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domenica 23 giugno 2024

Varietà e tempi della storia

 



Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
che paralleli slittano
spesso in senso contrario e raramente
s’intersecano. E’ quando si palesa
la sola verità che, disvelata,
viene subito espunta da chi sorveglia
i congegni e gli scambi. E si ripiomba
poi nell’unico tempo. Ma in quell’attimo
solo i pochi viventi si sono riconosciuti
per dirsi addio, non arrivederci.

(Eugenio Montale, da Satura, 1971)

Un accenno di Umberto Eco in un lungo articolo dell'ottobre 1963 pubblicato in due parti su Rinascita (Per una indagine sulla situazione culturale) ricorda, non senza criticare il suo marxismo messianico e utopistico, il pensiero del filosofo e scrittore tedesco Ernst Bloch (1895-1977) e soprattutto una concezione del tempo storico molteplice e plurale, di non simultaneità (Ungleichzeitigkeit) tra il tempo a seconda dei luoghi, delle culture, delle classi sociali ed economiche. Ecco il passo:
“E, in polemica con altre posizioni, Bloch cerca di suggerire una metodologia di indagine storica che risulti capace di collegare questi sviluppi non paralleli, avanzando una teoria della molteplicità, all'interno del decorso della Storia, dei tempi storici, quasi dislocati a titolo di appendice spaziale. E tuttavia, temendo di geografizzare relativisticamente questi tempi come tante isole di civiltà non comunicanti, arriva a proporre l'idea di una struttura temporale «classica» nella storia, secondo l'analogia con lo «spazio» di Riemann, uno spazio mutevole e deformabile secondo il «mutevolissimo accadere della materia», interpretato secondo una «metrica variabile» (e si tratta, ovviamente, di metrica storica). Questo cercando di salvare (...) tutta la insopprimibile unità di connessione dello sviluppo storico, non come concetto lineare, ma come qualcosa cronologicamente differenziato e federativo, e solo così utilmente accentrato. Dunque “il progresso non procede solo in una omogenea successione di periodi, ma scorre anche in diversi tempi sovrapposti o sottoposti a successivi piani di tempo”
Questo implica una sorta di multiverso temporale, dove il passato, il presente e il futuro si intrecciano in modi complessi e non lineari.

L'accenno a Riemann è stuzzicante per chi si occupa di matematica. La metrica variabile suggerisce il concetto di varietà, che è infatti la traduzione italiana del termine tedesco Mannigfaltigkeit (più letterale è la traduzione con “molteplicità”) che compare per la prima volta nella tesi di dottorato del 1851 di Bernhard Riemann, Grundlagen für eine allgemeine Theorie der Functionen einer veränderlichen complexen Grösse. Nella sua tesi Riemann si pone il problema di introdurre delle "grandezze molteplicemente estese", aventi cioè "più dimensioni", e le definisce usando quel termine, che gli inglesi traducono con “manifold”. In geometria, una varietà è uno spazio topologico che localmente è simile a uno spazio euclideo 𝑛-dimensionale, ma che globalmente può avere proprietà geometriche differenti (ad esempio può essere "curvo" contrariamente allo spazio euclideo).

Riemann lo definì come tentativo di fornire un quadro unitario dello studio degli ambienti geometrici, dopo lo sconcerto legato alla scoperta delle geometrie non euclidee e avvalendosi dei nuovi più astratti strumenti messi a disposizione nel frattempo dalle varie branche della matematica. La definizione dipende dall’ambiente in cui si opera, dalla natura degli elementi che lo costituiscono e dalle proprietà che si vogliono studiare. Quella di varietà è un'idea sufficientemente semplice da potersi adattare a diversi contesti, in quanto è possibile definire ulteriori strutture su una stessa varietà.

Nel caso più generale una varietà é un concetto che generalizza quelle di curva e superficie della geometria analitica. Intuitivamente, una varietà è uno spazio a più dimensioni che localmente, intorno a ogni suo punto, presenta una struttura simile a quella dello spazio euclideo.

Ora, se guardiamo la superficie della sfera, non è sicuramente uno spazio euclideo: nella geometria euclidea, la somma degli angoli interni in un triangolo è 180°, il che non è vero per la superficie di una sfera. Tuttavia, se si guarda solo una piccola parte della sfera, è approssimativamente vero. Ad esempio, si percepisce la Terra come piatta, anche se non lo è se la guardiamo dall'alto.

Una varietà è ogni "spazio" con questa proprietà: localmente, sembra un piano euclideo. Il cerchio è una varietà (localmente sembra una linea, che è lo spazio euclideo unidimensionale ℝ), la sfera (localmente sembra un piano 2), una stanza (localmente sembra uno spazio euclideo 3) ecc.

La cosa interessante delle varietà è che questa proprietà di sembrare uno spazio euclideo localmente rende possibile descriverle completamente usando solo spazi euclidei. Ad esempio, si può costruire una carta geografica dell’Italia. Questo è un modo perfettamente valido per descrivere l'Italia, anche se in realtà è parte di un oggetto rotondo. Si possono mettere insieme molti di questi grafici per ottenere un intero atlante.

Una varietà è quindi uno spazio in cui si può creare un atlante di carte, ognuna delle quali è parte di uno spazio euclideo. Nell’atlante della Terra, alcuni grafici si sovrapporranno, e i punti nella sovrapposizione che sono vicini tra loro su un grafico saranno vicini tra loro sull'altro grafico. In altre parole, si ottiene una mappa tra le regioni sovrapposte di due grafici qualsiasi e quella mappa è continua (a quel punto si ottiene una varietà topologica) o persino differenziabile (una varietà differenziabile, che può essere approssimata a meno di un resto infinitesimo da una trasformazione lineare in un intorno abbastanza piccolo di quel punto).


A questo punto, dovrebbe essere possibile dire che lo spazio intorno a noi è una varietà differenziabile. Sembra perfettamente accurato descriverlo usando 3 localmente. Ed è anche così che le varietà entrano nella relatività: se si aggiunge la dimensione temporale, si scopre che è ancora possibile modellare lo spazio + tempo come una varietà a quattro dimensioni (il che significa che ogni grafico appare localmente come 4). Questo è ciò di cui tratta la relatività generale: le equazioni fondamentali della relatività generale ci dicono come la misura della distanza nello spazio-tempo è correlata alla materia e all'energia.

La relatività del tempo non è una esclusiva della fisica contemporanea. Due atti che sembrano avvenire simultaneamente in realtà possono essere asincroni a seconda dell'osservatore e del sistema di riferimento. Altrettanto avviene per i fatti della storia (anche di quella delle idee), che, privati del loro contesto, sembrano sincronici solo perché avvengono negli stessi tempi segnati dal calendario gregoriano (ma è significativo che di calendari ne esistano tuttora molti differenti).

Ma il tempo non è uno spazio geometrico ed è lecito domandarsi se il paragone con le varietà riemanniane di Bloch sia lecito. Che cosa intendeva Bloch parlando di tempi storici con metrica variabile?

La non simultaneità è un concetto che denota il ritardo temporale, o sviluppo irregolare, prodotto nella sfera sociale dai processi di modernizzazione e/o dalla natura incompleta di tali processi. Il termine, specialmente nella frase "la simultaneità del non simultaneo”, illustra l'inclusione di sistemi di valori e pratiche più antichi nella costruzione del presente, insieme a una certa resistenza al cambiamento. L'idea di temporalità coesistenti, o strati, all'interno di un dato periodo di tempo è centrale nell'opera di Bloch: "Non tutte le persone esistono nello stesso Ora. (...) Piuttosto, portano con sé cose precedenti, cose che sono intricatamente coinvolte. Si hanno i propri tempi in base a dove ci si trova fisicamente, soprattutto in termini di classe". Esistono crepe da dove idee, utopie e sogni del passato possono emergere dal loro stato di latenza ed esprimere il loro richiamo nel presente e nel futuro. Il passato non sempre è definitivamente passato, ma esiste in ogni caso una tensione verso la costruzione di un cambiamento futuro. Per Bloch, il tempo è strettamente legato al concetto di utopia. Il futuro non è predeterminato ma è un campo aperto di possibilità che possono essere realizzate attraverso l'azione umana. Questo implica un "multiverso" di futuri potenziali, ognuno dei quali può emergere in base alle scelte e alle azioni collettive.

La sincronicità del non-sincrono si oppone alla visione lineare evolutiva della storia che ha preso forma nell'Illuminismo. L'idea di Bloch aiuta a relativizzare questa visione del progresso. L'eterogeneità del tempo storico dà voce alla pluralità delle temporalità storiche, comprese le società non occidentali. È collegata alla fondamentale non-identità dell'esperienza individuale: un individuo non è mai contemporaneo a se stesso. Varie formazioni sociali, come nazioni, regioni geografiche, classi o logiche istituzionali, potrebbero essere non-contemporanee in quanto tali e tra loro. Vari elementi non-contemporanei potrebbero sia bloccare il lavoro di emancipazione sia aiutare a rivitalizzarlo dopo la sua presunta sconfitta. La non-contemporaneità è il concetto appropriato per la visione utopica della società, permeata da discontinuità rivoluzionarie.

La teoria della modernità di Bloch cerca di fatto di ripensare l’analisi sociale come un conglomerato di temporalità eterogenee che, tuttavia, interagiscono, si oppongono e si costituiscono a vicenda. A volte, sembra voler superare la non-contemporaneità nella visione di una vera presenza, che dovrebbe essere utopica e mediata dialetticamente dal futuro.

Bloch parla di "noch-nicht-bewusstes" (non-ancora-consapevole) come un livello della coscienza umana che contiene potenzialità non realizzate e visioni di futuri possibili. Questa dimensione temporale è un luogo di intersezione tra il presente e molteplici futuri possibili, ognuno dei quali può essere concretizzato tramite il progresso sociale e personale.

Il tempo storico è quindi molteplice, forma una varietà di Ora, ma, nella visione del filosofo tedesco, è possibile, per dirla come un matematico (forse non troppo rigoroso), costruire una serie di mappe che costituiscono un atlante della speranza e dell'utopia.

mercoledì 16 agosto 2023

Gli eremiti ornamentali, o da giardino

 


Gli eremiti da giardino o eremiti ornamentali erano persone incoraggiate a vivere da sole in eremi, grotte o giardini rocciosi appositamente costruiti nelle tenute di ricchi proprietari terrieri, principalmente durante il XVIII secolo. Tali eremiti erano incoraggiati a rimanere permanentemente sul posto, dove erano nutriti, accuditi e consultati per consigli o visti per divertimento. In cambio dei loro servizi, gli eremiti generalmente ricevevano uno stipendio oltre a vitto e alloggio. Agli eremiti era spesso richiesto di vestirsi di stracci e di non tagliarsi unghie, barba e capelli. Meglio se puzzavano un po’.

Gordon Campbell, dell'Università di Leicester, suggerisce che Francesco di Paola fu tra i primi esponenti della moda, vivendo come eremita all'inizio del XV secolo in una grotta nella tenuta di suo padre. In seguito fu confidente e consigliere del re Carlo VIII di Francia.

Successivamente, in tutta la Francia, le proprietà dei duchi e di altri signori spesso comprendevano piccole cappelle o altri edifici dove un eremita residente poteva rimanere in servizio. Secondo Campbell, la prima tenuta con un noto eremo (che comprendeva una piccola casa, una cappella e un giardino) fu il castello di Gaillon, ristrutturato dal cardinale Carlo di Borbone nel XVI secolo.

Nel 1590 William e Robert Cecil accolsero due volte Elisabetta I a Theobalds House vicino a Londra con intrattenimenti tenuti da un eremita. Gli eremiti del giardino divennero popolari tra l'aristocrazia britannica durante il XVIII e l'inizio del XIX secolo e si diffusero man mano che la moda romantica del giardino selvaggio, all’inglese, sostituì l’ordinato giardino all’italiana o alla francese. I resoconti contemporanei suggeriscono che la famiglia Weld tenesse un eremita ornamentale in un eremo appositamente costruito nella tenuta di Lulworth nel Dorset. Si diceva che sia Painshill che Hawkstone Park avessero impiegato eremiti ornamentali. Quello di Painshill, assunto da Charles Hamilton per un mandato di sette anni in condizioni rigorose, durò tre settimane, fino a quando fu licenziato dopo essere stato scoperto in un pub locale.

In alcuni primi casi, gli eremiti erano semplicemente rappresentati o accennati, piuttosto che personificati; fuori da un capriccio ornamentale o una grotta, un tavolino e una sedia, occhiali da lettura e un testo classico potevano essere collocati suggerendo che fosse il luogo in cui viveva un eremita. In seguito, le suggestioni di eremiti furono sostituite da veri eremiti, uomini assunti al solo scopo di abitare una piccola struttura e fungere come qualsiasi altro ornamento da giardino. A volte veniva chiesto agli eremiti di mettersi a disposizione degli ospiti, rispondendo alle domande e fornendo consigli. In alcuni casi, gli eremiti non comunicavano con i visitatori, essendo considerati invece come uno spettacolo teatrale perpetuo o un diorama dal vivo.

La moda continuò per tutti gli anni Trenta dell’Ottocento, quando l'idea divenne meno popolare man mano che mutavano i costumi e le mode di abbellimento delle proprietà.

domenica 4 giugno 2023

La Madonna del Manganello

 


Una delle rappresentazioni più diffuse in epoca tardo medievale e moderna della Madonna del Soccorso è stata quella in cui la Vergine, armata di un bastone, allontana il Diavolo per proteggere un bambino.

Una delle prime opere dedicate a questa raffigurazione della Vergine è quella del folignate Nicolò di Liberatore detto l’Alunno (1430-1502), conservata presso la Galleria di Palazzo Colonna a Roma. Al centro del dipinto, la Vergine compare in cielo con un lungo bastone, che minaccia un diavolo sulla destra che sta portando via un pargoletto dalle mani della madre disperata sulla sinistra.


Al museo di San Francesco a Montefalco, in Umbria, si può vedere un esempio ancor più famoso, il quadro del 1509 di Tiberio d’Assisi in cui la Vergine con il bastone nel braccio destro alzato, con la mano sinistra tiene per mano un bambino che cerca spaventato di sfuggire alle grinfie del diavolo e di salire sull’abito della Madonna. 
Da un lato del dipinto si vede una donna in ginocchio che prega Maria. È la madre del bambino, che chiede disperatamente aiuto.

La tradizione narra che la madre, stanca per la mancanza di obbedienza del figlio, in un momento di esasperazione chiese al diavolo di portarselo via, e il diavolo si presentò immediatamente per esaudire la richiesta.

Disperata, vedendo il grande errore che aveva commesso e il figlio distrutto dalla paura, la madre, sapendo che l’anima del bambino era in grave pericolo perché non era ancora stato battezzato, pregò la Vergine. La Madonna venne subito a soccorrerla, e prese a bastonate l’orribile creatura infernale.


Questa storia e il tipo di iconografia dell’opera erano molto diffusi nel centro e nel sud Italia. Essa serviva a scoraggiare la pratica del Battesimo tardivo, un tema che preoccupava molto l’Ordine degli Agostiniani. Molti dipinti, come quello della Madonna del Soccorso di Montefalco, provengono infatti da chiese agostiniane.

Ancor più nota divenne l’immagine della grande pala d’altare risalente al 1642 attribuita al pittore toscano Andrea Piccinelli, detto il Brescianino, realizzata per la chiesa di San Biagio di Avigliano (PZ). Durante il ventennio fascista questa rappresentazione iconografica venne ripresa dagli organi del PNF che, per evidenti motivi, la elessero patrona degli squadristi e poi protettrice dei fascisti, con il nome di Madonna del Manganello. L’opera originale, in cui la vergine è circondata dai santi Biagio e Cataldo, è andata perduta dopo la guerra ed è nota solo grazie a una riproduzione fotografica in un testo del 1929.


In molti santuari dell’Italia meridionale la Madonna del Soccorso è rappresentata nelle statue, alcune molto ingenue, altre di buona fattura. La più famosa fu la Madonna del Manganello realizzata da Giuseppe Malecore (1876-1967), uno scultore di Lecce specializzato nella lavorazione della cartapesta, come arredo sacro per una chiesa non parrocchiale di Monteleone, dal 1928 diventata Vibo Valentia. La statua, del 1936, rappresentava una Madonna con bambino, nella tipica iconografia della Madonna del Soccorso che, mentre nella mano sinistra sorregge il figlio Gesù, con la destra solleva un bastone che è diventato un manganello nodoso. Ai piedi della donna si trova un secondo bambino in piedi. La statua è realizzata in cartapesta colorata, e anche dalla fotografia di questa rappresentazione furono tratte in seguito alcune serie di santini.

Sul retro di tali santini era spesso riprodotto lo stornello Il Santo Manganello, ideato dal bresciano Asvero Gravelli (1902-1956), sansepolcrista, squadrista, volontario della guerra d’Etiopia e fondatore di diverse riviste del regime e, amnistiato dopo la guerra, militante del MSI fino alla morte. Ecco l’infame testo:

«O tu santo Manganello
tu patrono saggio e austero,
più che bomba e che coltello
coi nemici sei severo.
O tu santo Manganello
Di nodosa quercia figlio
ver miracolo opri ognor,
se nell'ora del periglio
batti i vili e gli impostor.
Manganello, Manganello,
che rischiari ogni cervello,
sempre tu sarai sol quello
che il fascista adorerà.»

La Chiesa Cattolica non riconobbe mai ufficialmente tali immagini, ma, nel clima di concordia successivo ai Patti Lateranensi, tollerò questo uso improprio di un’immagine sacra, in fondo apprezzato dall’Uomo della Provvidenza.

martedì 1 novembre 2022

Alfonso Ceccarelli, falsario punito

 


Medico di Bevagna, nel perugino, Alfonso Ceccarelli (1532-1583) si è meritato tanti epiteti negativi da parte degli storici ed eruditi per la sua irrefrenabile attività di falsario che ha avuto nefaste conseguenze sul loro lavoro per secoli. Ludovico Muratori lo definì semplicemente “impostore”, per Girolamo Tiraboschi fu “il più grande falsario del suo secolo e non solo, ma di tutti i tempi”.

Ceccarelli diede subito prova della sua inclinazione già nelle prime opere: nel breve saggio De Clitumno flumine celeberrimo (1564) citava Flavio Vopisco, che mai si era occupato dell’argomento e il geografo Gabinio Leto, inesistente. Nello stesso anno pubblicò un piccolo trattato sul tartufo nero e la sua diffusione regionale, dal titolo Opusculum de tuberibus, tuttora considerato il primo libro di micologia che sia stato stampato, privo tuttavia di rilevanza scientifica. Divenne intimo con la famiglia Monaldeschi di Orvieto, cui riservò uno dei falsi più importanti: una storia famigliare poi data alle stampe. Tra il 1564 e il 1569 lavorò alacremente, in archivi e biblioteche pubbliche e private, a raccogliere i materiali (bolle, diplomi, testamenti, cronache, atti pubblici e privati) per i suoi progetti e allestì una sorta di laboratorio privato per la contraffazione di documenti e testi: pergamene, coloranti, falsi sigilli, elenchi e prontuari cronologici di papi, imperatori, re, vescovi, famiglie rilevanti, cui affiancava l’invenzione pura e semplice di autori e opere mai esistiti ma destinati a diventare fonti autorevoli. Confezionava così testi ”antichi” ricchi di fantastiche ricostruzioni storiche, inframezzate con alcune notizie vere ed altre false, a volte verosimili, tanto che spesso è difficile distinguere le une dalle altre.

Tra il 1569 e il 1572 preparò falsi a favore dei Podiani di Rieti e dei Cybo di Massa; nel 1574 si trasferì a Roma, a casa di Ersilia Cortese, nipote di Giulio III, diventò medico della famiglia Boncompagni e quindi anche di Gregorio XIII; attingendo all’ampio arsenale di materiali storico-archivistici, autentici e falsi, accumulato negli anni precedenti e arricchito da biblioteche e archivi delle famiglie romane, si lanciò in una frenetica attivitâ di redazione di documenti, testi e compilazioni genealogiche, completamente o parzialmente falsi, a favore di casate nobili, o aspiranti tali, di Roma e di mezza Italia: intere comunitâ (ad esempio Teano, Pesaro, Gubbio), grate per gli incrementi di prestigio storico derivanti dalle sue mirabolanti “scoperte”, gli conferirono la cittadinanza onoraria.

L’inventivo medico di Bevagna si dilettava anche di astrologia e compilava richiestissimi oroscopi, anche sul papa regnante; una sua falsa profezia, attribuita al monaco irlandese Malachia, vescovo di Armagh, sulla successione dei papi da Celestino II alla fine dei tempi, circola in Europa da allora e viene citata dalla stampa ad ogni conclave (Francesco sarebbe però l'ultimo papa). Il colpo da maestro fu il falso diploma di Teodosio che confermava la Donazione di Costantino, base del potere temporale del Papato, ma che venne accolto con comprensibili cautela e scetticismo, dopo che l’umanista Lorenzo Valla aveva dimostrato la falsità di tale documento già nel secolo precedente.

Al vertice di questa brillante camera di falsario, Ceccarelli compì un azzardo irreparabile; falsificò alcuni testamenti che coinvolgevano forti interessi patrimoniali di famiglie importanti e le parti lese lo denunciarono: seguirono in pochi mesi l’arresto, la scoperta del suo laboratorio di falsi, il processo, il vano memoriale di difesa, la condanna a morte, la decapitazione (9 luglio 1583). Si è scritto, ma la sentenza di condanna non ne fa cenno, che prima di essere giustiziato gli era stata mozzata la mano destra. Alla condanna seguì la confisca dei beni, compresa la copiosa raccolta di lettere e documenti ora conservati nella Biblioteca apostolica vaticana.

La sua tecnica falsificatoria era semplice ed efficace: per diplomi, bolle e brevi modificava e adattava originali autentici; per atti privati creava copie fittizie, autenticate, di originali dichiarati perduti o inaccessibili; altre volte alterava testi genuini e li faceva circolare in altri scritti. II suo capolavoro era perö la creazione di autori fittizi di opere fittizie: una volta creati e collocati nella nota biblioteca di una famiglia autorevole, i documenti erano utilizzati per fini truffaldini sotto forma di estratti (eventualmente autenticati), poi puntualmente citati in storie e compilazioni a loro volta “autorità" per ulteriori lavori dello stesso falsario o per i malcapitati storici degli anni seguenti. Nacquero così il geografo Gabino Leto, Fanusio Campano, autore nel 1453 di un fantomatico Libro delle famiglie illustri d'Italia, Giovanni Selino, che avrebbe scritto nel 1393 un De memorabilium mundi, e tanti altri. Sono ben 51, compresi molti di cui menziona solo il nome o il titolo dell’opera, gli autori inventati dalla fertile fantasia di Ceccarelli: per un po’ di tempo eruditi d'ogni parte d'Italia impazzirono a cercare riscontri di tanti autori sconosciuti. La cultura storica e la competenza paleografica del Ceccarelli erano discrete, ma modeste le competenze su lingua, istituzioni, cronologia dell'età medievale. Tuttavia, questo vale anche per i “clienti” e gli eruditi suoi contemporanei.

L’elenco dei falsi, confezionati in poco meno di vent’anni, è imponente; tra i principali le Memorie di Rieti, il Simulacro delta illustrissima famiglia Boncompagni. le storie delle famiglie Crescenzi, Caposucchi e Conti, l'Historia Ecclesiastica Ecclesiae mediolanensis, il Simolacro dell'antichissima e nobilissima casa Cybo, gli annali in volgare di Lodovico Monaldeschi (a stampa, nel 1580, col titolo di Historia di casa Monaldesca), i tre volumi de La serenissima nobiltà dell'alma città di Roma, una specie di summa della sua attività falsaria in campo storico-genealogico e tanti altri. Rimasti inediti, salvo la storia dei Monaldeschi, i falsi di Ceccarelli finirono nelle biblioteche e archivi, pubblici e privati, di Roma e di altre città e famiglie nobili italiane e contaminarono per anni e talvolta per secoli la storiografia locale.


I danni arrecati alla verità storica da questo audace e geniale falsario furono moltissimi: da lui attinsero senza sospetti molti autori di storie municipali; i suoi falsi alterarono, almeno per un certo tempo, la storia ecclesiastica di Ferrara, Milano, Bologna e Genova, che si videro attribuiti vescovi mai esistiti. Esemplare il caso del
Liber instrumentorum del notaio Saladino de Castro di Sarzana (1293-95), repertorio di atti e strumenti ricco di notizie sulla vita civile, religiosa, economica della Lunigiana nel secolo XIII (compreso un inesistente vescovo di Genova, Eustachio Savinis). Passato indenne tra la maglie dell’erudizione storica locale del Seicento all’Ottocento, nel Novecento fu largamente utilizzato dagli studiosi del “giornale storico della Lunigiana” e solo nel 1958 una puntuale analisi storica, paleografica, diplomatica e linguistica lo ha relegato tra i falsi conclamati.

Il primo erudito a svelare i suoi imbrogli fu, nel 1642, Leone Allacci, nello stesso libro in cui denunciava i falsi etruschi di Curzio Inghirami; due anni dopo Ferdinando Ughelli definiva sogni di una testa malata le fonti citate da Ceccarelli, ma poi bisogna aspettare Muratori e Tiraboschi per vederlo inserito a pieno titolo nella categoria degli "impostori"; è suggestivo ricordare le giustificazioni dei suoi falsi nel Libello supplice inviato al giudice durante il processo: in favore della Chiesa, “pro confirmatione veritatis” è lecito produrre passi non solo da libri veri e canonici ma anche "apocrifi”, i falsi privilegi imperiali sono “non contro la verità" ma “per la verità”. Insomma, gli errori, e quindi i falsi, “in fide et in credendo in favorem fidei Christianae et Ecclesiae Catholicae Romanae” (con evidente riferimento al diploma confermativo della Donazione di Costantino) erano irrilevanti. Il giudice papale non la pensò così e firmò la condanna al patibolo.

domenica 15 maggio 2022

Nascita e sviluppo della Latteria di Locate Triulzi



La caduta dei prezzi dei cereali, che si manifestò in Lombardia a partire dai primi anni Ottanta dell’Ottocento (effetto della prima Grande Depressione economica mondiale), ebbe conseguenze sulle scelte degli imprenditori agricoli della pianura irrigua per l’utilizzo dei terreni. Nelle zone che da lungo tempo avevano posto la filiera del latte al centro del loro sistema economico, come il Lodigiano e il Basso Milanese, e in quelle che più recentemente avevano puntato sulla produzione dei latticini, (Lomellina, Cremasco e Cremonese), la coltivazione del prato venne ulteriormente estesa e l'allevamento delle vacche da latte conobbe un incremento quantitativo e qualitativo. Analoghi processi si avviarono anche nella pianura bresciana e nel Mantovano, favorendo un'ulteriore crescita delle attività casearie in tutta la pianura lombarda. L'andamento positivo del settore venne confermato anche nella successiva fase di ripresa dei prezzi agricoli e di trasformazione in senso industriale del sistema economico regionale nel capoluogo, nei maggiori centri urbani e nella fascia di collina e di pianura asciutta a ridosso delle Prealpi. La filiera del latte assunse un'importanza sempre maggiore anche nelle province emiliane e in alcune aree del Piemonte orientale, tanto che alla vigilia della Grande guerra si poteva ormai chiaramente identificare un vasto territorio pianeggiante, racchiuso tra i fiumi Sesia, Panaro e Mincio, nel quale di fatto si concentrava quasi tutta la produzione di burro italiano e larga parte di quella di formaggio vaccino. 

L'allargamento oltre i confini regionali dell'antico quadrilatero del latte (Milano, Lodi, Pavia, Codogno) fu accompagnato da una prima industrializzazione delle diverse fasi di lavorazione del latte. Come sottolineava allora Carlo Besana, direttore della Stazione sperimentale di caseificio di Lodi, fondata nel 1871, all'inizio degli anni Ottanta la produzione di burro e formaggio nella Bassa Lombardia restava dispersa in oltre 1800 caseifici annessi alle aziende agricole, che producevano beni destinati all'esportazione, ma che ancora conservavano un assetto tecnico (e igienico) del tutto insoddisfacente. Vent'anni dopo, la situazione si presentava in forma assai diversa. In molte aziende continuavano a funzionare le antiche strutture di lavorazione del latte, ma importanti passi verso il caseificio industriale erano stati compiuti. Nel Lodigiano erano ora in funzione latterie industriali che erano in grado di lavorare, ogni giorno, centinaia di ettolitri di materia prima per produrre burro con macchinari di moderna concezione e con l'uso di fermenti selezionati, come avveniva nei paesi del Nord Europa. Nei primi anni del Novecento la società anonima Polenghi Lombardo, che era diventata la principale azienda italiana attiva nell'esportazione di burro, acquistava quotidianamente latte da 600 aziende agricole, dotate di 15.000 capi di bestiame, e trasformava circa 1200 quintali di materia prima in burro e formaggi. Nel 1904 introdusse in Italia la fabbricazione del latte in polvere sfruttando il procedimento Hatmaker; nel 1911 ottenne anche l’esclusiva del brevetto Trufod per la condensazione e polverizzazione del latte. Questi procedimenti erano eseguiti nei grossi impianti di Lodi, oltre che nelle più̀ piccole latterie di Secugnago, San Fiorano e Castel San Giovanni. 

I progressi del settore non si legavano soltanto alla comparsa di grandi imprese industriali. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, in Lomellina, nel Cremonese e nel Basso Bresciano fecero la loro comparsa alcune latterie sociali fondate da imprenditori agricoli che intendevano valorizzare al meglio il latte prodotto nelle loro stalle. Queste società gestivano impianti di dimensioni ridotte, ma le loro strutture produttive erano in grado di trasformare dai 60 ai 100 ettolitri di latte al giorno, mentre in un casone tradizionale raramente si superavano i 6 quintali. 

Altra novità del periodo fu il forte incremento delle esportazioni di formaggio dall'Italia. Prima del varo della nuova tariffa doganale, nell'estate del 1887, le esportazioni di formaggi dall'Italia avevano raggiunto i 50.000 quintali, ma, alla stessa data, se ne importavano oltre 120.000 quintali, in netta prevalenza di produzione svizzera. Dieci anni dopo le esportazioni, attestate a circa 100.000 quintali, superavano le importazioni; si era così avviato un processo di crescita delle vendite all'estero di formaggio italiano che avrebbe avuto il suo culmine alla vigilia della Prima guerra mondiale. A quella data, secondo stime di Carlo Besana, si producevano in Italia circa 2.600.000 quintali di formaggio e se ne esportavano circa 300.000 quintali. Le vendite all'estero erano il frutto del successo sui mercati internazionali di tre sole varietà, il grana, il pecorino e lo stracchino di gorgonzola. La fortuna dello stracchino erborinato era iniziata negli anni Ottanta sui mercati europei, soprattutto su quello inglese, dove questo particolare stracchino faceva concorrenza al roquefort francese, crebbe poi progressivamente nel trentennio successivo, quando venne risolto il problema della stagionatura e della conservazione. 


A quattro anni dall’impianto da parte di Henry Nestlé della prima fabbrica di latte condensato e di «farine lattee» per neonati a Vevey, in Svizzera, gli imprenditori e banchieri austro-tedeschi Mylius, da un secolo attivi in Lombardia nel settore della seta, inauguravano tramite la società Boehringer Mylius e C. il primo stabilimento italiano di latte condensato, a Locate di Triulzi. Così ne parlava Carlo Besana, in qualità di giurato per il settore lattiero caseario dell’Esposizione Industriale Italiana del 1881 di Milano, dove l’azienda “figurò (...) con un obelisco di scatole nella galleria delle classi 24a e 25a e con un apparato completo di condensazione del latte nella galleria delle macchine in azione”

“La fabbrica di Locate fu aperta il 24 aprile 1879. E uno dei più belli opifici industriali che si possono vedere di questo genere. Nel 1881 possedeva 170 operai tra uomini e donne, gran parte dei quali dedicati alla fabbricazione delle scatole di latta. Nell'annata 1880 preparò 1.056.000 scatole di latte condensato, contenenti cadauna una libbra inglese di detto latte. Queste scatole portano la dicitura Italian condensed milk, poiché è l'Inghilterra lo sbocco principale di questa produzione; seguono in ordina decrescente la Germania, l'Olanda, il Giappone, la Francia, la Russia, le Indie, l'Australia, la Spagna, ecc. Lo stabilimento è montato per una lavorazione giornaliera di 20.000 litri di latte, ma nelle epoche ordinarie il latte lavorato non supera metà di questa cifra. Il latte era fornito alla ditta da diciotto cascine nello scorso anno (1881), situate nel perimetro di mezzo chilometro a 6 chilometri dallo stabilimento. La dose di zucchero che si aggiunge al latte prima della condensazione è di circa chil. 13,5 per cento chili di latte, così che la evaporazione nel vuoto, riducendo il volume del latte a poco più di un terzo del volume primitivo, ne deriva che il latte condensato contiene dal 34 al 38 per cento di zucchero di canna e 25 a 30 per cento di acqua in luogo di 87,5, che è la media dell'acqua contenuta nel latte normale. Lo stabilimento di Locate paga il latte 15 a 16 lire l'ettolitro ai fornitori, cioè assai caro, il che è come dire che questo mette la fabbrica di Locate in condizioni non favorevoli per vincere la concorrenza delle fabbriche svizzere, le quali acquistano il latte ad un prezzo minore, sebbene da un numero assai più grande di fornitori. Altra delle difficoltà della fabbrica in discorso è la restituzione del dazio sullo zucchero; dessa venne regolata in questo modo; da ogni partita di latte che passa il confine vengono levate alcune scatole per conto dell’erario, e vien analizzato il latte in esse contenuto; in seguito alla quantità di zucchero di canna risultante dall'analisi si computa la somma da restituirsi alla ditta per l'intiera partita esportata. Il latte condensato con zucchero è destinato all'esportazione, ai lunghi viaggi ed a lunga conservazione. Ma recentemente la fabbrica di Locate iniziò un'altra preparazione, cioè quella del latte condensato senza zucchero pel consumo delle città italiane; infatti, il latte appena portato allo stabilimento vien condensato, poi distribuito in recipienti della capacità di 50, 25 e 12 chilogrammi, che mediante treni diretti vengono in giornata spediti a Torino, Roma, Genova, Bologna, Firenze, Verona, Venezia, Trieste, ecc. Giunto a destinazione, il latte vien allungato colla quantità d'acqua voluta, ossia ricostituito a latte normale e dato al consumo. Ognuno vede i vantaggi grandissimi di questo artifizio pei consumatori di quelle città ove il latte è carissimo perché scarso. E notisi che il latte condensato senza zucchero può conservarsi per alcuni giorni e che, una volta ridiluito, è buono quanto il latte normale fresco, al punto da non poterlo distinguere da questo. Mercè la fabbrica Boehringer Mylius e C. il buon latte lombardo ha potuto penetrare, sotto forma di sciroppo, nelle più lontane contrade del globo e soddisfare ad un bisogno vivamente sentito dalle famiglie nelle grandi città italiane, cioè quello di un latte a buon mercato che sia assolutamente genuino”. 

La “Boehringer Mylius e C. Milano. Fabbrica e commercio latte condensato” cessò la sua attività nel 1883 (formalmente l’anno dopo), quando fu ceduta (probabilmente per il cessato interesse degli eredi Mylius). all’ingegnere di origine ungherese Ignazio Grün (nato a Pecs, ca. 1841), cambiando il nome in Latteria Locate Triulzi, divenuta Società Anonima il 27 gennaio 1901, con altri stabilimenti in Casalpusterlengo e Melegnano, filiali in Landriano e Fiorenzuola d’Arda, e solo più tardi chiamata Latteria San Giorgio


Ignazio Grün, che proveniva da una famiglia di industriali di respiro internazionale, fu uno dei primi mecenati e collezionisti del giovane pittore Emilio Longoni, che dipinse il suo ritratto con violino nel 1891. La passione di Grün per la musica è evidente: fu infatti primo violino nell'orchestra dei dilettanti del Teatro della Scala di Milano. Longoni fu spesso ospite nella tenuta dei Grün a Locate Triulzi ed era amico di famiglia. 


A dirigere la Latteria, Grün chiamò suo nipote Géza Billitz (1861-1933), giovane chimico di grande talento. Nato a Pecs, aveva subito dimostrato le sue attitudini, conseguendo un premio in chimica analitica nelle scuole tecniche della sua città natale. Recatosi a Zurigo a compiere gli studi superiori presso il Politecnico divenne allievo ed assistente del grande chimico tedesco Georg Lunge. Fra altri studi portò a soluzione il problema di chimica tecnologica riguardante la rigenerazione dello zolfo nei residui di fabbricazione della soda Leblanc. Conseguita a vent’anni la laurea, venne assunto in una fabbrica di coloranti a Offenbach. Il richiamo dell’ambiente della ricerca lo riportò, nel 1882, all'insegnamento nel laboratorio per gli allievi chimici a Zurigo e successivamente, alla fine dello stesso anno, su chiamata del Consiglio Accademico del Politecnico Federale, all'insegnamento e alle esercitazioni tecnologiche, bromatologiche, ecc. Varie circostanze, tra le quali principalmente la pressione dello zio imprenditore, lo indussero nell'agosto 1883 ad accettare la direzione della Latteria Locate Triulzi. 

La sua attività industriale fu guidata dalla convinzione che non potesse esistere una tecnica lattiera progredita se non basata su studi severi e sulla applicazione di quanto la scienza fin da allora stava fornendo. Infatti, la Latteria acquistò un grande prestigio in Italia e all’estero. Il latte condensato zuccherato era preparato secondo il metodo Borden, a partire dal latte crudo vaccino: l'eliminazione dei batteri era garantita grazie ad un processo di riscaldamento ad una temperatura di circa 90° a pressione ridotta per pochi secondi. Questa procedura allo stesso tempo inibiva la separazione dei grassi. Quando una certa quantità di acqua è evaporata, si aggiunge lo zucchero, che aumenta la pressione osmotica, rendendo il latte condensato dolcificato un alimento a lunga conservazione. 

Billitz volle superare l'empirismo che allora regnava e iniziò a Locate Triulzi l'applicazione dei fermenti selezionati alla fabbricazione del formaggio grana; successivamente applicò i fermenti alla maturazione delle creme, che rappresentava in Italia una pratica nuova; studiò inoltre la formazione della «erborinatura» del gorgonzola e le sostanze azotate del latte. Interessato alla utilizzazione dei sottoprodotti, iniziò nel 1888 la lavorazione del formaggio margarinato di pasta filata; realizzò un procedimento di idrolisi con acidi minerali della caseina, ottenendo anche il brevetto tedesco; studiò l'importanza alimentare del latte magro e il valore nutritivo del latte condensato scremato; dal lattosio ottenne un esplosivo, che chiamò pentanitrolattina, noto anche sotto il nome di polemite, che non ebbe molto successo perché instabile. 

Nel 1895 pubblicò un articolo sulle sostanze azotate del latte e su un nuovo prodotto, la cioccolata al latte, frutto interamente della ricerca del laboratorio chimico della Latteria di Locate Triulzi. L’anno successivo iniziò la produzione della cioccolata al latte commercializzata con il marchio Lacteobroma, che era venduta anche nelle farmacie e consigliata dai medici come prodotto dietetico. Per primo inoltre studiò, produsse e mise in vendita in Italia lo yogurt e il kefir. Sempre per iniziativa di Billitz, nei primi anni del Novecento fu attivato con macchinari d’importazione un impianto di mungitura meccanica, il primo in Italia. 


L’azienda aprì nel 1890 una serie di spacci per rifornire Milano e anche altre città, mediante collegamento ferroviario notturno, di latte fresco, di cui l’azienda controllava la composizione ai sensi delle norme igieniche vigenti (cfr. G. Billitz, La composizione chimica del latte fornito alla Latteria di Locate Triulzi in relazione al regolamento d’igiene di Milano, in «Annuario della Società̀ chimica di Milano», 1903, nel quale lamentava, sulla scorta di quasi 190.000 analisi condotte presso il suo laboratorio, che i valori indicati dalle autorità milanesi per le sostanze solide nel latte erano troppo rigidi e irrealistici). Questa organizzazione industriale e logistica permetteva all’azienda di annunciare dalle vetrine dei propri spacci la vendita di un «latte puro». Organizzò in tal senso, i noti spacci della «Locate» per il rifornimento di latte fresco alla città di Milano. 


Nei primi decenni del Novecento i prodotti della Latteria di Locate, che era anche diventata Fornitrice della Real Casa, erano venduti per corrispondenza in tutto il paese, come è testimoniato da Simonetta Agnello Hornby in Piano Nobile (2020). 


La Latteria Locate Triulzi si fuse nel 1921 con la Società̀ anonima Gianelli e Majno, sorta a Milano nel 1893, nata “con lo scopo di rifornire Milano di latte sterilizzato in bottiglie, anche per l’alimentazione dei neonati”, costituendo la SA. Latte Condensato Lombardo. Billitz ne fu, con l'avvocato Giovanni Majno, amministratore delegato e, fino alla morte, avvenuta a Milano nel 1933, consigliere e direttore tecnico e scientifico. Fu l’inizio di una storia societaria travagliata, che, attraverso cambi di nome e proprietà, nuovi prodotti (latte Zefiro, burro San Giorgio) e crisi finale, portarono alla chiusura dello stabilimento dopo più di cent’anni di attività e la malinconica cessione dell’area alla speculazione immobiliare.



lunedì 13 dicembre 2021

Ars honeste petandi in societate: se l’azione non può essere soggetta al giudizio

 


Sant'Agostino afferma di aver visto qualcuno,
che comandava al suo didietro tutte
le scoregge che voleva: e [...] Vives offre
un altro esempio del suo tempo, di scoregge
organizzate, secondo il tono di voce
che loro si rivolgeva.

Montaigne, Essais, 1.20

La Ars honeste petandi in societate (“L’arte di scoreggiare onorevolmente in società”) è un trattato attribuito a un tal M. Ortuinum. Il libro è menzionato da François Rabelais nel VII capitolo del secondo libro di Gargantua e Pantagruel, dove si legge che Pantagruel arriva a Parigi e, “dopo aver assiduamente studiato le sette arti liberali”, visita la biblioteca di San Vittore e “giudicò che la biblioteca era magnifica, specialmente per certi libri che vi trovò”. L’autore fornisce un elenco di 135 volumi in essa custoditi, tra i quali figura anche il trattato. L’elenco dell’umanista Rabelais è evidentemente parodistico e molti dei titoli presentano numerosi riferimenti scatologici, come il De modo cacandi (“Sul modo di cacare”) di un tal Tartaretus o l’anonimo Cacatorium medicorum (“Cesso dei medici”); altre opere sono invece parodie culinarie, come il De modo faciendi boudinos (“Sul modo di fare i budini”) di un certo Major o il De optimitate triparum (“Sull’eccellenza delle trippe”), attribuito addirittura al venerabile Beda. Simili titoli hanno da sempre indirizzato la critica a giudicare l’intero elenco come frutto della fantasia di Rabelais.

Se la biblioteca di San Vittore esisteva davvero nel XVI secolo, i titoli elencati da Rabelais, al contrario, si riferiscono più spesso a libri immaginari e servono a denunciare lo spirito antiumanista dei monaci parigini, che avevano preso di mira, tra gli altri, Erasmo da Rotterdam. L'interpretazione più comune di questa Ars petandi, formulata da Paul Lacroix in Le catalogue de la bibliothèque de l'abbaye de Saint-Victor au seizième siècle (1862), vuole che Rabelais qui si prenda gioco di Arduino di Graës (Ortuinum Gratus), teologo di Colonia e feroce oppositore dell'umanesimo. L'idea di attribuirgli il trattato sarebbe venuta dal fatto che era “Maestro di arti liberali” (bonarum artium professor), e il tema del peto sarebbe stato suggerito dall'equivoco, per le orecchie francesi, del titolo di un opuscolo pubblicato nel 1525: Fasciculus rerum expetendarum ac fugiendarum (Piccolo trattato delle cose da cercare e da evitare).

Questo non è tuttavia il caso dell’opera di Ortuinum. Sebbene dell’autore non si sappia nulla, e le attribuzioni a un umanista tedesco in vena di scherzi, contemporaneo di Rabelais, non hanno retto alle verifiche stilistiche e lessicali degli esperti, il trattato è noto da secoli, a partire dal ritrovamento nel 1923 di una manoscritto nell’abbazia benedettina di Reichenau, sul lago di Costanza, e, successivamente, con variazioni minime, a Cracovia, Erfurt, Lione e Codogno. 

La copia di Lione è persino un esemplare a stampa, Ars petandi in societate, cum scholiis, F. R. M., Lyon, apud Seb. Gryphium, 1532, scoperta in un fondo bibliografico dallo storico letterario e scrittore canadese Claude La Charité nel 2008. Secondo La Charité, l'identità dell'autore non è rivelata sul frontespizio o nel corpo dell'opera, ma l'edizione è corredata da scolii di un certo "F.R.M.". Questa firma, indicante il medico François Rabelais (Franciscus Rabelaesus Medicus) comparirebbe proprio nelle lettere di dedica inserite in capo alle edizioni che Rabelais curò in latino per lo stesso editore lionese, Sébastien Gryphe. Il trattato, scritto in latino, è composto da sei parti (De flatibus et crepitis, De crepitis et de regimine sanitatis, De natura crepitandi et de arte petandi, De peditis ac eorum generibus, De decoro et de apte petandi arte e Encomium pediti) per un totale di 64 pagine, ma, alla fine, si rivela per quello che è: uno scherzo erudito del letterato del Québec, che rivela in modo criptato la propria identità in una citazione finale tratta dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi: αγάπη ου ζητεί τα εαυτής (la carità non cerca il proprio interesse).


L’esemplare di Cracovia fu oggetto negli anni sessanta di un piccolo studio del filosofo e critico letterario sovietico Michail Michailovič Bachtin, tra le altre cose esperto di Rabelais, che mise in evidenza come l’opera sia anteriore alla fine del XIII secolo, sia nata in ambiente monastico, e rifletta e tradizioni del Carnevale (come del resto tutte le opere da lui prese in considerazione, dalle frammentarie cronache ecclesiastiche dell’alto medioevo ai romanzi di Thomas Mann, al Tractatus di Wittgenstein, ai testi di Domenico Modugno).

Più approfondita è stata la trattazione della filosofa e filologa inglese Eleanor Morris, che ritroviamo come prefazione alla prima edizione a stampa, curata dall’Oxford University Press nel 1976 con il titolo The Choice of Appropriately Farting in Society, che ha riconosciuto le profonde influenze tomiste sull’autore, sia esso Ortuinum o chi per lui. Morris è stata la prima commentatrice ad aver scelto di tradurre il latino Ars non come Arte, ma come Scelta (choice), volendo sottolineare l’azione come libera volontà del soggetto.

Secondo Ortuinum, l'attività centrale della ragione pratica è la deliberazione su cosa fare, soprattutto al sabato sera. Non si avrebbe bisogno di deliberare a meno che non ci si trovasse di fronte a possibili alternative per l'azione (tipi di opportunità) tra le quali si deve scegliere (nel senso che non si possono fare entrambe le cose contemporaneamente) e si può scegliere. I criteri che sono le guide appropriate per le proprie deliberazioni, scelte e azioni forniscono tale indirizzo, non prevedendo ciò che si farà, ma dirigendo ciò che si dovrebbe fare. Non ci potrebbe essere alcuna normatività, nessuna direttività pratica che guidi la scelta, a meno che le scelte libere non siano realmente possibili. 

La posizione di Ortuinum è, secondo la Morris, che non tutte le nostre attività sembrano scelte liberamente: vi sono infatti “atti della persona umana”, forse abbastanza frequenti, che non sono “atti umani” in senso proprio (liberamente scelti) ma piuttosto spontanei e non deliberati, come quando si starnutisce o si defeca. Né gli atti scelti devono essere immediatamente preceduti dalla scelta: molti dei propri atti sono il frutto di scelte che sono state fatte in passato e non hanno bisogno di essere rinnovate o ripetute ora, poiché nessuna opzione appare attraente (l’uomo può rimpiangere un eccesso di lenticchie o cipolle la sera precedente, ma non può tornare indietro). È che si può essere, e spesso ci si trova, in una posizione tale che, di fronte a due o più possibilità (compresa forse l'opzione del “non fare”), non c'è niente, né dentro né fuori la propria costituzione personale, che determina la propria scelta, oltre alla scelta stessa. 

Ortuinum intende la libertà delle nostre scelte come una realtà tanto primaria quanto metafisicamente e concettualmente irriducibile, come la realtà delle leggi fisiche, e pone tutte le sue riflessioni sulla morale e sulla ragion pratica sotto il titolo di “dominio dei propri atti”. Pertanto, emettere un peto in mezzo agli altri è un atto di libera scelta, anche quando sembra una coercizione del nostro corpo, cioè della Natura stessa. Trattenerlo, con il conseguente ribollio dell’intestino e la sofferenza che nasce da questo fatto, sarebbe un peccato di hybris. Se non ci fosse tale libertà e autodeterminazione, non potrebbe esserci alcuna responsabilità (colpa, merito, ecc.), e nessun senso o contenuto a qualsiasi dovere (normatività) di cui si occupa l'etica. L’espulsione di venti corporali è una scelta che, se viene attuata, non può comportare un giudizio morale o di opportunità sociale, purché venga intrapresa consapevolmente e onorevolmente.

A parere di Morris, Ortuinum riunisce in una sintesi potente (anche se esposta in modo confuso) una lunga tradizione di analisi degli elementi di comprensione (ragione) e risposta intelligente (volontà) che costituiscono la deliberazione, la scelta e l'esecuzione della scelta. L'analisi mostra la centralità dell'intenzione nella valutazione delle opzioni e delle azioni. In senso stretto, l'intenzione è sempre dei fini, e la scelta è dei mezzi; ma poiché ogni mezzo è anche un fine relativo a un mezzo più prossimo, ciò che si sceglie quando si adotta una delle due o più proposte per la propria azione, è giustamente detta essere ciò che si intende, ciò che si fa con l'intenzione. Un’azione è paradigmaticamente ciò che si intende essere; vale a dire, la sua descrizione moralmente primaria - prima di qualsiasi valutazione o predicato morale - è la descrizione che ha avuto nella deliberazione con cui si plasmava la proposta di agire in tal modo. Il modo di pensare di Ortuinum è questo: gli atti sono specificati dai loro oggetti, dove “oggetti” ha il significato focale di fine prossimo come previsto dalla persona deliberante e agente. Naturalmente, al comportamento implicato in quell'atto possono essere date altre descrizioni alla luce di convenzioni di descrizione, o aspettative e responsabilità, e così via, e all'una o all'altra di queste descrizioni può essere data priorità per legge, consuetudine o qualche altro speciale interesse o prospettiva. Tuttavia, il peto volontario trascende, o precede, ogni considerazione di ordine morale, legale o sociale.

La coscienza, secondo Ortuinum, non è un potere o una presenza speciale dentro di noi, ma è la nostra intelligenza pratica all'opera, principalmente sotto forma di una serie di giudizi sulla ragionevolezza (giusto) o irragionevolezza (sbagliato) dei tipi di azione (tipi di opzione). Infatti, poiché è logicamente impossibile che si possa essere consapevoli che il proprio presente giudizio di coscienza è errato, contrapporsi al proprio fermo giudizio di coscienza è contrapporsi ai beni di verità e di ragionevolezza, e ciò non può non essere errato. La scoreggia in società è pertanto un atto onesto, deliberato e cosciente, che, se può provocare qualche disagio (la puzza, ma la sensibilità medievale per gli odori era assai diversa da quella dei nostri nasini raffinati) va comunque inteso come libera adesione alla volontà divina.


Tra le fonti: 

La Charité, C. (2008). Rabelais et l’art de péter honnêtement en société. Contre-jour, (16), 111–124, 

Finnis, John, Aquinas’ Moral, Political, and Legal Philosophy, The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Spring 2021 Edition), Edward N. Zalta (ed.), 

lunedì 1 novembre 2021


“Hokypoky penny a lump”
Gelati, povertà e italiani nella Dublino di Joyce

 


Nel capitolo Lotofagi dell’Ulisse di Joyce, Leopold Bloom pensa a Hokypoky penny a lump (“hoky poky un penny al pezzo”) in riferimento al sacramento dell'Eucaristia, e i capitoli successivi mostrano questa misteriosa sostanza venduta per le strade da venditori italiani. Era una forma di granita a buon mercato che, come altri preparati con il ghiaccio del tempo, era implicata in molti focolai di malattie in Europa e in America.

Rocce erranti mostra il marinaio con una gamba sola vicino a Eccles Street “girando intorno al carretto dei gelati di Rabaiotti", che probabilmente sta partendo per la giornata dalla vicina Madras Place dove Antonio Rabaiotti, osserva l’esperto di Joyce Don Gifford, "aveva una flotta di carretti a mano che vendevano ghiaccioli e gelati nelle strade di Dublino". Circe inizia con la gente nel malfamato rione di Monto che si accalca attorno a uno di questi carretti: "Intorno alla gondola ferma di Rabaiotti il gelataio, bisticciano uomini e donne rachitici. Hanno in mano cialde con palle di neve color carbone e rame. Succhiando, si dileguano lentamente." In Eumeo Bloom e Stephen incontrano lo stesso carrettino: "Adiacente all'orinatoio per uomini sentì che girava un carrello di gelati con un un gruppo di italiani, presumibilmente, i quali discutendo in maniera calorosa facevano librare in aria la garrulità del loro idioma vivace in modo particolarmente animato, essendovi alcune divergenze tra le parti in causa". L'associazione di questo carretto con l'impurità e la cattiva salute difficilmente può essere casuale.

Gli ultimi tre decenni del XIX secolo videro una moda passeggera per i pezzi di ghiaccio tritato aromatizzato a buon mercato chiamati "hokey pokey", che erano apprezzati soprattutto dai bambini dei ceti più poveri. In una nota sulle James Joyce Online Notes, Harald Beck cita diversi articoli di giornale che, intorno all'anno 1880, si riferiscono a questo prodotto di nuova popolarità. Il numero di Era del 21 luglio 1878 parlava di una canzone da music hall con un linguaggio identico a quello di Bloom: "Mr. Wilfred Roxby [...] ha cantato un divertente brano volgare con un coro su un venditore ambulante che vendeva Hokey-pokey, un centesimo al pezzo." Un numero del 1881 del Tinsley's Magazine definì il termine per coloro che non lo conoscevano: "Hokey-pokey è il nome volgare per il gelato venduto per strada, venduti per un centesimo in una bancarella all'aperto vicino al "deposito" di Liverpool." Il 3 dicembre 1881 il Manchester Times elencò gli ingredienti: "Si dice che l'articolo genuino sia composto da latte, farina di mais, zucchero e uova, tutti bolliti insieme e poi congelati in piccoli pezzi".



L’origine del nome hokey-pokey, o hokypoky è controversa. Alcuni lo fanno derivare da due espressioni italiane come “oh che poco” oppure “ecco un poco”, relative alla minuscole quantità di prodotto venduto dai venditori ambulanti italiani. Essi esercitavano a Dublino una sorta di monopolio del prodotto, ma troviamo dei gelatai Rabaiotti, emigrati dalla zona di Bardi in provincia di Parma, in testimonianze coeve e successive provenienti dal Galles meridionale e da Londra. 

Secondo altri, la derivazione sarebbe più antica e andrebbe ricondotta a Hocus pocus, una frase senza senso usata come "formula magica" per "fare accadere qualcosa". In passato fu un termine comune adottato da illusionisti, giocolieri o altri simili intrattenitori (tipo "abracadabra"). Nell'inglese britannico, il moderno significato prevalente è "sciocchezza inventata, imbroglio", che potremmo avvicinare a certe formule utilizzate nei giochetti per Halloween o nella saga di Harry Potter. Le origini della locuzione rimangono comunque oscure. Alcuni, tra i quali probabilmente lo stesso Joyce, credono che provenga da una parodia della liturgia cattolica romana dell'eucaristia, che contiene la frase "Hoc est enim corpus meum". Questa spiegazione risale alle speculazioni del prelato anglicano John Tillotson, che scrisse nel 1694: "Con ogni probabilità i comuni giochi di parole "hocus pocus" non sono altro che un'aberrazione di hoc est corpus, con un'imitazione comica dei sacerdoti della Chiesa di Roma nel loro trucco della transustanziazione". In ogni caso, hokey-pokey ha fatto fortuna, diventando il nome di uno dei dolci tradizionali della Nuova Zelanda e anche quello di un ballo figurato da scampagnate che viene ballato in cerchio, forse ispirato dal richiamo dei venditori citato da Joyce:

"Hokey pokey penny a lump.
Have a lick make you jump".

Nel 2008, un religioso anglicano, il canonico Matthew Damon, prevosto della cattedrale di Wakefield, nello Yorkshire occidentale, affermò che i movimenti di danza erano una parodia della tradizionale messa cattolica latina. Fino alle riforme del Vaticano II, il sacerdote eseguiva i suoi movimenti di fronte all'altare e non ai fedeli, che non potevano sentire molto bene le parole, né capire il latino, né vedere chiaramente i suoi movimenti. Durante il rito eucaristico, il sacerdote diceva Hoc est corpus meum, che significa "Questo è il mio corpo". Ciò indusse il politico scozzese Michael Matheson nel 2008 a sollecitare l'azione della polizia "contro gli individui che usano la canzone e la danza per schernire i cattolici". L'affermazione di Matheson è stata considerata ridicola dai fan di entrambe le squadre di calcio rivali di Glasgow, il Celtic (cattolici) e i Rangers (protestanti) e si organizzò sui social media dei tifosi di entrambi i club perché entrambe le parti si unissero a cantare la canzone nel derby del 27 dicembre 2008 all'Ibrox Stadium, quello dei Rangers.

Miscugli ricchi e montati del tipo che oggi porta il nome di gelato esistevano nel XIX secolo, ma erano troppo costosi per i poveri. Il "gelato" venduto per strada in genere non conteneva affatto crema e sarebbe stato più simile alle granite o ai ghiaccioli di oggi. Nei primi anni, le persone consumavano questi gelati da piccoli bicchieri da un penny la cui forma conica e le pareti spesse facevano apparire le quantità maggiori di quelle che erano e il cui nuovo utilizzo (erano semplicemente puliti con un panno e riempiti) faceva ammalare innumerevoli persone. All'inizio del secolo le città avevano iniziato a vietare gli antigienici bicchieri e i venditori iniziarono a servire i pezzi di ghiaccio tritato e sciroppato su delle cialde, come notato all'inizio di Circe. (I termini di Joyce, "palle di neve color carbone e rame", si riferiscono ai coloranti che erano aggiunti per identificare particolari sapori). Un venditore italiano a New York introdusse i bicchieri di carta nel 1896, e ci sono segnalazioni di gelati britannici arrotolati in coni di carta marrone, ma i coni di cialda commestibili non apparvero che alla Fiera mondiale di St. Louis nel 1904.

All'epoca della pubblicazione di Ulisse, i carretti erano un ricordo del passato. Il London Times del 4 novembre 1919 li descrisse come ricordi sgradevoli di una Dublino scomparsa: "Il tempo vola e Dublino non può più essere riconosciuta con il naso. Un sistema di drenaggio principale ha pulito il Liffey, e il cestino delle aringhe rosse è raro come quello del venditore di vongole di un tempo, una leggenda ora, o del più antico venditore di Hokey Pokey a un penny al pezzo, a cui non credono nemmeno i bambini." Può sembrare strano collegare il gelato con la fogna a cielo aperto che era il Liffey, o con gli odori sgradevoli dei frutti di mare non refrigerati, ma la connessione era del tutto giustificata. Per tutta la seconda metà del XIX secolo il consumo di gelato fu ripetutamente implicato in gravi epidemie, e i gelati di strada furono tra i peggiori responsabili.

In un articolo intitolato When Ice Cream Was Poisonous: Adulteration, Ptomaines, and Bacteriology in the United States, 1850-1910, nel Bulletin of the History of Medicine (2012) Edward Geist riassume alcuni degli sconvolgenti resoconti, che iniziarono con l'invenzione del congelatore a manovella del gelato nel 1843, ma peggiorarono in pochi decenni: "Durante gli anni ‘80, l'avvelenamento da gelato crebbe da fenomeno isolato fino a raggiungere proporzioni epidemiche (...) Entro la metà del decennio, l'avvelenamento da gelato era diventato oggetto di battute popolari". I numerosi casi, che a volte provocarono centinaia di vittime, suscitarono un intenso dibattito sulle cause. Adulteranti chimici o metallici, prodotti della putrefazione batterica di prodotti alimentari e batteri stessi furono tutti ipotizzati come i responsabili, ma col passare del tempo le prove puntavano sempre più in modo definitivo sui batteri, e in particolare sulla contaminazione batterica del latte.

Geist presta solo poca attenzione ai gelati economici dei carretti di strada, ma è probabile che le condizioni terribilmente antigieniche in cui erano prodotti, e quella che chiama "la famigerata pratica di ricongelare il gelato fuso invenduto e servirlo a ignari clienti" il giorno successivo, peggiorò di molto un problema comune. Egli osserva che "nel 1898 Modern Medicine affermò che mangiando un gelato comprato in una bancarella di strada ad Anversa, morirono quaranta persone, la maggior parte dei quali bambini". Intorno alla fine del secolo, osserva, i ricercatori isolarono da campioni di formaggio un ceppo dimostrabilmente patogeno del batterio del colon ora noto come Escherichia coli. I medici vittoriani ed edoardiani collegarono i prodotti del gelato alla scarlattina (Streptococcus pyogenes) nel 1875, alla salmonella (Bacillus enteriditis) nel 1905 e 1909, e alla febbre tifoide (Salmonella enterica) nel 1892, 1894, 1897 e 1904. Anche la tubercolosi era nota per essere trasmessa dal latte contaminato.


Il riferimento alle malattie trasmissibili tramite il cibo in Circe è uno dei tanti nel romanzo, coerente con la diffidenza espressa da Bloom verso le fonti comuni di cibo e bevande nei Lestrigoni ("Un giovane pallido con la faccia che trasudava sugna ripulì bicchiere coltello forchetta e cucchiaio con il suo tovagliolo. Nuove schiere di microbi"), e, leggermente più avanti nello stesso capitolo ("Pulisci via i microbi col fazzoletto. Il tizio dopo di te ce ne riversa un’altra manciata col suo."). Le usanze alimentari antigieniche sono ricordate anche nell’allusione ai molluschi tossici in Nausicaa ("Pover’uomo quell’O'Connor, moglie e cinque figli avvelenati da cozze proprio qui. La fogna. Senza speranza"). Tali descrizioni danno per scontata la città povera, sporca, maleodorante e malsana che era Dublino nel 1904.