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domenica 8 dicembre 2013

Thomas Hariot e il circolo degli atomisti inglesi


Nel corso del Seicento l’atomismo tornò all'attenzione dei filosofi della natura e sostituì la moribonda visione aristotelica del mondo. Per la sua definitiva affermazione dopo secoli di oblio si citano spesso le figure di Galileo in Italia (dimenticando Giordano Bruno), Pierre Gassendi in Francia e, soprattutto Robert Boyle in Inghilterra, ma in quest’ultimo paese l’atomismo ebbe un certo numero di precursori, come coloro che si riunivano nel circolo attorno a Lord Henry Percy (1564-1632), nono conte di Northumberland e al matematico e poliedrico scienziato Thomas Hariot (1560-1621). 

Henry Percy, unico protestante in un’antica famiglia di tradizioni cattoliche, uno dei Grandi del regno e dei nobili più ricchi della corte di Elisabetta I, era soprannominato “il Conte Stregone” a causa dei suoi interessi scientifici e alchemici, la sua passione per la cartografia e la grande biblioteca nella sua residenza di Sion. Nel 1593 era stato insignito da Elisabetta I dell’Ordine della Giarrettiera, la più alta onorificenza del regno. Nonostante fosse sordo da un orecchio e si esprimesse con difficoltà, divenne una delle figure intellettuali e culturali più importanti della sua generazione. Oltre ad Hariot, attorno al suo circolo gravitarono alcuni degli intellettuali più in vista del tempo, come il matematico Nicholas Hill, seguace di Giordano Bruno, il matematico e geografo Robert Hues, autore di De globorum usu, il matematico e medico Walter Warner, e il traduttore di Stevino, Robert Norton. Tutti erano copernicani e, tranne forse Hues, atomisti. Anche il mago rinascimentale John Dee, che abitava poco distante da Sion dopo essere tornato dalla sua lunga missione europea, era un amico del conte. Dalle idee di questo circolo furono influenzati uomini di lettere come George Peele, John Donne e, probabilmente, anche George Chapman. 

Thomas Hariot, oxoniense di nascita e formazione, aveva già da giovane messo in luce le sue grandi doti intellettuali, al punto che Sir Walter Raleigh lo aveva assunto come matematico e lo aveva portato come naturalista, astronomo e interprete nella spedizione sull’isola Roanoke, lungo le coste della Virginia, tra il 1585 e il 1586 (di cui Hariot scrisse una famosa relazione due anni dopo). Raleigh, amico e compagno di carte del conte di Northumberland, gli fece conoscere Hariot nel 1588. Percy lo volle subito presso di sé come tutore e “scienziato residente” presso la sua residenza di Sion, presso Londra, che divenne il laboratorio dello scienziato. 

Hariot era il tipico intellettuale polivalente dell’epoca: matematico, fisico, astronomo, etnografo, fu in corrispondenza con molti colleghi europei, tra i quali Keplero. La relazione del viaggio in Virginia, in cui forniva anche gli elementi fondamentali della lingua dei nativi algonchini, resta l’unico testo pubblicato mentre egli era in vita. Gli appunti astronomici di Hariot offrono la testimonianza delle sue precoci osservazioni telescopiche: essi contengono una mappa della Luna disegnata intorno al 1611, osservazioni dei satelliti di Giove fatte nello stesso periodo di quelle che Galileo pubblicò nel Sidereus Nuncius del marzo 1610, e appunti sulle osservazioni delle macchie solari che egli fece con il telescopio il 18 dicembre 1610, cioè qualche mese prima di Galileo. Importante fu anche la sua opera come fisico, perché scoprì la legge della rifrazione due decenni prima di Snell. 


Le ricerche di Hariot in matematica e fisica riflettevano i suoi interessi filosofici. Egli era, infatti, un convinto atomista. In una lettera a Keplero, rivendicò l’utilità della teoria atomica per spiegare molti fenomeni naturali:

«Vi ho portato alle porte della casa della natura, dove giacciono i suoi misteri. Se non riuscite a entrare perché [le porte] sono troppo strette, allora contraetevi in un atomo, e vi entrerete facilmente. E quando poi uscirete di nuovo, ditemi le meraviglie che avrete visto». 

Coerente con le proprie idee, Hariot adottò la filosofia atomica per penetrare i segreti della natura, sulle orme di Erone di Alessandria e Lucrezio e, attraverso Diogene Laerzio, di Democrito ed Epicuro. Nella biblioteca del conte di Northumberland, una delle più grandi raccolte private d’Inghilterra, erano disponibili infatti centinaia di libri, tra i quali sicuramente le opere di Erone e Giordano Bruno, oltre a quelle di Glibert, Nepero, Keplero, Tycho Brahe, Paracelso, Della Porta. Anche il suo interesse per l’impacchettamento delle sfere (il “problema delle palle di cannone” di cui ho riferito in un precedente articolo) rifletteva il suo sforzo di capire come sono disposti i costituenti fondamentali della natura.

Secondo Hariot, tutto ciò che esiste in natura doveva essere composto dagli “indivisibili”. Restavano tuttavia diverse questioni aperte: come possono le cose infinite essere composte di parti finite? Esiste una transizione dal finito all’infinito attraverso un massimo finito? Nel manoscritto intitolato De infinitis, egli tentò di risolvere questi problemi adottando il concetto di indivisibile matematico: l’infinito è generato dal finito, l’infinito è composto dal finito, il finito è risolvibile negli indivisibili, il finito è composto di indivisibili. 

Il ragionamento di Hariot è piuttosto oscuro, in quanto il manoscritto è frammentario e incompleto. A quanto pare, egli affrontò il problema attraverso un’analisi di ciò che oggi chiamiamo serie infinite. Scriveva infatti: 

“Eppure come ultimo termine nelle progressioni decrescenti, dobbiamo concepire una quantità assolutamente indivisibile; ma moltiplicabile infinitamente fino a quando si produce una quantità assolutamente non moltiplicabile che potrei chiamare universalmente infinita (...) E nelle progressioni crescenti dobbiamo concepire una quantità assolutamente non moltiplicabile, ma divisibile infinitamente fino a quando si ottenga una quantità che sia assolutamente indivisibile”

Così, concludeva, gli infiniti sono generati dagli indivisibili finiti, o atomi matematici. In particolare, Hariot esaminò il problema della costruzione di un cerchio a partire dagli indivisibili matematici. La periferia di un cerchio deve essere composta, scriveva, da un infinito numero di atomi, altrimenti non sarebbe possibile disegnare un numero infinito di linee a partire dal centro della circonferenza. Anche il numero di atomi nell'area del cerchio deve essere infinito. 

L’atomismo matematico di Hariot rifletteva la sua teoria della materia. Come Democrito ed Erone di Alessandria, egli era convinto che l’universo sia composto da atomi immersi nel vuoto. Gli atomi sono eterni, pieni, omogenei. Le qualità fisiche dei corpi sono il risultato della grandezza, forma, e movimento degli atomi costituenti o dei corpuscoli formati da essi. Nel sistema di Hariot il ruolo del movimento è fondamentale: “Nulla si fa senza il moto, e non c’è moto senza causa. Dal nulla non proviene nulla”

Hariot pensava che i corpi omogenei possiedano atomi della stessa forma con densità uniforme. I corpi più densi consistono di atomi che si toccano da tutti i lati, mentre quelli più leggeri hanno dello spazio vuoto tra di loro. Le alterazioni chimiche che danno luogo a cambiamenti di peso sono causate dall’interposizione di atomi più piccoli nei vuoti tra quelli più grandi. I corpi duri e quelli morbidi variano soprattutto per la grandezza e forma delle particelle che li compongono. 

L’applicazione probabilmente più interessante dell’atomismo di Hariot fu nel campo dell’ottica. In una lettera a Keplero del 2 dicembre 1606, egli espose le sue idee. Perché, chiedeva, quando un raggio di luce cade sulla superficie di un mezzo trasparente, esso è in parte riflesso e in parte rifratto? Poiché, in base al principio di uniformità, un singolo punto non può sia riflettere sia trasmettere luce, la risposta deve risiedere nell'ipotesi che il raggio trova resistenza in alcuni punti e non in altri. 

Un corpo denso diafano, pertanto, che appare ai sensi continuo in tutte le sue parti, non è in realtà continuo, ma possiede parti corporee che resistono ai raggi, e parti incorporee (vacua) che sono penetrate dai raggi. Così la rifrazione non è altro che una riflessione interna, e la parte dei raggi che raggiunge l’interno, sebbene appaia diritta, è invece composta di tanti segmenti rettilinei. 

Nella sua risposta del 2 agosto 1607, Keplero rifiutò di seguire Hariot “ad atomos et vacua”. Keplero preferiva pensare al problema della riflessione-rifrazione secondo il linguaggio aristotelico, cioè in termini di unione delle opposte qualità di trasparenza e opacità. Hariot fu sorpreso dallo scolasticismo del suo collega: “Se quelle assunzioni e ragioni ti soddisfano, sono allibito”. Inoltre, proseguiva l’inglese, “Ti confesso che la mia opinione si basa sulla dottrina del vuoto… ma le cose sono tali che non posso per ora filosofare liberamente”. Hariot era preoccupato dell’eterodossia delle sue idee. L’atomismo dei grandi atei, Lucrezio e Epicuro, era ancora assai sospetto e pericoloso, anche se la spiegazione che offriva affascinava sempre più persone. 


Non è pertanto strano il fatto di trovare l’atomismo nell'opera di John Donne (1572-1631), poeta e prelato anglicano, autore di sermoni e poemi a carattere religioso, che visse la contraddizione tra la sua educazione scolastica di stampo medievale e il fascino che le scoperte della nuova scienza esercitavano sulle menti più illuminate. Nel 1611 scrisse First Anniversarie. An Anatomy of the World, in cui il suo tema poetico preferito della dissoluzione del mondo materiale in contrapposizione con la permanenza di quello spirituale viene declinato ai vv. 205-213 giocando con le parole anatomy e atomies: la materia sul tavolo anatomico viene sezionata fino a giungere agli atomi, cioè ai suoi costituenti più piccoli e immortali: 

new Philosophy cals all in doubt, 
The Element of fire is quite put out, 

And freely men confesse, that this world's spent, 
When in the Planets, and the Firmament 
They seeke so many new; they see that this 
Is crumbled out againe to'his Atomis. 
'Tis all in pieces, all cohaerence gone. 

[la nuova Filosofia mette tutto in dubbio / L’Elemento del Fuoco è proprio spento, / E liberamente gli uomini ammettono, che questo mondo è consumato / Quando nei pianeti, e nel Firmamento / essi cercano così tante novità; essi vedono che esso / è sbriciolato fino ai suoi Atomi. / È tutto a pezzi, tutta la coerenza è andata.]

Lo stesso tema si ritrova nella poesia d’amore The Exstasie, in cui, ai vv. 45-48, Donne mette in relazione la materialità degli atomi con lo stato immutevole dell’anima: 

Wee then, who are this new soule, know, 
Of what we are compos'd, and made, 
For, th'Atomies of which we grow, 
Are soules, whom no change can invade. 

[Allora noi, che siamo questa nuova anima, conosciamo / ciò di cui siamo composti e fatti, / Perché gli Atomi dai quali cresciamo / Sono anime, che nessun cambiamento può violare.] 


Nell'ultimo decennio del Cinquecento, Sir Walter Raleigh e i suoi amici, tra i quali uno dei più famosi era Hariot, furono sospettati di empietà dalle autorità. Si arrivò anche a una commissione d’inchiesta, senza però che fossero trovate prove. I sospettati furono scagionati, ma la fama di atei non li abbandonò. Questa cattiva reputazione portò il suo frutto avvelenato nel 1605. Nel novembre di quell’anno, un gruppo di cospiratori comandato da Guy Fawkes progettò di far esplodere il Parlamento in quella che venne chiamata Congiura delle Polveri. Il conte di Northumberland, cugino di Thomas Percy, uno dei capi cattolici del complotto, fu arrestato, accusato di tradimento e imprigionato. 

Anche Hariot temette di subire la stessa sorte: la sua reputazione di matematico e astronomo portava con sé quella di essere un mago. Re Giacomo I, che era succeduto a Elisabetta I nel 1601 sul trono inglese e in precedenza aveva redatto un trattato sulla stregoneria, era particolarmente preoccupato. Ordinò che Hariot fosse interrogato su un presunto “incantesimo sulla nascita del Re”. Un allievo di Hariot, Nathaniel Torporley (in seguito pastore anglicano e feroce avversario dell’atomismo), fu interrogato sulle attività astrologiche di Hariot riguardanti il sovrano e il Principe di Galles. Le stanze di Hariot a Sion furono scrupolosamente perquisite in cerca di prove della sua empietà e slealtà, senza che nulla fosse trovato. Ciò nonostante, fu arrestato. Il mese successivo inviò al Consiglio Privato del Re una lunga lettera per chiedere la propria liberazione, nella quale compare il primo riferimento a una sua malattia, assai penosa, che sarebbe stata incompatibile con la detenzione e lo avrebbe sicuramente portato alla morte. Hariot fu rilasciato per assoluta mancanza di prove, mentre Percy rimase nella Torre di Londra per diciassette anni. 

Non stupisce il fatto che, quando fu finalmente rilasciato, Hariot fosse piuttosto restio a esprimere le proprie convinzioni filosofiche, teologicamente e politicamente non ortodosse. Il suo atomismo, che derivava dalle idee degli antichi pagani materialisti, era all’epoca inaccettabile. Secondo il pettegolo cronista John Aubrey, la morte di Hariot nel 1621 in seguito a una lunga malattia (un tumore?) fu vista dai contemporanei come la ricompensa divina per il suo ateismo: 

“Non gli piaceva (o non gli sembrava degna di fiducia) la vecchia storia della creazione del mondo. Non poteva credere l’antica opinione: diceva che ex nihilo nihil fit. Ma un nihilum l’uccise infine: perché sulla punta del naso gli venne una macchiolina rossa (straordinariamente piccola) la quale crebbe e crebbe finché alla fine l’uccise. Suppongo che era ciò che i chirurgi chiamano un noli me tangere
Aveva inventato una teologia filosofica, per cui ripudiava il Vecchio Testamento, e quindi quello Nuovo (di conseguenza) non aveva più fondamento. Era un deista. Insegnò la sua dottrina a Sir Walter Raleigh, a Henry conte di Northumberland e ad alcuni altri. I teologi di quei tempi considerarono la maniera della sua morte come un giudizio divino, per avere rigettato le Scritture”. 

Come si è detto, Hariot non pubblicò più nulla dopo la relazione del viaggio in Virginia del 1588. Ciò nonostante, non fu un personaggio isolato: i suoi manoscritti circolavano ed ebbe alcuni discepoli. Alla sua morte nel 1621 lasciò agli esecutori testamentari (Walter Warner e Sir Thomas Aylesbury) il compito di pubblicare un suo manuale d’algebra, ma essi lo fecero rimaneggiandolo e togliendo le parti più innovative. Così l’Artis Analyticae Praxis, uscito postumo nel 1631, in parte debitore dell’opera del francese François Viète, fu privato di inedite intuizioni sulle radici dei numeri negativi e sui numeri complessi. Il resto della sua opera scientifica, più di 400 fogli vergati con minuscola grafia, non fu stampato, finché non fu riscoperto tra il XIX e il XX secolo. Solo allora Hariot ebbe il riconoscimento della sua statura di matematico e di scienziato, che i contemporanei, tranne una ristrettissima avanguardia, non avevano saputo apprezzare a causa delle sue idee o, piuttosto, delle loro.

giovedì 7 febbraio 2013

Palle da cannone e pacchetti di sfere

La leggenda vuole che la notte precedente il 29 ottobre 1618, prima di essere decapitato per una presunta congiura contro re Giacomo I, dopo una dura detenzione durata quasi tre lustri, Sir Walter Raleigh abbia scritto la poesia The Lie, di cui questa è una strofa: 

Tell men of high condition, 
That manage the estate, 
Their purpose is ambition; 
Their practice only hate. 
And if they once reply, 
Then give them all the lie. 

In realtà l’opera era già comparsa in una raccolta miscellanea nel 1608 (e in un manoscritto del British Museum datato 1596), e probabilmente non è neanche sua. Mi piace tuttavia l’attribuzione romantica a un personaggio come Raleigh, favorito di Elisabetta I d’Inghilterra, esploratore, poeta, spia, corsaro, nonché colui che introdusse in Gran Bretagna la patata e il tabacco. 

Un’altra attribuzione a Raleigh, questa più veritiera, è quella di aver posto per primo il problema delle palle da cannone, il prototipo di quello generale dell’impacchettamento delle sfere.. Durante la sfortunata spedizione per insediare una colonia inglese sull’isola di Roanoke, vicino alla Virginia, tra il 1585 e il 1586, Raleigh chiese al matematico Thomas Harriot, che sulla nave fungeva da naturalista, astronomo e interprete (di lingua algonchina!), se era possibile sapere quante palle di cannone vi fossero in una piramide a base quadrata da esse formata, senza contarle una ad una. A quei tempi si costruiva un telaio di legno di forma triangolare o quadrata dentro il quale si impilavano le palle a piramide. In entrambi i casi si tratta di una struttura cubica centrata sulle facce, orientata diversamente rispetto al piano orizzontale. 

Harriot era il tipico intellettuale polivalente dell’epoca: matematico, fisico, astronomo, etnografo, fu in corrispondenza con Keplero. La relazione del viaggio in Virginia, in cui forniva anche gli elementi fondamentali della lingua dei nativi algonchini, uscì nel 1588 e resta l’unico testo pubblicato mentre egli era in vita. Alla sua morte lasciò ai suoi esecutori testamentari il compito di pubblicare un suo testo d’algebra, ma essi lo fecero rimaneggiandolo e togliendo le parti più innovative. Così l’Artis Analyticae Praxis, uscito postumo nel 1631, fu privato di inedite intuizioni sulle radici dei numeri negativi e sui numeri complessi. Il resto della sua opera scientifica, più di 400 fogli vergati con minuscola grafia, non fu stampato, finché non fu riscoperto tra il XIX e il XX secolo. Gli appunti astronomici di Harriot offrono la testimonianza delle sue precoci osservazioni telescopiche: essi contengono una mappa della Luna disegnata intorno al 1611, osservazioni dei satelliti di Giove fatte nello stesso periodo di quelle che Galileo pubblicò nel Sidereus Nuncius del marzo 1610, e appunti sulle osservazioni delle macchie solari che egli fece con il telescopio il 18 dicembre 1610, cioè qualche mese prima di quanto dichiarato da Galileo. 


Harriot non ebbe difficoltà a risolvere il problema posto da Raleigh. Se k è il numero di palle da cannone poste lungo il lato della piramide a base quadrata, il loro numero totale n è dato da:

  



Ad esempio, se k = 6, allora n = 91. I numeri che rappresentano le soluzioni dell’equazione sono chiamati numeri piramidali quadrati. I primi sono 1, 5, 14, 30, 55, 91, 140, 204, 285, 385, 506, 650, 819 (Sequenza A000330 della OEIS-On-Line Encyclopedia of Integer Sequences). 

Un’altra versione, più specifica, del problema delle palle da cannone chiede qual è il più piccolo numero di palle che può essere disposto in un quadrato n × n su cui poi si impilano altri quadrati di palle a formare una piramide alta k palle. In pratica, qual è il più piccolo quadrato che è anche un numero piramidale? La risposta è la soluzione più piccola dell’equazione diofantea:

 

Da cui risulta che k = 24, n = 70, che corrisponde a 4.900 palle. Nel 1875 Edouard Lucas congetturò che questa è anche l’unica soluzione possibile, e, nel 1918, George Neville Watson provò che aveva ragione. 



Più in generale, ci si può chiedere che cosa succede se la base della piramide è un poligono regolare qualsiasi. In pratica, quali sono i numeri piramidali triangolari, pentagonali, esagonali, ecc.? La formula generale, per una base a forma di poligono regolare con r lati è data da:


Nel caso particolare di una piramide a base triangolare (tetraedro), la formula diventa:




L’interesse di Thomas Harriot per le sfere non si limitava solo alle palle da cannone. Egli era un atomista nel senso classico del termine (come Democrito e Lucrezio), e pensava che la comprensione di come si impacchettano le sfere era fondamentale per capire come sono disposti i costituenti fondamentali della natura. Egli svolse numerosi esperimenti di ottica e divenne un’autorità in questo campo. Così, quando, nel 1609, Keplero gli scrisse per avere informazioni per dare maggiori base scientifiche alle sue teorie ottiche, l’inglese non solo gli inviò dati sul comportamento dei raggi luminosi che passano attraverso il vetro, ma gli espose anche le sue idee sul problema della disposizione delle sfere. 

L’effetto di queste idee deve essere stato notevole, visto che il tedesco pubblicò nel dicembre 1611 un libretto dal titolo Strena sue de nive sexangula (Sul fiocco di neve a sei angoli), che avrebbe influenzato la scienza della cristallografia nei due secoli successivi e che conteneva la cosiddetta congettura di Keplero sul modo più efficace di impacchettare le sfere. Egli sosteneva che non esiste alcun modo di sistemare delle sfere nello spazio con densità media superiore a quella dell'impacchettamento cubico a facce centrate o a quella dell'impacchettamento esagonale. La densità η di questi due modi di sistemare le sfere vale:

 

Secondo Keplero, nessun altro impacchettamento di sfere può avere una densità superiore.

Per quanto sia di facile comprensione, la congettura di Keplero si è dimostrata di assai difficile dimostrazione, resistendo ai tentativi di Gauss (1831) e di molti altri. Nel 1900 Hilbert la pose nella sua famosa lista dei 23 problemi non risolti della matematica. Nel 1953 l’ungherese Fejes Tóth dimostrò che il problema di determinare la massima densità di tutte le disposizioni di sfere, regolari ed irregolari, poteva essere ridotto a un numero finito, anche se molto grande, di calcoli, aprendo la strada a una dimostrazione per esaustione attraverso l’uso del computer. Tale dimostrazione è stata trovata da Thomas Hales nel 1998, applicando sistematicamente i metodi della programmazione lineare: essa consisteva di 250 pagine di annotazioni e 3 Gigabyte di programmi, dati e risultati. Molti matematici storcono tuttavia il naso quando sentono parlare di dimostrazioni ottenute grazie alle capacità di calcolo dei computer (lo abbiamo visto a proposito del problema dei quattro colori). I referee (presieduti dal figlio di Tóth) annunciarono nel 2003 che la commissione era “certa al 99%” che la dimostrazione fosse corretta, ma che non poteva garantire l’esattezza di tutti i calcoli fatti al computer. Hales si è allora impegnato a fornire una dimostrazione formale, che ancora deve arrivare.