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sabato 20 luglio 2013

Prontuario di clinica letteraria

ad uso degli specializzandi in medicina editoriale


La conoscenza delle sindromi letterarie più comuni è un requisito indispensabile per gli operatori clinici impiegati in strutture pubbliche o private per la cura degli scrittori compulsivi o semplicemente inetti, come ad esempio nelle case di tolleranza letteraria. Questo breve articolo è un invito all'istituzione di un prontuario clinico, con alcuni esempi considerati tra i più significativi.

Bulemia (gr. Βουλή): mania degli scrittori di voler dare consigli di scrittura. Lo scrittore bulemico avverte l’irrefrenabile impulso di dare ricette sul bello scrivere in ogni occasione, salvo poi smentirle, rigettarle, in quella successiva, Al di là di epoche, stili, correnti letterarie o biografie personali, si può sostenere che esistono due tipi di scrittori: quelli che danno consigli su come scrivere e quelli che si fanno giustamente i fatti loro. Gli uni sono convinti di poter dire qualsiasi cosa sulla poesia, sul racconto, sul romanzo, e così via, solo perché hanno avuto la fortuna di imbattersi in un editore compiacente. Gli altri invece non sono mai stati pubblicati, forse perché il loro anonimato deriva dall'inesistenza: l’insieme degli scrittori che non danno consigli è infatti da sempre inesorabilmente vuoto.

Colpo dello Strega: improvvisa e dolorosissima mialgia dorsale che colpisce i favoriti di un premio letterario che poi non lo vincono. Anche scrittori apparentemente indifferenti alle glorie editoriali e mondane ne soffrono. Si narra che al Campiello del 1994, all'annuncio della vittoria di Antonio Tabucchi con Sostiene Pereira, ben due finalisti si accasciarono al suolo colpiti da acuti dolori dorsali. Il c. d. s. si cura con il riposo e una dieta a base di letture di scrittori che ottennero soltanto riconoscimenti postumi. Nel 2012 la sconfitta allo Strega di G. C. causò un c. d. s. così forte al punto che si temette potesse smettere di scrivere. Purtroppo invano.

Displagia (lat. plagium): anormale sviluppo stilistico e lessicale in un testo letterario, consistente in genere in una evidente ripetizione, letterale o in parafrasi, di frasi o concetti di altri autori. Se la ripetizione è smaccatamente evidente si è in presenza di una neoplagia. Non sempre la diagnosi di d. è agevole, anche perché c’è chi ritiene che la storia del pensiero sia oramai così lunga che è stato scritto tutto, pertanto i nuovi autori non possono far altro che ripetere l’esistente, magari con le stesse parole. Per questo motivo non necessariamente la d. è indice di dolo: esistono prove accertate di totale identificazione con un autore da parte di un altro autore. Il caso più noto di questo accidente letterario è quello del francese Pierre Menard, che, nel primo dopoguerra, non volle rifare il Don Chisciotte, né adattarlo all’epoca contemporanea, ma volle identificarsi totalmente con Cervantes e riscrivere parola per parola il Don Chisciotte senza peraltro copiarlo.

È stato inoltre rilevato da recenti studi clinici francesi che il fenomeno si può manifestare percorrendo all'inverso la freccia del tempo; si tratta della cosiddetta displagia per anticipazione, nella quale l’autore che ripete un’opera è vissuto o ha operato precedentemente all'autore considerato l’ispiratore.

Un esempio di questo caso è fornito dall'opera di Arnaldo Biserani (1905-1963), che è stato uno dei più grandi poeti e pittori inventati del ‘900. Esponente di spicco dell’avanguardia romagnola, ha per certi versi anticipato le tematiche e gli stili della beat generation e del gruppo ’63, ma impregnati dello spirito solare della sua terra. Questa sua Maiali nell’alba (1952) è stata da alcuni accostata alla nota Urlo di Allen Ginsberg, che è tuttavia di tre anni posteriore:

Sono andato con la macchina nuova 
all'allevamento dei maiali del Donnini 
su fino a Mirandola, e li ho visti. 
Ho visto le bestie migliori 
della mia generazione 
distrutte dalla follia, ingrassate, nude, 
trascinarsi nei recinti negri all'alba 
in cerca di un sollievo astioso, 
un pastone nel truogolo celeste, 
nella dinamo stellata nel meccanismo 
della notte. Con gli occhi vuoti 
sedevano grugnendo nell'oscurità 
chiedendosi il perché e il come 
di una vita vissuta per diventare 
costine e salami, prosciutti e ciccioli, 
per i Biserani come me, angeli 
sterminatori dell’Apocalisse suina. 

In Milano (1959) qualcuno ha visto echi del Pagliarani di La ragazza Carla:

A Milano in un lungo inverno scuro, quando il sole è cosa di Romagna, 
incontro la cassoela untuosa, le puntine, le cotenne, i salamini 
nella verza accogliente come una vagina innamorata; alla sera mi portano
in un ristorante di pesce a Lambrate, nella sera metallica e nebbiosa 
di treni e di tram e gente che si aggira insonnolita e gelida 
e trovo nel menù il rombo di nuovo, e le sue forme regolari 
e schiacciate di pesce geometrico, con la superficie prodotto 
delle diagonali, quattro lati, paralleli due a due, ingobbiti 
dalla pressione dell’acqua, ma io ordino un gran fritto misto, 
che dicono che qui è più fresco che al porto di Rimini, 
può darsi ma non lo sanno fare e sa di bombolone riscaldato, 
allora prendiamo la macchina e andiamo a bere un digestivo 
in centro, dove i camerieri hanno più puzza sotto il naso 
dei clienti ricchi, industriali e negozianti con il gozzo 
da macellaio che ordinano vischi d’annata per loro e le due-tre
puttane che li accompagnano fumando Muratti e Mercedes. 
Usciamo sotto le colonne e la nebbia è sparita, tira aria di neve, 
allora ci congediamo e ci diamo appuntamento per la mostra 
di Fontana l’indomani, e io sono contento, tra i primi fiocchi 
illuminati dai fanali, di tornare al caldo, mettermi in pigiama, 
e sedermi sul water che mi scappa anche da cagare. 

Labirintite s. f. sing. (gr. λαβύρινθος): sindrome letteraria che colpisce gli imitatori scadenti di Jorge Luis Borges. Lo scrittore labirintitico soffre di mancanza di equilibrio, pertanto utilizza uno stile letterario ricco di riferimenti culturali, vagamente arcano, quando non ce n’è assolutamente bisogno. Fa inoltre un eccessivo uso di metafore, quali quella del labirinto o della biblioteca, di frequente derivanti dai concetti della matematica del Novecento. Il labirintitico utilizza concetti arditi per fatti banali, spesso facendo riferimento a testi inesistenti.

Un esempio di scrittore colpito da questa malattia è il parmigiano Secondo Barezzi (1968), indeciso tra il minimalismo delle sue storie e lo stile inutilmente erudito:

“Tra gli intricati scaffali della Ipercoop, nel reparto Frutta e Verdura, con i prodotti esposti con meticoloso ordine su banconi che ricordano una tassellatura universale dell’orticoltura, Paolo Barani indossò il guanto di plastica trasparente e prese in mano una cipolla. Ricordò che nella Biblioteca Universitaria di Bologna esiste una copia dell’Erbarium Alchemicum del Sangalli su cui, di fianco a una rappresentazione a colori del comune bulbo, una mano coeva scrisse che gli strati della cipolla sono indefiniti e tuttavia non infiniti. Vide la propria immagine riflessa nella parete a specchio, aborrendola come la propria paternità recente. Prese un mazzo di cipolle, lo infilò nel sacchetto e lo pesò sulla bilancia. Schiacciò poi il tasto corrispondente al prodotto, come aveva fatto migliaia di volte nell’interminabile Conad della lontana e ineffabile Fidenza. Appiccicò l’etichetta sul sacchetto, lo ripose nel carrello, le cui ruote disegnavano con il movimento immaginarie e dolorose cicloidi. Passò nel reparto Salumeria e si sentì come Martin Fierro ai confini dell’Uruguay”.

Logotomia, s. f. sing (gr. λόγος e τομή): intervento editoriale d’urgenza per salvare ciò che si può dell’opera letteraria di autori eccessivamente verbosi e barocchi. La l. consiste nell'eliminazione di parole, incisi, frasi, periodi, capitoli considerati non necessari o dannosi, la cui presenza è considerata alla stregua di un arto cancrenoso. Si consideri ad esempio il seguente brano:

“Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero. Sì, un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero in cui finiscono danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza e amore si chiama Camorra. La Camorra è il buco nero della Campania, un oggetto che chiude, che imprigiona, e quindi non è aperto, non libera. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero che si chiama Camorra è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. La Camorra è terribile, insaziabile, un buco nero nel cuore della Campania.” 

Un intervento di logotomia leggera porterebbe al seguente risultato: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé e non restituisce niente. Tutto, nel buco nero, viene attratto e non esce più: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. La Camorra è un oggetto che chiude, che imprigiona. Girando vorticosamente su stesso, il buco nero è la maledizione della Campania. Terribile. Insaziabile. un buco nero nel cuore della Campania.”

Un editore più severo, o più pietoso, attuerebbe questo ulteriore intervento logotomico: “Ci sono luoghi in Campania che sono un buco nero che attira tutto a sé: danaro, energie, speranze, illusioni, intelligenza, amore. E questo buco nero si chiama Camorra. Terribile. Insaziabile.” .

Omeropatia, s. f. sing. (gr. ‘Ομηρος e πάθος): teoria letteraria secondo la quale è sufficiente inserire una parola tratta dall'Iliade o dall'Odissea per fare di un testo qualsiasi un’opera degna di essere letta. Se, ad esempio, si inserisce ίππος (cavallo) ogni diecimila parole scritte da Baricco, si dirà che il racconto è una preparazione omeropatica di grado 4 applicata a Baricco, dove la cifra indica l’esponente negativo della diluizione della parola omerica (1/10.000 = 10−4). I sostenitori dell’omeropatia pensano che la parola omerica inserita sia in grado di modificare il campo testuale, trasferendo ad esso le sue proprietà vibrazionali benefiche. Per alcuni autori sono necessarie elevate concentrazioni di parole omeriche, per cui il testo rischia di contenerne troppe, rendendolo poco agevole la lettura. Gli omeropati considerano indispensabili diluizioni 2 o 3 (1/100 o 1/1.000) per autori come Tamaro o Faletti.


venerdì 22 marzo 2013

Arnaldo Biserani poeta

Il 19 marzo 1963 moriva tragicamente il pittore e poeta Arnaldo Biserani (1905-1963). Di lui ci rimane solo una fotografia che lo ritrae intorno al 1955, schietto rappresentante della gente di Romagna. La sua fama di pittore, e la complessità della sua opera che copre trent’anni di storia dell’arte contemporanea italiana, ha purtroppo messo in secondo piano il Biserani poeta, che non è azzardato definire una delle figure più complesse e significative del periodo. Nel cinquantenario della morte è doveroso ripercorrere il suo cammino perché anche il grande pubblico incontri e apprezzi la sua perizia letteraria. 

L’uomo Biserani, così come lo ricordano la sorella Adua e gli amici, era dotato di un carattere gioviale ed estroverso, nel quale ogni tanto emergevano momenti di vero e proprio spleen, soprattutto se alle dodici e mezza non era ancora pronto in tavola. Sin da piccolo amava gli scherzi, che poi commentava con la sua grassa, inconfondibile, risata. Ciò non gli impedì mai di essere un curioso e accanito divoratore di libri, soprattutto di poesia, ma anche romanzi e saggi letterari. Giunse ad accumulare più di trenta libri, che furono donati dagli eredi alla biblioteca di Porto Corsini, dove gli studiosi possono consultarli. 

Alla fine degli anni ’20 si accostò alla poesia, stimolato dalla lettura di Ungaretti. Il suo ermetismo non è tuttavia disperato, ma impregnato dello spirito solare della sua terra. Scriveva in dialetto e in italiano, in rima o con verso libero, secondo l’estro del momento e in funzione di ciò che aveva mangiato. La sua prima poesia, Pulpàtta (Polpetta), fu pubblicata nel 1930 sulla rivista letteraria “Parnaso ravennate”. Ecco una traduzione in italiano, che rende solo in parte l’intima musicalità del vernacolo e le insondabili geometrie lessicali di quest’opera impregnata di misticismo: 

Patata, aglio, prezzemolo, uova,
l’uomo ha tanti ingredienti 
di cui non si rende conto, 
e pensa come una polpetta 
che loda la propria polpettità 
ignorando le mani che la fecero. 

Più mature e tuttavia più semplici le poesie contenute nella raccolta Sardine impanate fritte alla fermata del treno (1937), nella quale l’alternarsi dei codici linguistici riflette gli stati d’animo dell’autore, sempre attento agli atti semplici della vita quotidiana, soprattutto in cucina. Rileggiamo da questa raccolta un’opera che, più di altre, riflette il carattere libero dell’autore, capace di esprimere un amore universale in controtendenza con le incombenti leggi razziali. Si intitola I funghi.

Figli del bosco e dell’acqua, 
i funghi sono detestati dai vegetali, 
perché non lavorano 
e vivono a spese degli altri. 
I funghi sono gitani, 
arrivano improvvisi 
e improvvisi spariscono, 
con note di violino. 
Tanti funghi sono delinquenti, 
velenosi, allucinogeni, osceni, 
possono uccidere, possono fare impazzire. 
Ma quelli buoni sono buoni, 
c’è scritto anche nel nome, 
e se sposano il riso 
si coprono di un manto 
di burro e prezzemolo. 


Biserani torna un’ultima volta alla poesia nella seconda metà degli anni Cinquanta, pubblicando infine Cicciolata (1962) qualche mese prima della sua morte prematura. Si tratta di uno smilzo volumetto di una trentina di opere, vero e proprio testamento spirituale, che anticipa molte delle correnti letterarie della fine del secolo, dal Gruppo ’63 alla beat generation. Le sue tematiche si aprono alla questione sociale, gli stili si fanno più incisivi, le tecniche compositive più sperimentali. La raccolta si apre con Maiali nell’alba, che qualche critico come il Dell’Orto ha voluto accostare con impudenza ad Allen Ginsberg, ma che a suo modo anticipa le attuali sensibilità animaliste: 

Sono andato con la macchina nuova 
all’allevamento dei maiali del Baretti 
su fino a Mirandola, e li ho visti. 
Ho visto le bestie migliori 
della mia generazione 
distrutte dalla follia, ingrassate, nude, 
trascinarsi nei recinti negri all'alba 
in cerca di un sollievo astioso, 
un pastone nel truogolo celeste, 
nella dinamo stellata nel meccanismo 
della notte. Con gli occhi vuoti 
sedevano grugnendo nell'oscurità 
chiedendosi il perché e il come 
di una vita vissuta per diventare 
costine e salami, prosciutti e ciccioli, 
per i Biserani come me, angeli 
sterminatori dell’Apocalisse suina. 

Più intimista è Quelle ciliegie, opera sospesa sul filo del ricordo dell’infanzia, nella quale troviamo anche la sorella Adua, con la quale visse per tutta la vita, nonostante le sue numerose avventure sentimentali. Il tono colloquiale, che la traduzione in italiano tradisce inevitabilmente, e il metro libero, danno al componimento i toni di un vero e proprio flusso di coscienza:

Stanotte ero lì che non avevo più sonno 
e sono uscito intanto che l’Adua dormiva, 
e mi è venuto in mente quell’orto incantato, 
dove noi bambini andavamo a rubare 
ciliegie, mugnéghe e anche gli zucchetti 
perché c’era la fame, mica come adesso, 
allora ho preso la bici e ho pedalato forte: 
ho sentito il campanone delle tre e mezza, 
dall’altra parte della statale, verso i colli. 
Quasi mi perdevo, ma certe strade poi 
le memorizzi, come gli uccelli migratori, 
che non c’è Africa che li faccia scordare 
il nido o la gronda rugginita dove sono nati. 
Dietro un magazzino di vernici, al buio, 
dove c’era il casolare dei ferraresi, 
ho trovato un pezzo di siepe di bosso, 
che era quella che eroici scavalcavamo, 
e un albero, un vecchio ciliegio storto, 
che aveva su tante belle ciliegie rosse, 
che mi sono arrampicato e ho raccolto, 
saranno state un chilo, un chilo e mezzo. 
Ne ho mangiata qualcuna e le altre 
le ho messe nella borsa sulla canna 
e sono tornato indietro che anche Coppi 
mica mi prendeva, tanto che andavo. 
Son tornato a casa e mi sono disteso, 
e ho preso sonno mentre il sole sorgeva. 
Mia sorella mi sveglia alle dieci 
e mi dice sei tornato in quell’orto, vero? 
Quelle ciliegie le ricordo anch’io. 


La solitudine e i guai della maturità sono l’oggetto di Riccione ’61, ispirata da una notte estiva nella città romagnola, trascorsa in compagnia dell’amico e collega Dello Feltraro, da lui sempre considerato uno sfigato approfittatore. Il contrasto tra l’atmosfera di vacanza e lo stato d’animo dei protagonisti è un archetipo dell’incomunicabilità dell’uomo moderno. Per la prima e unica volta nella sua opera poetica, il Biserani non ha fame:

Abbiamo bevuto, invorniti, fatto il giro dei bar 
nella lunga notte delle tedesche allegre e disponibili. 
Luci al neon sopra le Spaten provvisorie, poca schiuma, 
e risate e pingpong e minigolf nel luna-park estivo. 
A un certo punto mi dice che gli è venuta fame, 
ma non ha soldi che ha lasciato il giubbotto in stanza, 
allora gli dico, patacca, è già la terza volta che lo fai, 
ma mi hai preso per un coglione? Torniamo indietro, 
che a me ‘sto Nico Fidenco mi ha rotto i maroni, 
che non ho digerito e poi a noi di cinquant’anni 
invorniti e incazzati le tedesche mica ce la danno. 

La raccolta contiene anche un paio opere ermetiche, in una sorta di ritorno alle radici della sua poesia, mediato dal Giappone e dalla lettura dei francesi come Èluard. Commuovente questa perla, con la quale rende omaggio all’eterno femminino romagnolo: 

Nel brodo dei ricordi, 
le donne preziosi tortellini, 
fumanti di vita. 


Echi di America e beat generation, oltre a sorprendenti conoscenze geometriche, caratterizzano infine la poesia che chiude la raccolta, Milano, forse l’ultima composta in italiano dal Biserani, sempre legata ai temi che gli sono più cari. Con questi versi emblematici concludo il suo ricordo. 

A Milano in un lungo inverno scuro, quando il sole è cosa di Romagna, 
incontro la cassoela untuosa, le puntine, le cotenne, i salamini 
nella verza accogliente come una vagina innamorata; alla sera mi portano
in un ristorante di pesce a Lambrate, nella sera metallica e nebbiosa 
di treni e di tram e gente che si aggira indefinita e gelida 
e trovo nel menù il rombo di nuovo, e le sue forme regolari 
e schiacciate di pesce geometrico, con la superficie prodotto 
delle diagonali, quattro lati, paralleli due a due, ingobbiti 
dalla pressione dell’acqua, ma io ordino un gran fritto misto, 
che dicono che qui è più fresco che al porto di Rimini, 
può darsi ma non lo sanno fare e sa di bombolone riscaldato, 
allora prendiamo la macchina e andiamo a bere un digestivo 
in centro, dove i camerieri hanno più puzza sotto il naso 
dei clienti ricchi, industriali e negozianti con il gozzo 
da macellaio che ordinano vischi d’annata per loro e le due-tre 
puttane che li accompagnano fumando Muratti e Mercedes. 
Usciamo sotto le colonne e la nebbia è sparita, tira aria di neve, 
allora ci congediamo e ci diamo appuntamento per la mostra 
di Fontana l’indomani, e io sono contento, tra i primi fiocchi 
illuminati dai fanali, di tornare al caldo, mettermi in pigiama, 
e sedermi sul water che mi scappa anche da cagare.

Per chi desiderasse approfondire la conoscenza del Biserani pittore, raccomando l'illuminante e documentato saggio dell'amica e collega Maria Clara Bottoni, su BAU 2.0, che esce in contemporanea con questo articolo.