per esempio una funzione o una superficie, "degenera", cioè perde parte delle proprietà di cui gode negli altri punti generici, i quali per contrapposizione sono detti “regolari”. In un punto singolare, per esempio, una funzione o le sue derivate possono non essere definite e nell'intorno del punto stesso "tendere ad infinito".

In fisica, i punti singolari sono quelli in cui si verifica una singolarità matematica delle equazioni di campo, dovuta per esempio ad una discontinuità geometrica del dominio oppure al raggiungimento di un valore limite di un parametro. Benché le soluzioni singolari delle equazioni di campo restino molto utili per descrivere il comportamento fisico fuori della singolarità, esse perdono di significato fisico nei pressi del punto singolare. In pratica il comportamento fisico in tali intorni può essere descritto solo tramite teorie fisiche più complesse in cui la singolarità non si verifica. Un buco nero è una singolarità.

3 - Spazio connesso - In matematica uno spazio topologico si dice connesso se non può essere rappresentato come l'unione di due o più insiemi aperti non vuoti e disgiunti. In maniera poco formale ma abbastanza intuitiva, possiamo dire che la connessione è la proprietà topologica di un insieme di essere formato da un solo "pezzo".

Uno spazio topologico X è connesso per archi (o con terminologia equivalente, connesso per cammini) se per ogni coppia di punti x e y dello spazio esiste un arco che li collega.

Uno spazio topologico è detto semplicemente connesso (o 1-connesso, o 1-semplicemente connesso, se è connesso per cammini e ogni cammino tra due punti può essere continuamente trasformato in qualsiasi altro percorso simile preservando i due punti finali in questione.

Informalmente, un oggetto nel nostro spazio è semplicemente connesso se è costituito da un unico pezzo e non ha "buchi" che lo attraversano completamente. Ad esempio, né una ciambella né una tazza di caffè (con un manico) sono semplicemente collegate, ma una sfera di gomma cava è semplicemente connessa. In due dimensioni, un cerchio non è semplicemente connesso, ma lo sono un disco e una linea. Gli spazi connessi ma non semplicemente connessi sono detti non semplicemente connessi o moltiplicati.


Una sfera è semplicemente connessa perché ogni anello può essere contratto (sulla superficie) in un punto.

La definizione esclude solo i fori a forma di maniglia. Una sfera (o, allo stesso modo, una palla di gomma con un centro cavo) è semplicemente connessa, perché qualsiasi anello sulla superficie di una sfera può contrarsi in un punto anche se ha un "buco" nel centro cavo.

4 - Flusso di Ricci-Hamilton - Nei campi matematici della geometria differenziale e dell'analisi geometrica, il flusso di Ricci, a volte indicato anche come flusso di Ricci-Hamilton, è una particolare equazione alle derivate parziali per una metrica Riemanniana. Si dice spesso che sia analogo alla diffusione del calore e all'equazione del calore, a causa delle somiglianze formali nella struttura matematica dell'equazione. Tuttavia, non è lineare, e mostra molti fenomeni non presenti nello studio dell'equazione del calore.

Il flusso di Ricci, così chiamato per la presenza del tensore di Ricci nella sua definizione, è stato introdotto da Richard Hamilton, che lo ha utilizzato negli anni '80 del Novecento per dimostrare nuovi sorprendenti risultati nella geometria riemanniana. Successive estensioni dei metodi di Hamilton da parte di vari autori portarono a nuove applicazioni alla geometria, inclusa la risoluzione della congettura della sfera differenziabile di Simon Brendle e Richard Schoen.

Seguendo il suggerimento di Shing-Tung Yau che le singolarità delle soluzioni del flusso di Ricci potessero identificare i dati topologici previsti dalla congettura di geometrizzazione di William Thurston, Hamilton produsse negli anni '90 una serie di risultati che erano diretti alla risoluzione della congettura. Nel 2002 e nel 2003, Grigori Perel’man presentò una serie di nuovi risultati fondamentali sul flusso di Ricci, inclusa una nuova variante di alcuni aspetti tecnici del programma di Hamilton. I lavori di Hamilton e Perel’man sono ora ampiamente considerati come una dimostrazione della congettura di Thurston, compresa come caso speciale la congettura di Poincaré, che era un noto problema aperto nel campo della topologia geometrica sin dal 1904. I loro risultati sono considerati un pietra miliare nei campi della geometria e della topologia.


Il flusso di Ricci di solito deforma la varietà verso una forma più rotonda, tranne in alcuni casi in cui allunga la varietà oltre se stessa verso quelle che sono note come singolarità. Perelman e Hamilton, quindi, tagliano la varietà alle singolarità (un processo chiamato "chirurgia"), facendo sì che i pezzi separati assumano forme simili a sfere. I passi principali nella dimostrazione implicano il mostrare come si comportano le varietà quando vengono deformate dal flusso di Ricci, esaminare quale tipo di singolarità si sviluppano, determinare se questo processo chirurgico può essere completato e stabilire che l'intervento chirurgico non deve essere ripetuto infinite volte.

lunedì 25 ottobre 2021

Di mappe e territori

 


Tutte le mappe sono false

In matematica, il termine mappa è spesso usato come sinonimo di funzione, che è una relazione tra due insiemi, chiamati dominio e codominio, che associa a ogni elemento del dominio uno e un solo elemento del codominio. Mappare vuol dire allora stabilire una corrispondenza biunivoca tra elementi di due insiemi diversi (o dello stesso insieme), secondo leggi diverse. In cartografia, questa corrispondenza si realizza tra insiemi di punti (quelli sulla superficie terrestre e quelli sul piano, che è il foglio su cui si disegna la mappa). Le leggi che associano questi insiemi di punti sono delle trasformazioni geometriche, matematiche o empiriche i cui risultati sono le cosiddette proiezioni cartografiche. Purtroppo, ciò comporta un certo margine di errore, inevitabile per qualsiasi tipo di proiezione si adotti. La rappresentazione della superficie terrestre sul piano genera sempre delle deformazioni, come era noto fin dall’antichità, poiché è una conseguenza di diversi risultati contenuti negli Sphaerica di Menelao di Alessandria (70 ca. – 140 ca.) sulla geometria dei triangoli tracciati sulla superficie di una sfera, come ad esempio il fatto che la somma degli angoli in un triangolo sferico è sempre maggiore di 180°. 


Trasformare delle coordinate geografiche in coordinate cartesiane è sempre un atto disonesto. La dimostrazione formale fu fornita da Eulero nel 1777, in Sulla mappatura delle Superfici Sferiche sul Piano, che chiamava perfetta una mappa f da una regione S della sfera al piano euclideo se valgono le seguenti due condizioni:

(1) f manda meridiani e paralleli a due campi di linee che formano reciprocamente gli stessi angoli;
(2) f conserva le distanze infinitesimamente lungo i meridiani e i paralleli.

Quindi, una mappa perfetta manda i meridiani e i paralleli a due campi di linee ortogonali. Inoltre, essa conserva globalmente l'elemento della lunghezza lungo i meridiani e i paralleli. Si noti che, sul globo sferico, i meridiani sono geodetiche, ma i paralleli non lo sono. Il fatto che le distanze siano conservate infinitesimamente lungo i meridiani implica immediatamente che le distanze tra i punti su queste linee debbano essere preservate. Ne consegue anche, sebbene non così immediatamente, che in una mappa perfetta anche le distanze tra i punti sui paralleli debbano essere preservate. L'idea della dimostrazione di Eulero fu di tradurre queste condizioni geometriche in un sistema di equazioni differenziali alle derivate parziali e mostrare che questo sistema non ha soluzione:

“Così è dimostrato attraverso il calcolo che una perfetta mappatura della Sfera sul piano non è possibile. Essendo quindi esclusa una rappresentazione perfettamente esatta, siamo obbligati ad ammettere rappresentazioni non simili, in modo che la figura sferica differisce in qualche modo dalla sua immagine sul piano. Per quanto riguarda la divergenza tra l'immagine e la realtà, possiamo fare varie ipotesi, e secondo l'assunzione che si assume come base, possiamo realizzare l'immagine più adatta a questo o quello scopo. In questo modo, le esigenze che l'immagine deve soddisfare possono variare in modi molto diversi”.



Un’ulteriore conferma alle dimostrazioni di Eulero arrivò da Gauss con l’opera Disquisitiones generales circa superficies curvas, vera pietra miliare nella storia della geometria differenziale, che Gauss pubblicò nel 1828. Riflettendo su cosa significasse definire le superfici, scoprì che la curvatura è una loro caratteristica intrinseca, perché è interamente determinata dalle misurazioni nella superficie e non coinvolge in alcun modo una terza dimensione normale ad essa. Così le superfici non andavano più considerate come immerse nello spazio tridimensionale, ma piuttosto “non come contorni di corpi, ma come corpi di cui una dimensione è infinitamente piccola”, una specie di velo “flessibile ma inestensibile”. La maggior parte delle superfici ha una curvatura non nulla, maggiore o minore di 0. Al contrario, se la superficie è un piano, la sua curvatura è nulla in tutti i suoi punti.

Gauss studiò anche quando una superficie può essere mappata su un'altra in modo tale che le distanze non siano alterate, e dimostrò che una condizione necessaria affinché ciò accada è che le curvature nei punti corrispondenti siano le stesse. Ad esempio, il cilindro e il piano sono localmente isometrici; sebbene curva, la superficie laterale del cilindro ha una curvatura zero nel senso di Gauss, proprio come il piano, ed è per questo che è possibile stampare con un tamburo rotante (la geometria intrinseca del cilindro è piatta, in quanto su di essa valgono tutti gli assiomi del piano euclideo). Una sfera (con curvatura positiva) e il piano (con curvatura nulla), invece, hanno sempre curvature diverse e non possono essere fra loro isometriche.

Visto che l’errore è sempre presente, si sceglie la proiezione che lo minimizza per il nostro scopo. Esistono infatti diverse leggi proiettive, in grado di privilegiare il mantenimento delle proporzioni tra le superfici, o tra le distanze, o conservare gli angoli tra direzioni. Un altro importante fattore di distorsione è la scala, cioè il rapporto tra distanze sulla mappa e distanze sul terreno. In genere, tanto più grande è la scala, tanto maggiore è l’errore. 



 Il paradosso della mappa in scala 1.1

L’ideale sarebbe una mappa in scala 1:1, ma anche in questo caso sorgono problemi. Il notissimo paradosso di Borges relativo alla Mappa dell’Impero, contenuto in Storia universale dell’infamia (1961), e contenuto nel frammento Del rigore della scienza, ci permette di evidenziarli. Come sua abitudine, l’autore argentino attribuisce la citazione a un libro che in realtà non esiste: 

“(…) In quell'Impero, l'Arte della Cartografia giunse a una tal Perfezione che la Mappa di una sola Provincia occupava tutta una Città, e la mappa dell'impero tutta una Provincia. Col tempo, queste Mappe smisurate non bastarono più. I Collegi dei Cartografi fecero una Mappa dell'Impero che aveva l’Immensità dell'Impero e coincideva perfettamente con esso. Ma le Generazioni Seguenti, meno portate allo Studio della cartografia, pensarono che questa Mappa enorme fosse inutile e non senza Empietà la abbandonarono alle Inclemenze del Sole e degl'Inverni. Nei deserti dell'Ovest rimangono lacere Rovine della Mappa, abitate da Animali e Mendichi; in tutto il Paese non c’è altra reliquia delle Discipline Geografiche. (Suárez Miranda, Viajes de varones prudentes, libro IV, cap. XIV, Lérida, 1658)”. 

Umberto Eco, nel Secondo diario minimo (1992), esaminò con finta serietà la possibilità teorica di tale mappa e, attraverso speculazioni sulla sua possibile natura (mappa opaca stesa sul territorio, mappa sospesa, mappa trasparente, permeabile, stesa e orientabile), sul suo ripiegamento e dispiegamento, giunse a concludere, sulla base del paradosso di Russell (l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi appartiene a se stesso se, e solo se, non appartiene a se stesso), che tale mappa non potrebbe rappresentare l’insieme territorio + mappa.

Il logico e divulgatore Piergiorgio Odifreddi è stato più conciliante, affermando che l’ipotesi di una mappa perfetta di un territorio disegnata su una sua parte non implica comunque una contraddizione, perché esiste almeno un punto del territorio che coincide con la sua immagine sulla mappa. Il teorema del punto fisso di Banach-Caccioppoli garantisce infatti che una qualsiasi contrazione definita su uno spazio metrico ammette almeno un punto fisso, dove l'immagine sulla mappa coincide con il punto stesso. Il che vuol dire che una mappa, anche in scala 1:1, è sempre infedele, tranne che in quel solo punto.

Odifreddi dice inoltre che “Una delle ossessioni di Borges, apparentata all'autoriferimento e apparentemente paradossale, è la cosiddetta mappa di Royce, che egli ha citato almeno tre volte”. In effetti Borges cita esplicitamente il paradosso del filosofo idealista americano Josiah Royce in un passo del saggio Magie parziali del “Don Chisciotte”, contenuto in Altre inquisizioni (Feltrinelli, 1963, ma l’originale è del 1960): 

“Le invenzioni della filosofia non sono meno fantastiche di quelle dell’arte: Josiah Royce, nel primo volume dell’opera The world and the individual (1899), ha formulato la seguente: ‘Immaginiamo che una porzione del suolo d'Inghilterra sia stata livellata perfettamente, e che in essa un cartografo tracci una mappa d’Inghilterra. L’opera è perfetta. Non c’è particolare del suolo d’Inghilterra, per minimo che sia, che non sia registrato nella mappa; tutto ha lì la sua corrispondenza. La mappa, in tal caso, deve contenere una mappa della mappa, che deve contenere una mappa della mappa della mappa, e così all'infinito’.” 

 

Il paradosso di Bonini

Charles P. Bonini, professore emerito di Scienze gestionali alla Stanford Graduate School of Business, è stato esperto, ricercatore e insegnante delle applicazioni delle tecniche quantitative e statistiche ai problemi decisionali. Queste tecniche includono analisi delle decisioni, modelli di ottimizzazione, sistemi di elaborazione, teoria delle code, simulazione e data mining. È stato autore e coautore di numerosi libri di testo. 

Nel 1963 propose quello che è noto come il Paradosso di Bonini che illustra la difficoltà di costruire modelli o simulazioni che colgano completamente il funzionamento di sistemi complessi (come il cervello umano).

Nel dibattito scientifico moderno, il paradosso è stato articolato nel 1971 da John M. Dutton e William H. Starbuck: "Quando un modello di un sistema complesso diventa più completo, diventa meno comprensibile. In alternativa, quando un modello diventa più realistico, diventa anche altrettanto difficile da capire quanto i processi del mondo reale che rappresenta”.

Questo stesso paradosso era stato accennato nel 1942 da un “cattivo pensiero” del filosofo-poeta Paul Valéry: "Ce qui est simple est toujours faux. Ce qui ne l'est pas est inutilisable" (Ciò che è semplice, è sempre falso. Ciò che non lo è, è inutilizzabile.)

Inoltre, lo stesso argomento fu discusso dall’agronomo, matematico, ecologo e filosofo della scienza Richard Levins nell’articolo per l’American Scientist "The Strategy of Model Building in Population Biology" (1966), dove affermava che i modelli complessi hanno "troppi parametri da misurare, portando a equazioni analiticamente insolubili che supererebbero la capacità dei nostri computer, ma i risultati non avrebbero alcun significato per noi anche se potessero essere risolti”.

Il paradosso di Bonini può essere visto come un caso di relazione mappa-territorio: mappe più semplici sono rappresentazioni meno accurate ma più utili del territorio. 

Devo dire che mi è subito affiorato alla mente il ricordo della frequenza ai corsi di aggiornamento sulla costruzione delle mappe concettuali (quelle vere, non dei semplici diagrammi spacciati per esse), dove veniva chiesto di programmare delle attività didattiche interdisciplinari e di costruire la mappa dei contenuti della propria materia da integrare con quelle elaborate dai colleghi. Il risultato di tale volenterosa attività erano dei lenzuoli incomprensibili a tutti i partecipanti. Il bello è che in seguito questa prassi fu utilizzata obbligatoriamente nelle progettazione delle cosiddette Unità Formative a livello di istituto, che andavano declinate anche come competenze, in ossequio ai dettami del vangelo predicato da Bertagna e fatto proprio dall’allora ministra Moratti. Ero bravissimo a preparare tali mostruose e rizomatiche piovre, ma mentivo sapendo di mentire. 



La mappa non è il territorio

L’originale matematico, ingegnere e filosofo polacco-americano Alfred Korzybski (1879-1950) osservò che "la mappa non è il territorio" e che "la parola non è la cosa", sintetizzando la sua visione che un'astrazione derivata da qualcosa, o una reazione ad essa, non è la cosa stessa. Korzybski sosteneva che molte persone confondono le mappe con i territori, cioè confondono i modelli della realtà con la realtà stessa. 

Korzybski voleva criticare le ambiguità del linguaggio e fondare una nuova dottrina di (quasi) tutto che chiamava Semantica generale (un’idea che purtroppo sedusse anche gente psico-cosa tipo L. Ron Hubbard, quello di Scientology, per dire), ma la sua frase rimase nella storia del pensiero.

Korzybski sosteneva che gli esseri umani sono limitati in ciò che conoscono dalla struttura del loro sistema nervoso e dalla struttura delle loro lingue. Gli uomini non possono sperimentare il mondo direttamente, ma solo attraverso le loro "astrazioni" (impressioni non verbali o "spunti" derivati ​​dal sistema nervoso e indicatori verbali espressi e derivati ​​dal linguaggio). Questi a volte ci ingannano su quale sia la verità. La nostra comprensione a volte manca di somiglianza di struttura con ciò che sta realmente accadendo. In termini più astratti, la proposizione di Korzybski asserisce che sempre quando c'è pensiero o percezione oppure comunicazione sulla percezione vi è una trasformazione, una codificazione, tra la cosa comunicata e la sua comunicazione. Soprattutto, la relazione tra la comunicazione e la cosa comunicata tende ad avere la natura di una classificazione, di un'assegnazione della cosa a una classe. Dare un nome è sempre un classificare e tracciare una mappa è essenzialmente lo stesso che dare un nome. Bisogna anche dire che onestamente riconobbe che “Una mappa non è il territorio che rappresenta, ma, se corretta, ha una struttura simile al territorio, il che spiega la sua utilità”.

L'espressione comparve per la prima volta in stampa in "A Non-Aristotelian System and Its Necessity for Rigor in Mathematics and Physics", resoconto di una conferenza che Korzybski tenne a una riunione della American Association for the Advancement of Science a New Orleans il 28 dicembre 1931. Il documento fu ristampato in Science and Sanity (1933). In questo libro, Korzybski riconosceva il suo debito nei confronti del matematico Eric Temple Bell, la cui epigrammatica asserzione "la mappa non è la cosa mappata", comparve nel saggio Numerology nello stesso anno. Il libro di Temple Bell era un serio tentativo di smontare ogni velleità di intravvedere significati simbolici nei numeri e dedicava un capitolo intero a criticare l’idea di alcuni matematici suoi contemporanei che “Il cosmo è matematica pura e la matematica pura è il Cosmo”, giungendo a contestare persino l’idea di isomorfismo se riferita alla relazione tra matematica pura e realtà esterna.




Il territorio non è il territorio

Gregory Bateson, in Verso un'ecologia della mente (1972), nel capitolo "Forma, sostanza e differenza" (basato sulla conferenza per il diciannovesimo Annual Korzybski Memorial, tenuta il 9 gennaio 1970), sostenne in modo radicale l’impossibilità di sapere cosa sia un territorio reale. Qualsiasi comprensione di qualsiasi territorio si basa su uno o più canali sensoriali che riportano in modo adeguato ma imperfetto:

“Diciamo che la mappa è diversa dal territorio; ma che cos’è il territorio? Da un punto di vista operativo, qualcuno (...) è andato a ricavare certe rappresentazioni che poi sono state riportate sulla carta. Ciò che si trova sulla carta topografica è una rappresentazione di ciò che si trovava nella rappresentazione retinica dell’uomo che ha tracciato la mappa; e se a questo punto si ripete la domanda, ciò che si trova è un regresso all’infinito, una serie infinita di mappe: il territorio non entra mai in scena. Il territorio è la Ding an sich [la cosa in sé], e con esso non c’è nulla da fare, poiché il procedimento di rappresentazione lo eliminerà sempre, cosicché il mondo mentale è costituito solo da mappe di mappe, ad infinitum”.

“Tutti i ’fenomeni’ sono letteralmente ’apparenze’. Oppure si può andare nel verso opposto della catena. Io ricevo vari generi di mappe, che chiamo dati o informazioni; e, quando le ricevo, agisco. Ma le mie azioni, le mie contrazioni muscolari, sono trasformate [informazioni] di differenze nel materiale d’ingresso, e io ricevo dati che sono a loro volta trasformate delle mie azioni. Si ottiene così un quadro del mondo mentale che in qualche modo si è affrancato dal nostro quadro tradizionale del mondo fisico”. (...)

“Torniamo alla mappa e al territorio e chiediamoci: "Quali sono le parti del territorio che sono riportate sulla mappa?". Sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa: questo è il punto centrale su cui qui siamo tutti d’accordo. Ora, se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa di contro a una più vasta matrice. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza, si tratti di una differenza di quota, o di vegetazione, o di struttura demografica, o di superficie, o insomma di qualunque tipo. Le differenze sono le cose che vengono riportate sulla mappa.

Ma che cos’è una differenza? Una differenza è un concetto molto peculiare e oscuro. Non è certo né una cosa né un evento. Questo pezzo di carta differisce dal legno di questo leggio; vi sono tra essi molte differenze, di colore, di grana, di forma, eccetera. Ma se cominciamo a porci domande sulla localizzazione di quelle differenze, cominciano le difficoltà. Ovviamente la differenza tra la carta e il legno non è nella carta; ovviamente non è neppure nel legno; ovviamente non è nello spazio che li separa; e non è ovviamente nel tempo che li separa. (Una differenza che si produce nel corso del tempo è ciò che chiamiamo ’cambiamento’). Dunque, una differenza è un’entità astratta”. (...)

“Nelle scienze fisiche gli effetti, in generale, sono causati da condizioni o eventi piuttosto concreti: urti, forze e così via. Ma quando si entra nel mondo della comunicazione, dell’organizzazione, eccetera, ci si lascia alle spalle l’intero mondo in cui gli effetti sono prodotti da forze, urti e scambi di energia. Si entra in un mondo in cui gli ’effetti’ (e non sono sicuro che si debba usare la stessa parola) sono prodotti da differenze. Cioè essi sono prodotti da quel tipo di ‘cosa’ che viene trasferita dal territorio alla mappa. Questa è la differenza”.

Altrove, in quello stesso volume, Bateson ha sostenuto che l'utilità di una mappa non è necessariamente una questione di veridicità letterale, ma di avere una struttura analoga, per lo scopo in questione, al territorio. 

Jean Baudrillard in Simulacri e simulazione (1981) sosteneva che il processo di mascheramento della mappa è ormai giunto alle sue estreme conseguenze: lo sviluppo dei media offusca il confine tra mappa e territorio, consentendo la simulazione delle idee codificate in segnali elettronici. Oramai è la mappa che precede il territorio, o addirittura lo sostituisce. Adesso si direbbe che viviamo in un’epoca di post-verità, che è come dire di menzogna (occhio: non sta parlando di scienza, ma di media).

Un'analogia specifica che Jean Baudrillard usa è proprio il racconto della mappa dell’impero. Nell'interpretazione di Baudrillard, il territorio non precede più la mappa né sopravvive alla mappa. È la mappa che precede il territorio. Le persone vivono nella mappa, ossia nella simulazione della realtà in cui la gente dell’impero passa la vita, garantendo che il loro posto nella rappresentazione sia adeguatamente circoscritto e dettagliato dai cartografi che hanno creato la mappa. Di contro la realtà si sgretola per il disuso, infatti ciò che non si usa si atrofizza e ciò che si atrofizza si perde. La transizione da segni che nascondono qualcosa a segni che nascondono che non c’è nulla è la svolta decisiva. 

“L'astrazione oggi non è più quella della mappa, del doppio, dello specchio o del concetto. La simulazione non è più quella di un territorio, di un essere referenziale o di una sostanza. È la generazione per modelli di un reale senza origine né realtà: un iperreale. Il territorio non precede più la mappa, né le sopravvive. Ormai è la mappa che precede il territorio - precessione dei simulacri - è la mappa che genera il territorio e, se dovessimo far rivivere la favola oggi, sarebbero i brandelli del territorio che stanno lentamente morendo sulla mappa. È il reale, e non la mappa, di cui vestigia sussistono qua e là, nei deserti che non sono più quelli dell'Impero, ma i nostri. Il deserto del reale stesso. (…)

Ma non si tratta più né di mappe né di territorio. Qualcosa è scomparso: la grande differenza tra loro, che era il fascino dell'astrazione. Perché è la differenza che forma la poesia della mappa e il fascino del territorio, la magia del concetto e il fascino del reale. Questo immaginario rappresentativo, che culmina ed è al tempo stesso inghiottito dal folle progetto del cartografo di una coestensività ideale tra mappa e territorio, scompare con la simulazione, il cui funzionamento è nucleare e genetico, e non più speculare e discorsivo. (…) Il reale è prodotto da unità miniaturizzate, da matrici, banchi di memoria e modelli di comando - e con questi può essere riprodotto un numero indefinito di volte. Non deve più essere razionale, poiché non è più misurato rispetto a qualche istanza ideale o negativa. Non è altro che operativo. Infatti, poiché non è più avvolto da un immaginario, non è più affatto reale. È un iperreale: il prodotto di una sintesi irradiante di modelli combinatori in un iperspazio senza atmosfera. In questo passaggio ad uno spazio la cui curvatura non è più quella del reale, né quella della verità, l'età della simulazione inizia così con una liquidazione di tutti i referenti (...) nei sistemi di segni, che sono un materiale più duttile che il significato, in quanto si prestano a tutti i sistemi di equivalenza, a tutte le opposizioni binarie e a tutta l'algebra combinatoria. 

(…) Mai più il reale dovrà essere prodotto: questa è la funzione vitale del modello in un sistema di morte, anzi di risurrezione anticipata che non lascia più alcuna possibilità anche in caso di morte. Un iperreale ormai al riparo dall'immaginario, e da ogni distinzione tra reale e immaginario, che lascia spazio solo alla ricorrenza orbitale dei modelli e alla generazione simulata della differenza”.


Che fare?

Forse aveva ragione Lewis Carroll, che, per non sbagliare, disegnò per i protagonisti de La caccia allo Snark una mappa dell’Oceano completamente vuota? Assolutamente no. La mappa non è il territorio, e forse tutti i modelli sono falsi. Ma proprio perché consci di questo, senza derive di nichilismo epistemologico (Ignoramus et ignorabimus), possiamo dedicarci a scoprire, con tutti i nostri limiti, il mondo che ci circonda. Sono i suoi limiti epistemologici, ontologici, semplicemente logici, che fanno grande l'impresa scientifica, compreso il difficile compito di costruire mappe e modelli che siano esplicativi, predittivi, coerenti con il contesto e altre mappe. È scienza: funziona, anche se ci sarà sempre un mistico fallito, un complottista, un teorete, un terrapiattista o un prete a sparare cazzate.