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domenica 7 agosto 2022

Boccioni e l’etere, tra scienza e occultismo

 


A cavallo tra XIX e XX secolo, con
etere si intendeva l’imponderabile mezzo che si pensava riempisse lo spazio e serviva come veicolo per la trasmissione delle onde elettromagnetiche. Sebbene la Relatività Speciale di Einstein del 1905 avesse smontato gli argomenti meccanici dell’ipotesi dell'etere, dimostrando che le equazioni di Maxwell erano valide anche senza l’esistenza di questo misterioso fluido, la teoria del fisico tedesco fu accettata solo gradualmente tra gli scienziati e non fu resa popolare fino al 1919, quando Eddington trovò la conferma della curvatura dello spazio in occasione di un'eclisse e poi divulgò la relatività einsteiniana in tutto il mondo. Così, l’etere continuò a incombere nell’immaginazione popolare per tutti gli anni Dieci e Venti, anche dopo che la maggior parte dei fisici l’aveva descritto come un’idea fallace. Per il pubblico non specialista, l’etere era virtualmente sinonimo di spazio. 

La scoperta dei raggi–X, fatta da Röntgen nel 1895, dimostrava che esisteva un mondo invisibile e che non si trattava di speculazioni mistiche o filosofiche, ma di un fatto scientifico accertato. Le pubblicazioni del fisico tedesco sulle sue scoperte diedero il via ad una massiccia serie di pubblicazioni scientifiche e divulgative, oltre che, a livello popolare, ad articoli sulla stampa, poesie, disegni e canzoni. L’immediato impatto dei raggi–X fu quello di rendere trasparente la materia solida, rivelando forme precedentemente invisibili e suggerendo una nuova relazione, più fluida, di quelle forme con lo spazio intorno ad esse. Questa idea fu centrale per i pittori cubisti francesi e per i futuristi italiani. Severini, Carrà, Balla, Russolo e Boccioni dichiararono nell’Aprile del 1910, nel Manifesto tecnico della pittura futurista, “Chi può credere ancora all'opacità dei corpi, mentre la nostra acuita e moltiplicata sensibilità ci fa intuire le oscure manifestazioni dei fenomeni medianici? Perché si deve continuare a creare senza tener conto della nostra potenza visiva che può dare risultati analoghi a quelli dei raggi X?” E, più oltre: “La scienza d'oggi, negando il suo passato, risponde ai bisogni materiali del nostro tempo; ugualmente, l'arte negando il suo passato, deve rispondere ai bisogni intellettuali del nostro tempo”

Sia i raggi–X che le onde hertziane della telegrafia senza fili attirarono l’attenzione del pubblico su una nuova immagine dello spazio, piena di onde vibranti. Nello stesso periodo cambiavano le idee sulla costituzione della materia. Se i raggi–X avevano reso trasparenti gli oggetti, la loro intima solidità e stabilità fu messa in discussione dall’identificazione da parte di J.J. Thompson nel 1897 dell’elettrone in movimento e dall’annuncio che i nuovi elementi radioattivi scoperti dai coniugi Curie nel 1898 emettevano continuamente energia. 

Come i raggi–-X, l'onnipresente etere fu uno dei dogmi principali del credo del primo modernismo. All’alba del nuovo secolo, gli artisti si trovarono di fronte a una nuova concezione sia dello spazio sia della materia, e l’etere giocava un ruolo centrale nel nuovo paradigma della realtà fisica. 

La risposta degli artisti all’etere prese forme distinte. Il futurista Umberto Boccioni cercò di dargli forma fisica come mezzo che riempie lo spazio. “Bisogna dipingere non il visibile ma quello che finora fu tenuto per invisibile, cioè quello che vede il pittore veggente”, dichiarò in una conferenza nel 1911. Per Boccioni, una di quelle cose che dovevano essere rivelate era lo stesso mezzo etereo vibrante.

“Le ultime ipotesi scientifiche, le incommensurabili possibilità offerteci dalla chimica, dalla fisica, dalla biologia e da tutte le scoperte della scienza, la vita dell’infinitamente piccolo, l’unità fondamentale dell’energia che ci dà la vita, tutto ci spinge a creare delle analogie nella sensibilità plastica con queste nuove e meravigliose concezioni naturali”. 

Come scrisse nel 1914: 
“Intorno a noi vagano energie che vengono osservate e studiate; dai nostri corpi emanano fluidi di potenza, di attrazione o di repulsione (le categorie: simpatia, antipatia, amore, non ci interessano); le morti sono prevedute a distanza di centinaia di chilometri; i presentimenti ci animano di forza o ci annientano di terrore. Le onde Hertziane portano a migliaia di chilometri attraverso gli oceani, attraverso i deserti, il febbrile pulsare delle razze. Il microbo è inseguito nelle insondabili profondità della materia, studiato nelle sue abitudini, fotografato e fissato nella sua infinitesima individualità. 

Gli elettroni roteano nell’atomo a diecine di migliaia, separati gli uni dagli altri come i pianeti del sistema solare e come questi aventi un’orbita e una velocità inconcepibili alla nostra mente, e l’atomo è già invisibile ai nostri occhi e ai nostri strumenti ottici ... Si tagliano i continenti, si sondano gli oceani, si scende nelle gole incandescenti dei vulcani... E noi artisti? Noi ci attardiamo a suddividere la natura in paesaggio, figura, ecc. ecc., a misurare la prospettiva di una strada, e tremiamo dal terrore di non essere compresi, applauditi.... tremiamo di dubbio se dobbiamo violentare una luce, sconvolgere una forma, costruire un’opera qualsiasi che si scosti dalle leggi estetiche tradizionali! 

Convinciamoci che se questo infinito, questo imponderabile, questo invisibile, diventa sempre più oggetto d’indagine e di osservazione è perché nei moderni qualche senso meraviglioso va destandosi nelle profondità sconosciute della coscienza.” 
Poeti importanti come Filippo Tommaso Marinetti, Guillaume Apollinaire e Ezra Pound videro l’idea di comunicazione ondulatoria come un nuovo modello per la loro pratica letteraria. Marinetti dichiarò che i futuristi erano gli inventori della “immaginazione senza fili”, e la poesia di Apollinaire del 1914 Lettre-Océan celebrava la nuova stazione di telegrafia senza fili (TSF) sulla Torre Eiffel con parole che si irradiavano come onde dal simbolo della torre al centro della pagina. Pound descrisse i poeti come “in cerca di nuove emozioni, nuove vibrazioni… sensibili alle facoltà ancora male comprese” e li invitò a scrivere “in nuove lunghezze d’onda”


Le caratteristiche dell’etere teorizzate da Maxwell e dai fisici che lo seguirono sembravano curiosamente contraddittorie. L’etere doveva avere sia la rigidità di un solido elastico (considerata necessaria per la trasmissione delle onde elettromagnetiche vibranti), sia la rarefazione che gli avrebbe consentito di “passare attraverso la materia più densa, così come fa l’acqua attraverso un setaccio”.

Dalla metà del XIX secolo in poi, l’etere fu anche proposto come la possibile origine della materia stessa. Lord Kelvin propose negli anni ‘60 che gli atomi potessero essere dei vortici rotanti nell’etere. Sir Oliver Lodge e altri, negli anni ‘90, sostennero una “teoria elettrica della materia” fondata sull’elettrone e la sua interazione con l’etere. Come dichiarò Lord Balfour sull’etere nel suo discorso del 1904 alla British Association for the Advancement of Science, “Sembra ora possibile che ci possa essere la cosa di cui tutto l’universo è interamente costituito”. Non solo, ma, con la scoperta della radioattività, divulgatori scientifici come Gustave Le Bon sostenevano che anche la materia poteva decadere di nuovo nell’etere, suggerendo un’immagine dello spazio come un regno fluido di continua coesione e diffusione. 

In modo molto simile all’idea molto popolare di una quarta dimensione dello spazio, con la quale era talvolta associato in quel periodo, l’etere poteva andar bene per tutte le esigenze. Ad esempio, il teosofo Rudolf Steiner (l’inventore della biodinamica) citava più volte il discorso di Lord Balfour del 1904 nel suo periodico Lucifer-Gnosis nel 1908, una rivista ben conosciuta da Kandinsky. Steiner paragonò il testo di Balfour agli scritti della fondatrice della teosofia Elena Blavatsky, il cui Iside Svelata del 1887 metteva in relazione l’antico “etere”, inteso come “Anima del Mondo” e “Luce Astrale”, con il moderno etere di cui parlavano scienziati come Balfour Stewart e Peter Guthrie Tait. 

Nel loro libro The Unseen Universe del 1875, Stewart e Tait avevano ipotizzato che l’etere potesse fungere da ponte verso un universo impercettibile, nel quale potesse fluire l’energia dispersa con l’entropia. “Infine”, sostenevano, “ciò che in genere chiamiamo etere, potrebbe non essere un mezzo, ma un mezzo più l’ordine invisibile delle cose, in modo che quando i movimenti dell’universo visibile sono trasferiti nell’etere, parte di essi sono trasportati come da un ponte, e lì sono utilizzati e immagazzinati”. Nell’ipotesi di Tait e Stewart di un etere come veicolo per l’accumulo di energia cosmica, la Blavatsky trovò supporto per la sua idea che “l’etere, o luce astrale” potesse anche accumulare impronte visive o “impressioni dagherrotipiche di tutte le nostre azioni”. Questa “grande galleria di immagini” contenente “le immagini di eventi” incorporata in quel mezzo onnipervasivo, universale, di memoria eterna, pensava, poteva spiegare la facoltà del “potere psicometrico” del chiaroveggente o la trasposizione di pensieri e immagini. 

Stewart e Tait, nell'edizione riveduta del loro libro (1876), fecero uno dei primi collegamenti tra l’etere e la quarta dimensione. Come tanti autori successivi, essi utilizzarono l’analogia della relazione di una dimensione più bassa con un’altra: “Proprio come i punti sono le estremità delle linee, le linee sono i limiti delle superfici, e le superfici sono i limiti di porzioni di spazio in tre dimensioni, così possiamo ipotizzare che la nostra materia (essenzialmente tridimensionale) sia banalmente l’involucro di un Invisibile costituito da quattro dimensioni”. Analogamente, l’inglese Charles Hilton, uno dei principali divulgatori di un iperspazio quadridimensionale e delle sue implicazioni, avrebbe proposto in A New Era of Thought del 1888 che l’etere era forse il limite o la superficie di contatto tra i mondi a tre e a quattro dimensioni. Per gli occultisti, in particolare, entrambe le costruzioni ipotetiche (l’etere e la quarta dimensione dello spazio) potevano corroborare con una patina scientifica o matematica le loro speculazioni su un mondo sconosciuto e invisibile. 

Nel periodo che stiamo considerando, le distinzioni tra scienza e occultismo non erano così nettamente delineate come avviene oggi (con alcune eccezioni: il matematico e filosofo William Kingdon Clifford, in una lunga recensione assai satirica del libro di Stewart e Tait, comparsa sul Fortnightly Review del giugno 1875, si chiedeva come mai, se erano possibili due eteri, "perché non quattro o cinque o sei? E allora perché solo due universi con il loro apparato di “mitologia cristiana – corpi spirituali, pieni di energia, angeli, arcangeli, incarnazione, demoni molecolari, miracoli e giudizi finali”?). Gli artisti come Boccioni, trovavano invece supporto per le loro teorie sia da fonti scientifiche che da fonti occultistiche, e le vibrazioni eteree, dai raggi X alle onde hertziane, erano un’area dove le due cose potevano facilmente marciare assieme. L’occultista francese Albert de Rochas, ad esempio, basò sugli scritti di Lodge sull’elettromagnetismo la sua teoria di proiezione delle emanazioni corporee come anche dei pensieri. 


Tra gli scienziati, i molto popolari Lodge e William Crookes, come l’astronomo e divulgatore francese Camille Flammarion, erano molto interessati alle implicazioni delle vibrazioni dell’etere con i fenomeni psichici come la telepatia. Nel discorso del 1897 tenuto alla Society for Physical Research, Crookes aveva presentato una “tabella delle vibrazioni” riprodotta di frequente negli anni successivi, indicando i vasti intervalli di onde vibranti nell’etere che sono invisibili all’occhio umano, il quale percepisce solamente la ristretta banda della luce visibile. Per gli occultisti, il modello vibratorio suggeriva anche che gli individui sensitivi potevano espandere la loro ricettività fino a percepire intervalli più grandi di vibrazioni: “se avessimo altre corde alla nostra lira, dieci o cento, o mille, l’armonia della natura si potrebbe trasmettere a noi in modo più completo di quanto sia oggi possibile, facendo sentire con tutte queste corde l’influsso della vibrazione” sosteneva Flammarion nel popolare libro del 1900 L’inconnu dedicato ai fenomeni paranormali: “L’ultima scoperta dei raggi Röntgen, così inconcepibile e così strana nella sua origine, dovrebbe illuminarci sulla limitatezza del campo delle nostre osservazioni abituali (…) Questo è in effetti uno degli esempi più eloquenti a favore dell’assioma che è antiscientifico sostenere che le realtà si fermano al limite delle nostre conoscenze e della nostre osservazioni”. Il testo di Flammarion, che aveva l’indicativo sottotitolo Manifestations de Mourants, Apparitions, Télépathie, Communications Psychiques, Suggestion Mentale, Vue à Distance, Le Monde des Rêves, La Divination de l'avenir riportava, come molti altri in quel periodo, un primitivo schema dello spettro elettromagnetico, sottolineando quanto piccolo fosse il campo della luce visibile. Oppure, come Crookes aveva dichiarato nella sua conferenza del 1898 alla British Association, “le vibrazioni dell’etere hanno poteri e attributi capaci di ogni cosa, anche la trasmissione del pensiero”

Nel Manifesto tecnico della pittura futurista dell’11 aprile 1910 Boccioni (con Carrà, Russolo, Balla e Severini), Boccioni considerava il pittore futurista un veggente, con accesso all'invisibile simile all'azione penetrante dei raggi X o alla visione di un medium spiritualista. Sia la scienza che l'occultismo, insieme all'influsso della pittura cubista francese nell'autunno del 1911, alimentarono la sua arte e la teoria futurista in via di sviluppo. 

Come molti altri all'inizio del secolo, Boccioni credeva fermamente nell'evoluzione della coscienza e sosteneva che i futuristi erano "i primitivi di una nuova sensibilità completamente trasformata", dotati di una "forza psichica che autorizza i sensi a percepire ciò che non è mai stato percepito prima." Egli attribuiva questo sviluppo alle "condizioni di esistenza alterate" prodotte dalla scienza contemporanea "con vapore, elettricità, carburanti per motori, onde hertziane e tutte le ricerche di chimica e biologia". In una conferenza del 1911 dichiarava: 
"Verrà un tempo in cui il quadro non basterà più: la sua immobilità sarà un anacronismo col movimento vertiginoso della vita umana. L'occhio dell'uomo percepirà i colori come sentimenti in sé: i colori moltiplicati non avranno bisogno di forme per essere compresi, e le opere pittoriche saranno emanazioni luminose, gas colorati, che sulla scena d'un libero orizzonte commuoveranno ed elettrizzeranno l'anima complessa d'una folla che non possiamo ancora concepire”
Le scoperte scientifiche come i raggi X e la radioattività sono parallele ai “fenomeni medianici” che tanto impressionarono Boccioni, compresa la “percezione delle emanazioni luminose dei nostri corpi. ... che sono già stati trovati sulla lastra fotografica”. La pittura della trasparenza ai raggi X che Boccioni aveva appreso dall'incontro con il cubismo nel 1911 gioca un ruolo nella smaterializzazione delle forme nel suo trittico del 1911, Stati d’animo. I quadri hanno come ambientazione una stazione ferroviaria ed evocano le emozioni delle persone nel momento della partenza. Nel dipinto Stati d'animo n.1 - Gli addii di quella serie, ad esempio, vedute trasparenti di vagoni ferroviari e coppie che si abbracciano si sovrappongono all'immagine centrale di una locomotiva. Lo spazio è composto in vorticosi e dinamici movimenti di linee di chiara ispirazione cubista, che vanno a scomporre e stilizzare lo spazio, i corpi e i vapori emessi dal treno. La composizione assume così l'aspetto di un vortice tumultuoso convergente verso il solo elemento statico del dipinto, il numero inciso sulla locomotiva al centro del quadro con il suo fanale rosso; inoltre è presente il volume di una caldaia in posizione frontale. Una coppia che si abbraccia è più volte raffigurata in vari punti della tela, sulla sinistra invece sono visibili i binari del treno ed un traliccio metallico, che rimanda all'evoluzione industriale. 


Sul modello della radioattività e delle teorie occultistiche riguardo alle emanazioni corporee, Boccioni dipinge atomi vibranti di materia che si smaterializzano in energia. Proprio come il popolare strumento di Crookes, lo spintariscopio, consentiva di vedere le emissioni di una scheggia di radio colpire uno schermo fluorescente, le pennellate divisioniste di Boccioni evocano il regno della materia atomica nel processo di trasformazione. L’idea di Bergson di una realtà come un flusso costante fu probabilmente una fonte per Boccioni, che citò l’affermazione di Bergson che “qualsiasi divisione della materia in corpi autonomi con contorni assolutamente definiti è una divisione artificiale”. Tuttavia, le discussioni sull’etere che compenetra (o addirittura compone) tutta la materia resero possibile pensare alla materia e allo spazio riempito di etere come gradazioni di un continuo. Come disse Boccioni nella lezione che tenne al Circolo Artistico nel 1911, “i corpi solidi sono solo atmosfera condensata”

Due opere, il dipinto Materia del 1912-1913 e la scultura Forme uniche di continuità nello spazio del 1913, servono particolarmente a dimostrare l'impegno di Boccioni nel rappresentare l'etere invisibile. Boccioni era profondamente interessato alla proiezione di stati d'animo per mezzo di vibrazioni e si riferiva in più occasioni alle onde hertziane. 

La figura al centro di Materia è l’amatissima madre dell’artista, Cecilia Forlani. Ė evidente anche dal titolo l’accostamento tra Mater e materia. La donna è seduta su un piccolo balcone del quale si scorge la balaustra in ferro battuto, mentre dietro di lei si estende la città, dove case e edifici sono resi con una tecnica vicino a quella cubista del 1909/1910. Il balcone che dipinge Boccioni è stato identificato con quello di via Adige 23 a Milano che ospitò il suo studio dal 1909 al febbraio 1913. La vista che si presentava da questa finestra era quella di una città sempre più moderna: Boccioni dipinge sia il mulino Besozzo-Marzoli del quale si riconosce una delle finestre binate, sia le ciminiere della centrale termoelettrica di piazza Trento. In questi ambienti era facile ravvisare folle di gente al lavoro con carri, cavalli e prime automobili. Per questo ai lati della madre sono raffigurate due figure in rosso acceso che rappresentano un cavallo e un lavoratore, i quali si fondono con il primo piano seguendo il principio della percezione simultanea. 


La madre pone le sue grandi mani in primo piano in una prospettiva distorta, una frammentazione delle percezioni, "l’irruzione dell’esterno verso l’interno”. Boccioni materializza l'”atmosfera" precedentemente immateriale e invisibile, creando “un nuovo tipo di corpo materiale che esiste tra un oggetto e l’altro”. Nei suoi scritti, Boccioni cita specificatamente “la teoria elettrica della materia, secondo la quale la materia è solo energia, elettricità condensata che esiste solo in quanto forza” e il suo dipinto testimonia la diffusa credenza che l’etere fosse qualcosa alla radice della materia. Se Boccioni rende la trama dell’etere materiale e palpabile, egli rappresenta l’etere tramite i segni delle sue onde vibratorie, tra le quali la luce visibile, che era citata in quel tempo come l’unica manifestazione dell’etere percepibile dall’occhio umano. 

Naturalmente, con la sua sensibilità futurista, Boccioni aggiunge altre bande di vibrazioni e così aggiunge al suo dipinto sprazzi di luce elettromagnetica, come gli inquietanti raggi simili a raggi X o i raggi ultravioletti che scendono da e sopra il soggetto dalla cima del dipinto. Questi raggi che articolano la superficie dipinta possono anche essere lette come le “linee di forza” futuriste e, data l’idea diffusa che le forze elettromagnetiche derivassero da vibrazioni dell’etere, come segni ulteriori dell’etere stesso. Descrivendo l’”atmosfera” dei quadri futuristi come “come il conduttore sensibile di forze dinamiche”, Boccioni sosteneva nel 1913 che “dev’essere chiaro… perché un infinità di linee e correnti sono emanate dai nostri oggetti, facendoli vivere in un ambiente che è stato creato dalle loro vibrazioni”

Le idee di Boccioni sulla materializzazione dell’etere invisibile erano basate sulle teorie scientifiche contemporanee, ma egli le ricavò, come si è visto, anche dalla letteratura occultistica sull’esteriorizzazione del pensiero e la materializzazione medianica. In una conferenza del 1911 aveva sostenuto “e così, se i corpi solidi danno origine a stati mentali per mezzo di vibrazioni di forme, allora noi possiamo disegnare quelle vibrazioni”. E nel suo saggio del 1914 Pittura scultura futuriste avrebbe dichiarato “Per noi il mistero biologico della materializzazione medianica è una certezza, una chiarezza nell’intuizione del trascendentalismo fisico e degli stati d’animo plastici”. Così, le vibrazioni eteree che si condensano attorno a sua madre in Materia sono presumibilmente quelle dello stato mentale della donna, compresa la memoria per immagini bergsoniana, come il cavallo sulla sinistra e l’uomo che cammina sulla destra. Allora queste tracce di memoria nell’etere possono essere considerate come corrispondenti alle “impressioni dagherrotipiche” della Blavatsky di una banca delle immagini cosmica ed eterea.

La volontà di Boccioni a rendere l'etere stesso palpabile come sostanza e come ultimo segno di continuità è più chiara nella sua scultura del 1913 Forme uniche di continuità nello spazio. Questa scultura riunisce nel tema della continuità l'impegno dell'artista per l'etere e la sua personale interpretazione della quarta dimensione dello spazio. Sebbene la filosofia bergsoniana sia alla base della convinzione di base di Boccioni nel continuum, il tema della continuità era centrale anche nella fisica vittoriana praticata da scienziati come Lodge. Nel suo libro del 1909 The Ether of Space, Lodge citava l'affermazione di Maxwell secondo cui "le vaste regioni interplanetarie e interstellari" dell'universo sono così "piene di questo meraviglioso mezzo... che nessun potere umano può rimuoverlo dalla più piccola porzione di spazio, o produrre il minimo difetto nella sua continuità infinita". Sembrerebbe che la continuità suggerita dalle proprietà spaziali della quarta dimensione e dall'etere siano alla base della materializzazione dell'invisibile in quest’opera. 


In Pittura scultura futuriste del 1914 Boccioni rivendica audacemente la quarta dimensione del futurismo, riformulandola in termini dinamici: 
"Se con l’intuizione artistica è possibile avvicinarsi al concetto di quarta dimensione, siamo noi futuristi che per primi ci avviciniamo. Infatti, noi con la forma unica che dà la continuità nello spazio creiamo una forma che è la somma degli svolgimenti potenziali delle tre dimensioni conosciute. Perciò non una quarta dimensione misurata e finita noi possiamo dare, ma una continua proiezione delle forze e delle forme intuite nel loro infinito svolgersi. Infatti, la forma unica dinamica da noi proclamata non è che il suggerimento d’una forma del moto che appare un istante per poi perdersi nell’ infinito succedersi della sua varietà.” 
L'artista potrebbe aver pensato a quella "forma dinamica unica" come a un'entità quadridimensionale che attraversa lo spazio tridimensionale, registrando una successione di apparenze diverse. Questo sarebbe l'analogo quadri-tridimensionale del modello di Hinton del passaggio di una spirale tridimensionale attraverso un piano bidimensionale, che si registrerebbe nel piano come il "movimento relativo" di un punto che segue un cerchio. In realtà quel punto sarebbe una successione di punti sulla spirale, definita quando la spirale si muove verticalmente nel suo “moto assoluto”. 


Eppure, l'obiettivo primario di Boccioni nella sua scultura sembra essere stato quello di incarnare la fisicità del mezzo di registrazione: in questo caso l'etere come controparte tridimensionale di un piano di registrazione bidimensionale. Come scrive altrove nel suo libro del 1914: 
“Noi vogliamo modellare l’atmosfera, disegnare le forze degli oggetti, le loro reciproche influenze, la forma unica della continuità nello spazio. Questa materializzazione del fluido, dell’etereo, dell’imponderabile; questa trasposizione nel concreto di quello che si potrebbe chiamare il nuovo infinito biologico e che la febbre dell'intuizione illumina, è forse letteratura? Tutte le ricerche umane nel nostro tempo non anelano forse verso questo imponderabile che è in noi, attorno a noi e per noi? Non dimentichiamo che la vita risiede nell’unità dell’energia, che siamo dei centri che ricevono e trasmettono, cosicché noi siamo indissolubilmente legati al tutto”. 
Se a un certo livello Boccioni ha legato l'"Infinito dispiegarsi" di forze e forme in Forme Uniche di Continuità a una quarta dimensione dello spazio, alla fine l'opera si pone anche come la sua materializzazione più riuscita dell'etere (con il suo particolare effetto di "trascinamento”) che distrugge definitivamente i confini chiusi della scultura. Come nel dipinto Materia, la scultura di Boccioni testimonia il suo impegno nell'inventare i nuovi linguaggi della forma e dello spazio che credeva fossero necessari alla scienza moderna. 

Militarista e interventista, questo giovane genio visionario partì volontario per il fronte nella Prima Guerra mondiale. Addetto alle bombarde alla periferia di Verona, venne disarcionato dalla sua cavalla da tiro, spaventata da un treno, batté la testa e, con un piede impigliato nella staffa, venne trascinato per parecchi metri. Il 17 agosto 1916 morì dopo una breve agonia, senza riprendere conoscenza. Aveva 34 anni.

domenica 24 dicembre 2017

Newton, Pitagora e la Prisca Sapientia


È curioso che la maggior parte degli uomini che parteciparono alla rivoluzione scientifica, i contributi dei quali sembrano così originali e innovativi, erano convinti di stare semplicemente riscoprendo il grande corpus di sapienza originaria (Prisca Sapientia) che era stata posseduta dagli antichi, e che era andato perduto o dimenticato durante i secoli. Questa credenza non era del tutto inventata, perché le grandi opere, sia materiali, sia intellettuali, delle civiltà classiche erano (e, in qualche misura, sono) davvero impressionanti (basti pensare alle conoscenze scientifiche di epoca ellenistica messe in luce da Lucio Russo nel prezioso saggio La rivoluzione dimenticata).

La cultura intellettuale dell'Occidente europeo declinò realmente dopo la caduta di Roma, e le istituzioni in grado di preservare e trasmettere la conoscenza, così come l’attitudine a farlo, furono fortemente ridotte. Perciò, dopo una così lunga assenza, quando si riscoprirono gli antichi testi, gli umanisti e poi gli intellettuali del Rinascimento e dei secoli successivi erano consapevoli della loro inferiorità di fronte agli “antichi”. Inoltre, il fatto che molti degli antichi testi erano disponibili solamente in forma frammentaria, spesso come traduzioni di terza mano, e molti dei riferimenti fossero a opere totalmente sconosciute e presumibilmente perse, contribuì alla credenza che gli antichi avessero saputo molto di più, se solo avessimo potuto scoprirlo.

Questa attitudine rispetto al passato è, in qualche maniera, l’esatto opposto dell’idea che abbiamo oggi, che è quella di una sequenza totalmente ordinata di epoche che sono progredite da una minore conoscenza nel passato a una maggiore nel futuro. È difficile per noi immaginare il clima intellettuale tra persone che pensavano (sapevano) di essere scientificamente e matematicamente inferiori ai loro antenati di un lontano passato, di cui bisognava riscoprire i segreti.

In realtà il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt’altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un’incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente originali o del tutto folli, che spesso convivevano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Anche la biografia di tanti matematici del tempo presenta aspetti fortemente contraddittori, così pervasi di mentalità magica assieme a intuizioni e opere geniali.

Siamo poi abituati a considerare così assodate certe conoscenze da ignorare o dimenticare quanto queste nascano da un lungo processo di tentativi ed errori, da uomini per loro natura incoerenti e viventi in società e tempi contraddittori, così ci stupiamo di come uomini di grande valore potessero elaborare le loro straordinarie scoperte e contemporaneamente credere in idee sbagliate, coltivare passioni bizzarre, auspicare la realizzazione di sogni messianici. Esemplare è, a questo proposito, la figura di Nepero (John Napier), che inventava i logaritmi ma li considerava un passatempo di fronte alla sua grande missione di rovesciare il papa di Roma (che, tanto per cambiare, considerava l'Anticristo).

Inoltre, il valore immutato del sapere che ci era giunto, e quella sorta di immortalità che esso dava ai suoi autori, che erano sopravvissuti a un millennio e più di oblio solo per suscitare meraviglia quando erano infine riscoperti, fu una fonte di fascino immenso, e inevitabilmente indusse gli uomini a partecipare al processo, anche se solo (all’inizio) con la traduzione e la copiatura delle grandi opere.

Tra le figure più ammirate dell’antichità spicca Pitagora, oggetto di un mito duraturo, iniziato già ai tempi in cui era attiva la sua scuola a Crotone nel VI secolo a. C. e proseguito nel corso dei secoli attraverso fonti disparate che avevano tramandato le facce di un enigmatico semidio: sciamano, taumaturgo, mago, ierofante, ma anche matematico, fisico, riformatore morale e politico. Per quanto Pitagora fosse originario di Samo, parlasse greco e agisse nelle colonie greche dell’Italia meridionale (la Magna Grecia), i filosofi di Crotone e Taranto, anch’essi di stirpe greca, che ne avevano riportato e sviluppato gli insegnamenti furono designati da Aristotele come Italici. I Latini sfruttarono l’ambiguità della definizione di “scuola italica” a scopi patriottici, utilizzando anche la variante del racconto che attribuiva al filosofo origini etrusche. In quel contesto si ebbe persino la fusione della leggenda pitagorica con quella di Numa Pompilio, il re-sacerdote e riformatore romano che sarebbe stato allievo di Pitagora (mentre era vissuto un secolo e mezzo prima dello sbarco del filosofo in Calabria).

Il mito pitagorico fu tramandato attraverso gli scritti di Aristotele (che però contestava l’idea pitagorica che tutto in natura è numero, e che i numeri sono cause delle cose) e, in chiave più mistica ed esoterica (che privilegiava i detti oracolari, la dottrina dell’anima e della reincarnazione, il simbolismo arcano dei numeri, l’idea di un’Anima Mundi che governasse tutte le cose terrestri e celesti), dai filosofi neoplatonici e anche da alcuni autori cristiani. I frammenti biografici e dottrinali giunti dai tempi immediatamente successivi al fiorire della scuola pitagorica furono integrati da un vasto insieme di leggende, che andarono a infoltire la letteratura e il mito del filosofo di Samo, deformandolo e falsificandolo, spesso con evidenti contraddizioni tra una fonte e l’altra.


Parzialmente dimenticato dopo la fine dell’antichità, il mito pitagorico ebbe una nuova fioritura nei decenni centrali del Quattrocento, quando il revival neoplatonico, originato dalla diaspora bizantina precedente e successiva al crollo dell’Impero d’Oriente (1453) e dall’arrivo di una gran mole di opere greche, portò con sé anche la rivalutazione di colui che, a torto, era considerato maestro del filosofo ateniese al pari di Socrate. Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della Mirandola (1463-1494) furono tra gli umanisti italiani che più contribuirono al rinnovarsi del mito. Per Ficino esisteva una lunga catena iniziatica che comprendeva Zoroastro, Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone e infine Plotino. La sapienza di questi maestri, frutto della rivelazione divina, fu nascosta al volgo sotto il velo di favole e misteri, fu poi rivelata da Cristo, ma di nuovo perduta dopo di lui. Nella prefazione alla sua traduzione delle opere di Plotino, scriveva:
“Era costume degli antichi teologi occultare i misteri divini con numeri e figure matematiche, o con finzioni poetiche, per non divulgarli a caso”
e il vincolo della segretezza e della trasmissione orale della conoscenza in uso nella setta pitagorica ben si adattava a questa opinione.

Pico attuò invece un’audace sintesi tra le teorie numerologiche di origine pitagorica e la Kabbalah ebraica, aprendo la strada a tutte le interpretazioni cabalistiche cristiane delle Scritture e alle elucubrazioni numerologiche e angeliche dei due secoli successivi (da Johannes Reuchlin a John Dee e, in misura minore, Giordano Bruno). Nel pitagorismo Pico indicò la chiave della numerologia mistica, musicale, simbolica, ben distinta, secondo Platone, dalla matematica volgare “del mercante”. Fu in questi ambienti che emerse l’idea della distinzione tra numero numerante e numero numerato, cioè tra il numero considerato in chiave simbolica e mistica, origine e mistero della realtà, e quello, profano, utilizzato nei calcoli e nelle misure.

La scoperta, ai primi del Cinquecento, della soluzione generale delle equazioni polinomiali di terzo grado viene considerata da alcuni come un punto di svolta significativo nella storia della scienza, perché fu la prima volta che un uomo “moderno” fece una scoperta scientifica che andò oltre la conoscenza degli antichi. Nacque così la prospettiva stuzzicante di “migliorare” gli antichi e ciò fu un incentivo incredibilmente potente per fare nuove scoperte. Non sorprende che Galileo Galilei (1564-1642), esponente di un nuovo clima intellettuale, tracci una netta linea di demarcazione tra matematica e numerologia, relegando quest’ultima tra le pseudoscienze. Così leggiamo nel Dialogo sui massimi sistemi (1632) la risposta sferzante di Salviati (che esprime le idee di Galileo stesso) alle argomentazioni del pedante Simplicio:
SIMPLICIO. Par che voi pigliate per ischerzo queste ragioni: e pure è tutta dottrina dei Pittagorici, i quali tanto attribuivano a i numeri; e voi, che siete matematico, e, credo anco, in molte opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.

SALVIATI. Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano e lo stimasse partecipe di divinità solo per l’intender esso la natura de’ numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano da farne l’istesso giudizio; ma che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione la scienza de’ numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e le carte del volgo, non credo io in veruna maniera.
La magia pitagorica dei numeri non ebbe più corso presso la cerchia dei matematici di punta del Seicento (Cavalieri, Wallis, Cartesio, Leibniz, Fermat, ecc.), i quali dimenticarono il misticismo dei numeri interi per gli algoritmi da applicare a vecchi e nuovi campi di indagine: la quadratura delle curve, il calcolo delle tangenti, le tecniche del calcolo infinitesimale.

L’eredità pitagorica, sotto questo punto di vista, restò estranea agli sviluppi della matematica, che riprendeva piuttosto una serie di problemi lasciati insoluti da altri autori: Archimede, Apollonio, Euclide, Pappo. Tuttavia, la fascinazione per la Prisca Sapientia continuò a operare. Ancora alla fine del Seicento uomini come Pierre de Fermat (1601-1665) sviluppavano le loro idee originali sotto forma di “ricostruzioni” speculative di opere perdute dell’antichità. Fermat portò a compimento una ricostruzione dell’opera perduta di Apollonio di Perga sui Luoghi piani, portando direttamente allo sviluppo di ciò che oggi chiamiamo geometria analitica (non mancò una disputa sulla primogenitura tra lui e Cartesio). John Wallis (1616-1703) scrisse che la progressione distintamente criptica di molte delle presentazioni di Archimede gli sembrava:
“Come se ci fosse il proposito stabilito di coprire le tracce delle sue ricerche, come se avesse voluto negare ai posteri il segreto del suo metodo di indagine, mentre desiderava ottenere da essi l’assenso ai suoi risultati. Non solo Archimede, ma quasi tutti gli antichi nascosero così ai posteri il loro metodo di Analisi (anche se è chiaro che ne avevano uno), che i matematici più moderni trovarono più facile inventare una nuova analisi che cercare di trovare la vecchia”.
Cartesio (1596-1650), nella quarta delle sue Regulae, andò oltre, e cominciò a mettere in dubbio la sapienza degli antichi:
“Abbiamo prove sufficienti che gli antichi geometri facevano uso di una certa “analisi” che applicarono per la risoluzione dei loro problemi, sebbene, come sappiamo, essi celarono ai loro successori la conoscenza di questo metodo. (…) Sono convinto che certi semi primordiali di verità seminati dalla natura nelle nostre menti umane, semi che sono soffocati in noi a causa della lettura e dell’ascolto, giorno dopo giorno, di così tanti diversi errori, hanno avuto una tale vitalità in quel grezzo e semplice mondo antico che la luce della mente (…) consentì loro di riconoscere le idee vere nella filosofia e nella matematica, sebbene essi non fossero ancora capaci di ottenere una vera padronanza di esse (…) Questi scrittori, sono propenso a credere, con una certa astuzia nociva, tennero i segreti di questa matematica per se stessi”.
Come si vede, anche quando persisteva l’idea di una antica sapienza nascosta, i riferimenti non erano più a Pitagora, ma ad altri autori. Il mito pitagorico sarebbe veramente finito nell’oblio se non fosse stato sorprendentemente recuperato dal maggior matematico di quel periodo, Isaac Newton (1642-1727).



La prima versione dei Principia mathematica, intitolata De mundi systemate, scritta in modo divulgativo nel 1686 e mai data alle stampe, si apre in questo modo solenne:
“La più antica opinione dei Filosofi era che le stelle fisse stavano senza muoversi nelle parti più alte del Mondo, e che i pianeti giravano attorno al Sole sotto queste stelle; che allo stesso modo la Terra viene mossa in un corso annuale, così come con un moto giornaliero intorno al proprio asse, e che il Sole, o cuore dell’Universo, resta fermo al centro di tutte le cose. Questa era infatti la credenza di Filolao, di Aristarco di Samo, di Platone nei suoi anni più maturi, della setta dei Pitagorici, e (molto più antichi di questi), di Anassimandro e del più saggio dei re dei Romani, Numa Pompilio. Quest’ultimo eresse un tempio a Vesta, di forma circolare, e ordinò che vi bruciasse al centro un fuoco perpetuo, a simboleggiare la forma rotonda dell’Orbe con il fuoco solare al suo centro”.
Come si vede, egli era chiaramente influenzato dalla tradizione che attribuiva ogni tipo di sapere e conoscenza segreta agli “antichi”, non solo quella matematica. Ma c’è di più.

Tra il febbraio 1693 e i primi mesi del 1694, Newton si mise nei panni del filologo classico per dimostrare, a suo modo, una tesi nobile, e cioè che gli antichi filosofi avevano intuito due millenni prima di lui la fisica matematica e la meccanica celeste esposte nella prima edizione dei Principia mathematica (1687). Attente letture di decine di autori antichi e dei loro commentatori lo avevano convinto che i veteres avevano compreso i fondamenti dell’astronomia gravitazionale. Non aveva forse scritto Plutarco nel De facie Lunae che, secondo i filosofi, la Luna è un satellite della Terra, anzi un’altra Terra, così come lo sono tutti gli altri pianeti? Democrito e Lucrezio non avevano confermato che questi centri di gravità si attraggono reciprocamente?

Newton, nei cosiddetti Scolii classici, passa a interpretare una serie di testimonianze su Pitagora, al quale attribuisce la scoperta della legge dell’inverso dei quadrati. La formula, scrive, è implicita nella divinizzazione pitagorica del Sole come “carcere di Giove”, definizione che nasconde la “grandissima forza d’attrazione con la quale tiene prigionieri i pianeti nelle loro orbite”. E l’antica metafora di Pan, che suona e modula il mondo come uno strumento musicale, va interpretata come l’armonia cosmica dell’Anima Mundi: il mondo, che è il tempio di Dio, obbedisce a una legge matematica semplice e suprema, che fa sì che i corpi si attraggono secondo una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale alle loro distanze.

Non ancora soddisfatto, l’inglese prende in considerazione la scala musicale pitagorica e cita il celebre aneddoto della scoperta degli intervalli musicali. Secondo la versione di Macrobio, Pitagora verificò nell’officina di un fabbro la legge di corrispondenza tra i vari accordi, la lunghezza delle corde e i pesi che le sollecitano. Newton evita di accennare al fatto che Pitagora parlava di numeri interi e pare che ignori volutamente la confutazione attuata da Keplero nel III libro dell’Harmonice Mundi (1619), secondo la quale gli intervalli consonanti dipendono da quantità continue, geometriche, e non dai numeri [naturali] che sono quantità discrete. Newton si limita a interpretare l’aneddoto in chiave simbolica, per cui Pitagora avrebbe conosciuto la legge dell’inverso dei quadrati e
“applicò ai cieli e in tal modo apprese l’armonia delle sfere (…) intendendo l’armonia dei cieli nel senso che i pesi dei pianeti verso il sole (verso il quale tutti danzano come al suono della lira) sono reciprocamente come i quadrati delle loro distanze”
L’inglese, tra i suoi contemporanei, fu uno degli ultimi a esprimere l’idea che essi avessero nascosto la loro scienza sotto metafore e immagini mitiche. Soprattutto, fu il solo a scegliere Pitagora come suo predecessore in fisica e matematica.

Le considerazioni filologiche di Newton, destinate a commentare una serie di proposizioni di dinamica celeste del III libro dei Principia, rimasero allo stato di abbozzi manoscritti e non furono mai pubblicate. Si potrebbe osservare che, così facendo, egli si mostrò restio a farli conoscere. Eppure decise di affidare questi scolii all’astronomo e matematico scozzese David Gregory (1661-1708) perché ne divulgasse il contenuto. Così le considerazioni su Pitagora comparvero nella trascrizione che ne fece Gregory presentando uno dei primi manuali di astronomia newtoniana, gli Astronomiae physicae et geometricae elementa (1702), pubblicato in inglese nel 1726.



Come tutti gli uomini dei suoi tempi, come tutti gli uomini, anche il più grande scienziato della sua epoca dimostra che si può essere geniali e allo stesso tempo legati a pregiudizi e idee pseudoscientifiche. La sua interpretazione di retroguardia non ebbe conseguenze in campo matematico, ma ravvivò ancora per qualche tempo il mito dell’antica sapienza italica, soprattutto ad uso dell’orgoglio patriottico dei filosofi e dei politici italiani, sino al nazionalismo risorgimentale e all’epoca fascista.

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Questo articolo è comparso sul numero 01/2017 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.

lunedì 5 agosto 2013

Onori e disgrazie di Francesco Barozzi, matematico e mago


Agli inizi del Cinquecento l’isola di Creta (allora chiamata Candia) era veneziana da quasi tre secoli, dai tempi della quarta crociata, che aveva condotto all'infame distruzione di Costantinopoli dai parte dei latini nel 1204. Dopo quella data, un certo numero di famiglie patrizie veneziane aveva preso il controllo dell’isola, formando un’aristocrazia invisa alla popolazione locale (che si augurava gli ottomani, tanto per dire). 

Il 28 maggio 1453 Costantinopoli, il cui antico impero era oramai ridotto a poche terre vicine alla città, fu definitivamente presa dai Turchi. Ciò ebbe effetti grandissimi sullo sviluppo della cultura umanistica, perché molti degli studiosi bizantini che si dedicavano alla ricerca e alla pubblicazione degli antichi manoscritti greci fuggirono a Creta, che divenne il centro per la tradizione dell’antica sapienza greca verso l’Italia. Diversi studiosi greci giunsero attraverso l’isola nelle corti e nelle università della penisola, portando con sé manoscritti e idee. Attraverso di loro, l’Occidente riscopriva i grandi matematici dell’epoca alessandrina, il pensiero di Platone e dei filosofi neoplatonici, ma anche quello che viene definito come Corpus Hermeticum, l’insieme degli scritti di carattere magico e gnostico compilati da varie mani nei primi secoli dopo Cristo ed erroneamente attribuiti all'antico saggio egizio Ermete Trismegisto (“tre volte grande”), ritenuto di poco posteriore a Mosè e comunque vissuto assai prima dei grandi filosofi greci.

Il 9 agosto 1537, proprio da una nobile famiglia veneziana insediata a Candia, nasceva il matematico ed erudito Francesco Barozzi (latinizzato in Franciscus Barocius come usava allora), una figura emblematica della cultura del Cinquecento, nella quale convissero la passione umanistica per la riscoperta della matematica degli antichi e la mentalità magica. Il suo contributo all'evoluzione del pensiero scientifico si inquadra nel movimento rinascimentale dedito allo studio critico della scienza antica, compiuto attraverso la lettura e la traduzione di opere greche e latine nei manoscritti originali. La sua biografia, come quella di tanti matematici del suo tempo (ad esempio il Cardano, o il Della Porta), presenta aspetti che a prima vista appaiono contraddittori, pervasi, come vedremo, di mentalità astrologica ed ermetica. 

La realtà è che il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt'altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un'incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente bizzarre o del tutto folli, che spesso convivano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Non si spiegherebbe altrimenti il successo di alcuni testi magici, letti, consultati e citati per secoli, o di veri e propri fake politico-religiosi, come quello della misteriosa setta dei Rosa-Croce, che pure portarono all'evoluzione del pensiero scientifico accanto allo sviluppo di idee di tolleranza religiosa.

Il De occulta philosophia del mago tedesco Cornelio Agrippa di Nettesheim, che circolò come manoscritto dal 1510 e fu pubblicato nel 1533, fornisce un’interessante rassegna dell'intero campo della magia rinascimentale. L’opera, pur non essendo altro che una raccolta delle idee ermetiche, cabbalistiche e astrologiche che si erano sviluppate in Europa nei decenni precedenti e sebbene, nonostante il titolo, abbia ben poco di filosofico, ebbe un successo immediato e duraturo tra tutti i circoli eruditi, allora assai numerosi, che si rifacevano al pensiero magico. Essa è suddivisa in tre libri: il primo dedicato alla magia naturale, o magia del mondo elementare; il secondo alla magia celeste; il terzo infine alla magia cerimoniale.

L'universo va diviso, dice Agrippa, in tre mondi: quello elementare, quello celeste e quello intellettuale. Ciascuno di essi riceve influssi dal mondo che gli è direttamente superiore, in modo che la virtù del Creatore discende attraverso gli angeli nel mondo intellettuale, alle stelle del mondo celeste e da qui agli elementi e a tutte le cose che ne sono composte: animali, piante, metalli, pietre e così via. I maghi sono convinti che sia possibile ripercorrere all'inverso questo stesso processo e attirare le virtù del mondo superiore su di noi manipolando quelle inferiori: «Tale è infatti la concordanza del mondo che le cose celesti attraggono quelle a loro superiori e le cose naturali quelle sovrannaturali grazie alla virtù che circola in tutte le cose e alla partecipazione ad essa di tutte le specie». I maghi tentano di scoprire le virtù del mondo elementare attraverso la medicina e la filosofia naturale; quelle del mondo celeste per mezzo dell'astrologia e della matematica; quanto poi al mondo intellettuale, essi studiano i riti, le invocazioni, le cerimonie sacre delle varie religioni. Queste tre divisioni corrispondono alla ripartizione della filosofia in fisica, matematica e teologia. Soltanto la magia le comprende tutte tre. 


Il Libro II, dedicato alla magia celeste, è quello che più ci interessa. Secondo Agrippa, la matematica è estremamente necessaria alla magia poiché tutto ciò che viene prodotto mediante virtù naturali è regolato da numero, peso e misura. Attraverso la matematica si è in grado di realizzare portenti prima impensabili, e di dar forma a statue e figure capaci di muoversi e di parlare, perché la matematica è in grado di creare statue viventi, colmandole degli stessi poteri di quelle costruite tramite occulte virtù naturali. 

“Così, quando un mago è versato nella filosofia naturale e nella matematica e conosce le scienze che ne derivano, l’aritmetica, la musica, la geometria, l’ottica, l’astronomia e quelle che si esercitano a mezzo di pesi, di misure, di proporzioni, di giunzioni, nonché la meccanica, che è la risultante di tutte queste discipline, può compiere cose meravigliose che stupiscono gli uomini più colti”

Il libro si dilunga sulle virtù dei numeri, a partire dall'Uno che è il principio e la fine di tutte le cose e appartiene a Dio. Vengono considerati i numeri dal due al dodici, con i loro rispettivi significati e raggruppamenti particolari, poi le lettere dell'alfabeto ebraico, che hanno valori numerici dotati di grande efficacia ai fini della magia cabalistica. La parte dedicata ai numeri si conclude con l’esposizione dei quadrati magici, che sono in accordo con i numeri planetari ed hanno il potere di attirare l'influsso del pianeta a cui sono rispettivamente collegati (come non pensare al quadrato di Giove nella Melancolia I di Albrecht Dürer, del 1514, posto a temperare l'atmosfera saturnina del dipinto?)


Come si vede, la conoscenza matematica di Agrippa è assai limitata, e il suo trattato si limita a un’esposizione del valore simbolico dei numeri. Eppure l’idea che la matematica, la geometria e le scienze correlate, possono consentire al sapiente di agire sul mondo è il grande elemento di novità, che costituisce la rottura definitiva con le epoche precedenti. Questa idea, anticipata nelle opere ermetiche di Marsilio Ficino e in quelle cabalistiche di Pico della Mirandola, ancora confusa, di homo faber, aprì la strada al grande successo delle arti meccaniche nel Cinquecento, e contribuì ad indirizzare i “filosofi” del tempo verso lo studio della natura.

L’inglese John Dee, un mago rinascimentale assai più dotto di Agrippa, dalle conoscenze matematiche aggiornate alle più recenti acquisizioni del suo tempo (aveva studiato presso Frisius e Mercatore a Lovanio e aveva avuto modo di conoscere insigni matematici europei come Federico Commandino), nella Mathematicall Praeface alla traduzione dal greco in inglese degli Elementi di Euclide realizzata da Sir Henry Billingsley (1570), esprimeva le stesse idee: 

“Puoi ben capire, dagli Elementi di Euclide, che questa scienza è molto più vasta e comprende molto più che non la sola misurazione di pianure, e i suoi ulteriori scopi non sono da meno della misurazione della superficie terrestre. Dovrebbe dunque esserci un altro nome, per la nostra scienza matematica della grandezza, che non riguarda né zolle né torba, né colline né valli, né terra né cielo, e che è l'assoluta Megethologia [scienza della Grandezza Divina, ndr], che non striscia sul terreno, né si interessa di misurazioni, ma innalza il cuore sopra i cieli, con linee invisibili, e raggi immortali, si incontra con i riflessi della incomprensibile luce e perciò procura gioia e un'indicibile perfezione”. 

Ma torniamo al Barozzi. Il giovane Francesco fu mandato a studiare greco e latino a Padova. Più tardi frequentò lo Studio della stessa città, dove seguì i corsi di filosofia e matematica. Nel 1559 lesse matematica nello stesso ateneo, esponendo il celebre Tractatus de Sphaera di Giovanni Sacrobosco, con lo scopo di confutarne gli errori. Alla morte del padre ereditò una cospicua fortuna in danaro e in immobili a Rettimo, a Creta, ma decise di stabilirsi a Venezia, dove rimase tutta la vita, tranne qualche soggiorno nei suoi possedimenti insulari. 

Nel 1560 pubblicò a Padova la traduzione in latino dell’edizione del filosofo neoplatonico Proclo (V sec.) del primo libro degli Elementi di Euclide (Procli Diadochi Lycii in primum Euclidis elementorum librum…), dall'indubbio pregio di essere basata su fonti migliori e affidabili di quelle utilizzate in precedenza. Nello stesso anno uscì un suo Opusculum, (…) de medietate Mathematicarum, scritto in risposta alle opinioni espresse dall'umanista senese Alessandro Piccolomini sulla natura della certezza matematica. Per il Barozzi la certezza matematica deriva dalla natura delle sue prove, dal rigore sintattico delle sue dimostrazioni, pertanto non è inferiore alla verità che si ottiene dai ragionamenti della logica. Dal punto di vista dell’uomo, la certezza matematica, che è direttamente raggiungibile, è superiore anche a quella metafisica, sebbene quest’ultima sia superiore in termini assoluti perché deriva da Dio.


Autore assai prolifico, tradusse diverse opere dei matematici greci: Erone, Pappo (migliorando una traduzione del Commandino) e Archimede. La versione dell’opera di Erone sulle macchine da guerra, Heronis mechanici liber de machinis bellicis, pubblicata nel 1572, ebbe ad esempio una notevole risonanza. Nello stesso anno uscì Il nobilissimo et antiquissimo giuoco pythagoreo nominato rythmomachia cioè battaglia de consonantie de numeri, in lingua volgare a modo di parafresi composto, dedicato a un gioco matematico noto anche come “gioco dei filosofi”, già descritto in precedenza dal francese Boissière. 

Tra gli altri suoi numerosi libri, uno (Admirandum illud geometricum problema tredecim modis demonstratum quod docet duas lineas in eodem plano designare…, 1586) ha per soggetto il modo di tracciare gli asintoti; vi si descrive uno strumento, somigliante al compasso perfetto, che consente di disegnare non solo circonferenze, ma anche iperboli, parabole ed ellissi; vi si costruiscono, in diversi modi, gli asintoti dell'iperbole, una coppia d'iperboli aventi gli stessi asintoti, ed anche qualche curva di grado superiore, dotata di asintoto. Un altro importante testo è la Cosmographia (1585), dedicata alle mappe terrestri e contenente elementi di meteorologia e geografia fisica. In una lettera scritta al Clavio il 27 febbraio 1585, il Barozzi spiegava la sua intenzione di fornire dopo 29 anni una critica puntuale dell'opera De Sphaera mundi di Giovanni di Sacrobosco (ca. 1230), divulgata ancora fino sec. XVII, nonostante le sue evidenti lacune e imprecisioni. Tra gli 84 errori rimproverati all'astronomo inglese non c’è tuttavia il sistema tolemaico, e una nota a margine condanna come falsa l’opinione di Aristarco e Copernico.

Fin qui il Barozzi matematico e astronomo. Ma la sua parallela attività di poligrafo ermetico fu la causa dei suoi guai. Intorno al 1583 subì un primo processo, fu dichiarato colpevole e condannato a vivere per un certo periodo chiuso in un monastero. Non sappiamo quali fossero le accuse, ma sicuramente alcune sue opere potevano aver suscitato l’interesse dell’Inquisizione. Nel 1566 aveva dato alle stampe un Pronostico Universale di tutto il mondo, in cui forniva le profezie di Nostradamus per il quinquennio 1565-1570 e, nel 1577 aveva poi pubblicato gli Oracula Leonis, contenente le profezie attribuite all'imperatore bizantino Leone VI. 

Il 16 ottobre 1587 fu condotto di nuovo di fronte ai giudici dell’Inquisizione e condannato, questa volta per apostasia e sospicioni di heresia. Della sentenza esistono diverse copie, anche se gli atti del processo non sono stati conservati. Secondo i giudici, Francesco Barozzi aveva compiuto e insegnato al figlio, alla figlia e al genero Daniele Malipiero, processato e condannato con lui, varie superstizioni e divinazioni. Aveva evocato nel territorio di Rettimo uno spirito in forma di fanciulla, e gli aveva chiesto "le cose future et secrete”; aveva fabbricato un'immagine di stagno per filtri d'amore secondo le istruzioni di Cornelio Agrippa. Sempre a Candia, aveva cercato di far piovere con esorcismi, suffumigi e pentacoli "secondo l'arte insegnata da Cornelio Agrippa et da Pietro d'Abbano”, causando una tremenda tempesta; aveva abusato dei sacramenti per fabbricare sortilegi amorosi, e così via. Al nostro matematico mago si rimproverava: “Hai ancho confessato che essendo in Candia hai avuto conversatione con due sorelle maghe et strighe e che una di esse portava il Santissimo Sacramento consecrato alla greca cucito in una scarpa per andar invisibile, alle quali più volte hai fatto quesiti, et havuto risposta di cose future et secrette”


La sentenza lo condannò a fornire croci d’argento per l’equivalente di 50 ducati all'arcivescovo di Candia o al suo vicario e per altri 50 ducati al vescovo di Rettimo, a compiere una serie di penitenze e a restare incarcerato ad arbitrio del S. Uffizio. Non sappiamo se scontò effettivamente la pena detentiva, né quando eventualmente riottenne la libertà: degli ultimi vent'anni della sua vita mancano notizie. Di sicuro, da quella data smise di pubblicare, se si eccettua una nuova edizione della Cosmographia che uscì nel 1598. Secondo un suo biografo aveva pronta un’altra opera astronomica, Theoricae planetarum vel quintus liber, sive complementum Cosmographiae, che tuttavia non vide mai la luce e andò perduta. 

Francesco Barozzi morì a Venezia il 23 novembre 1604, probabilmente per un colpo apoplettico. Lasciò in eredità al nipote Iacopo una raccolta di manoscritti, poi arricchita dallo stesso Iacopo, che ne compilò un catalogo. Nel 1629 William Herbert, terzo conte di Pembroke e cancelliere dell'università di Oxford, noto per essere stato il protettore di William Shakespeare, acquistò la raccolta per 700 sterline e la donò alla Biblioteca Bodleiana della stessa Università, dove è tuttora conservata.