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giovedì 30 maggio 2013

Qualche haiku vagamente matematico


Due, tre, cinque, 
poi sette, poi undici 
storni sull’olmo. 


Svuota la mente, 
fatti attraversare 
dall’infinito. 


A casa Riemann 
battono alla porta, 
ma resta chiusa. 


Magica grazia: 
la spirale costante 
dell’ammonite. 


Tre alla cento: 
non basta la vita 
per pronunciarlo.


E se la pulce 
avesse tante pulci 
con altre pulci? 


Non conosciamo 
ciò che sta tra infiniti 
 d’aleph diversi. 


C’è chi s’ostina 
a divider per zero 
lo zero che è.


lunedì 22 ottobre 2012

Lima la Rima mi stima

Mi è stato comunicato che ho vinto un concorso di limerick. Si tratta della quarta edizione di Lima la Rima!, organizzato dall’Associazione Fantariciclando, in collaborazione con la cooperativa sociale Gulliver, il patrocinio del Comune di Forlì - Assessorato alla Cultura, Politiche Europee e Rapporti Internazionali, e del Comune di San Mauro Pascoli. 


Ho partecipato con due poesie tratte da Giovanni Keplero aveva un gatto nero, la raccolta di rime umoristiche matematiche e fisiche pubblicata da Scienza Express nel 2011. La poesia vincente è risultata questa: 

Fine del retto 

Un angolo retto si credeva perfetto 
e in un triangolo si sentiva costretto. 
S’allontanò con una scusa 
dalla povera ipotenusa. 
In un intestino, poveretto, ora fa il retto. 

Un assaggio del libro lo trovate qui e qui.

venerdì 27 aprile 2012

Giocando con i narcisi


I wandered lonely as a cloud

I wandered lonely as a cloud
That floats on high o'er vales and hills,
When all at once I saw a crowd,
A host, of golden daffodils;
Beside the lake, beneath the trees,
Fluttering and dancing in the breeze.

Continuous as the stars that shine
And twinkle on the milky way,
They stretched in never-ending line
Along the margin of a bay:
Ten thousand saw I at a glance,
Tossing their heads in sprightly dance.

The waves beside them danced; but they
Out-did the sparkling waves in glee:
A poet could not but be gay,
In such a jocund company:
I gazed -and gazed -but little thought
What wealth the show to me had brought:

For oft, when on my couch I lie
In vacant or in pensive mood,
They flash upon that inward eye
Which is the bliss of solitude;
And then my heart with pleasure fills,
And dances with the daffodils.

(William Wordsworth, 1802)



Adattamento con rima

Solo vagavo come nuvola sospesa
che alta fluttua su colline e valli,
quando di colpo vidi una distesa,
un esercito, di narcisi gialli;
accanto al lago, sotto le fronde,
danzanti alla brezza in lente onde.

Fitti come splendenti stelline
nella Via Lattea tremolanti,
distesi in una linea senza fine
intorno alla baia, lungo i versanti;
diecimila ne vidi con un’occhiata
che ninnavano i capi in danza beata.

Accanto ad essi un ballo d’onde lucenti,
ma essi le superavano in allegria:
un poeta davvero gode i momenti
in tale gioconda compagnia;
Fissavo e fissavo ma poco ho pensato
a qual bene la scena mi ha dato;

ché spesso, quando giaccio per ore
in assente o pensosa attitudine,
essi balenano in quell’occhio interiore
che è la grazia della solitudine;
allora di piacere il mio cuore si sazia
e con i narcisi danza e ringrazia.


Haiku

Solo vagavo,
poi vidi i narcisi,
gioia del cuore.


Maltusiano

Daffodillo è quella cosa
che abbonda in Inghilterra:
pei poeti in quella terra
è assai meglio del narcis.



Cronaca

CLAMOROSA VISIONE DI UN POETA
Diecimila narcisi danzanti visti in un colpo solo durante una passeggiata presso la baia di Glencoyne. La sorella minimizza: “Solo qualche decina”. La polizia interroga l’uomo, sospettato di far uso di sostanze allucinogene.



Limerick scientifico

Vagavo nei campi come nuvola solitaria,
esposta al vento e al capriccio dell’aria,
quando vidi i narcisi
che geni ben precisi
rendono gialli per legge ereditaria.


Abstract

DAFFODILS: A JOY TO THE INWARD EYE
William Wordsworth1
To be published in The Lyrical Ballads Journal, 4, 15, 1802

1 Lake District University, Cumberland, GB

Wandering in the fields, a poet saw 104 daffodils (Narcissus, clade Amaryllidoideae). This article reports on the vision of their dance in the breeze which brought and still brings joy to his inward eye.

mercoledì 4 gennaio 2012

'È il mio articolo sulle autoreferenze' è il mio articolo sulle autoreferenze


Sin da quando Epimenide il Cretese (VII sec. a.C.) dichiarò che tutti i cretesi sono mentitori, il concetto di autoreferenza è diventato sinonimo (spesso erroneamente) di paradosso. Questo è infatti un qualcosa (una proposizione, un’immagine) “che va contro il senso comune e la verosimiglianza; una dimostrazione che giunge a conclusioni che sono smentite dall'esperienza comune o dall'evidenza empirica o risultano contraddittorie”. Viceversa, la più diffusa autoreferenza che capita nella vita quotidiana, cioè quando si dice “io”, non è assolutamente un paradosso.

Dal punto di vista della logica che usiamo tutti i giorni (lasciamo perdere le logiche fuzzy o quantistiche), l’autoreferenza è alla base di ogni tipo di speculazione. Senza l’autoreferenza data dall’identità non ci potrebbe essere conoscenza. In matematica, ad esempio, la funzione identità su un insieme X è la funzione che associa ad ogni elemento l'elemento stesso. Si indica con idx ed è tale che per ogni x X si ha idx = x. La funzione identità è la più semplice tra le funzioni definibili su un insieme, ed è inoltre compatibile con praticamente tutte le strutture matematiche possedute dall'insieme.

L’identità è ciò che rende un’entità definibile e riconoscibile, perché possiede un insieme di qualità o di caratteristiche che la distingue da altre entità (Leibniz avrebbe detto che x è la stessa cosa di y se ogni predicato vero di x è vero allo stesso modo di y). Essa è una relazione binaria, che intercorre tra una cosa e sé stessa. In altri termini, l’identità è un predicato duale tale che per ogni x e y, x = y è vero se, e solo se, x è lo stesso che y. Se così non fosse, ogni affermazione relativa a un ente sarebbe possibile e vera e si potrebbe dimostrare qualsiasi cosa.

La conseguenza di ciò è il principio di non contraddizione, per il quale, come diceva Aristotele, “È impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo riguardo”. In simboli, la proposizione "A è anche non-A" è falsa:

¬ (A ∧ ¬ A)

L’autoreferenza è dunque paradossale quando è contraddittoria, cioè quando un'inferenza logica porta, direttamente o indirettamente, a proposizioni o attributi in contrasto tra loro, perché non possono essere vere la proposizione A e il suo contrario ¬ A. Nella logica classica tertium non datur, cioè una proposizione A è o vera o falsa, non esiste una terza possibilità.

La contraddizione si può esprimere in vari modi, ad esempio con la figura retorica dell’antitesi, quando si accostano parole o frasi di significato opposto. Antitetico in ogni riga è ad esempio il sonetto del Petrarca Pace non trovo, dal Canzoniere, in cui sono descritti i contrasti interiori prodotti dall'amore:

Pace non trovo, et non ò da far guerra;
e temo, et spero; et ardo, et son un ghiaccio;
et volo sopra 'l cielo, et giaccio in terra;
et nulla stringo, et tutto 'l mondo abbraccio.

Tal m'à in pregion, che non m'apre né serra,
né per suo mi riten né scioglie il laccio;
et non m'ancide Amore, et non mi sferra,
né mi vuol vivo, né mi trae d'impaccio.

Veggio senza occhi, et non ò lingua et grido;
et bramo di perir, et cheggio aita;
et ò in odio me stesso, et amo altrui.

Pascomi di dolor, piangendo rido;
egualmente mi spiace morte et vita:
in questo stato son, donna, per voi.

Anche l’altra figura retorica, quella dell’ossimoro, è basata sulla contraddizione, ancor più marcata perché si accostano due termini in forte antitesi tra loro, al punto da essere spesso incompatibili. L’ossimoro è una combinazione scelta di proposito per creare un contrasto originale, spesso con singolari effetti stilistici. Con l’ossimoro l’autore talvolta vuole significare una realtà indicibile o ineffabile (il “motore immobile” di Aristotele), oppure per superare i limiti imposti dai codici linguistici.

In epoca barocca, tempo di grandi acrobati verbali, Giambattista Marino scrisse un’intera poesia costituita da soli ossimori:

Volontaria follia, piacevol male,
stanco riposo, utilità nocente,
disperato sperar, morir vitale,
temerario dolor, riso dolente:
un vetro duro, un adamante frale,
un’arsura gelata, un gelo ardente,
di discordie concordi abisso eterno,
paradiso infernal, celeste inferno.

In filosofia, nella logica, nella matematica, la contraddizione è più correttamente definita come antinomia. Essa indica la presenza contemporanea di due affermazioni contraddittorie, che tuttavia possono essere entrambe dimostrate o giustificate, in contrasto con il principio di non-contraddizione. Più precisamente, abbiamo un'antinomia quando un procedimento o un ragionamento produce in modo corretto due soluzioni che sono antitetiche, portando a una conclusione del tipo: "A se, e solo se, non A". Le antinomie, un tempo considerate fallacie ineliminabili dovute a errori o a carenze del linguaggio o del sistema formale al cui interno si collocano, possono nella maggior parte dei casi essere superate ricorrendo ai metalinguaggi, strumenti e discipline che hanno lo scopo di analizzare, definire o illustrare entità linguistiche o argomentative di varia portata. Insomma, le antinomie di un sistema possono essere risolte solo uscendo dal sistema stesso, andando “al di là, oltre”, così come dimostrato da Kurt Gödel e come indicato dal prefisso meta- che significa proprio questo.

Proprio la diffusione dei metalinguaggi e delle loro tecniche, associata allo sviluppo della logica formale nel ‘900 e dell’informatica, e divulgati da autori come Raymond Smullyan e Douglas Hofstadter, ha dato impulso alla raccolta, all’invenzione, alla catalogazione, allo studio e alla diffusione di enunciati autoreferenti, veri, antinomici o contraddittori che possono essere di esempio nella spiegazione di concetti fondamentali di logica o di programmazione, ma possiedono un indubbia carica, volontariamente o involontariamente, comica.

Tali sono ad esempio le autoreferenze ottenute da Hofstadter con il procedimento che egli stesso ha chiamato del quinare, in onore delle idee del filosofo e logico Willard Van Orman Quine, che coniò l’espressione:

• “Produce una falsità se preceduto dalla propria citazione” produce una falsità se preceduto dalla propria citazione.

Ecco alcune delle autoreferenze contenute nel celeberrimo Gödel, Escher e Bach di Hofstadter, in cui l’uso delle virgolette fa in modo che l’enunciato citato sia l’argomento dell’enunciato identico che segue, scelti opportunamente perché l’intera costruzione abbia un senso:

• “È un frammento di un enunciato” è un frammento di un enunciato
• “È scritto sui vecchi barattoli di mostarda per tenerli freschi” è scritto sui vecchi barattoli di mostarda per tenerli freschi.


Altri interessanti esempi paradossali di autoreferenza sono riportati dallo stesso Hofstadter in Metamagical Themas (Basic Books, 1985):

• Queta frase non è autoreferenziale perché “queta” non è una parola.
• Se questa frase non esistesse, nessuno l’avrebbe mai scritta.
• Questa è una completa. Frase. Questa neppure.
• Questa frase finirà prima che sia possibile leggere Fante di Cuori.

Basato sull’autoreferenzialità è il cosiddetto paradosso dell’eterologicità del logico e filosofo tedesco Kurt Grelling, che lo ideò per riformulare in termini semantici il noto “paradosso del barbiere di Russell”. Lo riporto così come viene descritto nella pagina che gli ha dedicato Wikipedia:

"Gli aggettivi possono essere suddivisi in due categorie definite in questo modo:

• Un aggettivo è autologico se e solo se si riferisce a se stesso: per esempio, "polisillabico" è un aggettivo autologico perché è una parola polisillabica, cioè si riferisce a se stesso.
• Un aggettivo è eterologico se e solo se non si riferisce a se stesso: per esempio "monosillabico" è un aggettivo eterologico perché è una parola polisillabica, cioè non si riferisce a se stesso.

L'antinomia sta nella questione se l'aggettivo "eterologico" sia autologico o eterologico: se "eterologico" è autologico, per la definizione di autologicità si riferisce a se stesso, e quindi deve essere eterologico; se "eterologico" è eterologico, per la definizione di eterologicità non si riferisce a se stesso, e quindi deve essere autologico. In entrambi i casi si ottiene una contraddizione; in altre parole, l'aggettivo "eterologico" è autologico se e solo se è eterologico. Per contro, se "autologico" è autologico allora si riferisce a se stesso, e quindi è autologico; se "autologico" è eterologico, allora non si riferisce a se stesso, e quindi è eterologico, senza che si presentino contraddizioni. Mentre "eterologico" non può essere né autologico né eterologico, generando un'antinomia, "autologico" può essere l'uno e l'altro, generando una tautologia ("autologico" è autologico se e solo se è autologico)".

Chiaro, no?

Autoreferenziali e autodescrittivi sono anche alcuni limerick:

A cardiac patient named Fred
Made a limerick up in his head.
But before he had time
To write down the last line

Una cardiopatica di nome Ernesta
aveva un limerick pronto in testa,
ma prima di riuscire
la sua opera a finire

(in Elliott Moreton, The Oxford Book of Meta-Limericks, Oxford, Massachussets, 1989)

I limerick di un giovane di Fiorenzuola
non superavano la dodicesima parola.

(Kees Popinga)

Oppure haiku come questo, di John Cooper Clarke:

Writing a poem
in seventeen syllables
is very diffic

Fare poesia
con diciassette sillabe
è molto diffic

Talvolta l’autoriferimento in poesia si spinge fino a cercare l’identità tra forma e contenuto, come nella poesia emblematica e visuale, di cui sono noti esempi sin dall’antichità e che segna molte esperienze delle menti più creative dell’Ottocento, come Lewis Carroll, e del Novecento, dai calligrammi di Apollinaire e dei futuristi alla poesia concreta, visiva e sonora delle varie avanguardie che si sono succedute nei decenni fino al giorno d’oggi. Non è forse un’autoreferenza in cerca d’identità la poesia nella quale il racconto del topo assume la forma della sua coda in Alice nel paese delle meraviglie?


Passando completamente nel campo delle arti visuali, l’autoreferenza è il marchio di molte opere di Maurits Cornelis Escher (e chi se no?) e di René Magritte. Tra le immagini di questo articolo riporto Mano con sfera riflettente (1935) del primo e il celeberrimo La trahison des images (1928) del secondo, che si è meritato centinaia di note sul significato della scritta Ceci n’est pas une pipe e persino un saggio del 1973 di Michel Foucault dal titolo omonimo.


Curiose (e divertenti) sono anche le “frasi suicide” che ha collezionato nel 1985 il matematico Saul Gorn in S. Gorn's Compendium of Rarely Used Cliches:

• Prima di iniziare a parlare, c’è qualche cosa che vorrei dire.
• È deliberatamente incosciente.
• Avendo perso di vista la nostra meta, dobbiamo raddoppiare i nostri sforzi.
• Da una donna sterile è probabile che nascano figli sterili.
• Ti ho assegnato un budget illimitato, e tu l’hai già superato.
• Comunque non si inizia mai una frase con tuttavia.
• Questa specie è sempre stata estinta.
• Credo solo nello scetticismo.
• Voglio dare ascolto alla voce della maggioranza silenziosa. (Richard Nixon)
• È proibito il parcheggio autorizzato.
• La superstizione porta sfortuna.
• Le parole non possono descrivere quello che sto per dirvi.
• Come al solito ti sei superato.
• Una volta ogni tanto non smette mai di piovere.
• Tutte le emergenze sono normali. [frase purtroppo assai vera in Italia]
• Prima gli uomini, le donne e i bambini.
• Tutti gli uomini sono fratelli, come Caino e Abele.
• In questo campo solo le variabili rimangono costanti.
• Noi dello Scorpione non crediamo nell’astrologia.

Il matematico e divulgatore John Allen Paulos, l’inventore del termine inglese innumeracy per indicare l’analfabetismo matematico, in Beyond Numeracy (Vintage Books, 1992) fa conoscere perle come:

• C’è il caso di un elettore che, intervistato da una società di sondaggi sulle ragioni dell’ignoranza e dell’apatia degli americani, rispose “Non lo so e non me ne importa nulla”.
• Qual è la domanda che contiene la parola melone senza alcun motivo apparente?

Le frasi suicide non sono un passatempo per i soli matematici in vena di amenità. Il giornalista (e premio Pulitzer) americano William Safire, che è stato anche uno dei portavoce di Nixon, in un libretto sull’uso corretto della grammatica (Fumblerules: A Lighthearted Guide to Grammar and Good Usage, Doubleday, 1990) fornisce questi “utili” consigli:

• I verbi deve concordare con i loro soggetti.
• Evitate modi di dire trendy.
• L’uso di periodi con molte subordinate che sono difficili da leggere e inducono in molte occasioni a una cattiva interpretazione se non a un completo fraintendimento del contenuto è meglio evitarlo.
• Nella comunicazione formale evita le forme confidenziali, caro mio.

Altri esempi, tratti da varie fonti, sono:
• La nostalgia non è più quella di una volta (Simone Signoret)
• Tutte le generalizzazioni sono fuorvianti (Krishna Kumar)
• Dobbiamo credere al libero arbitrio, non abbiamo scelta (attribuito a Isaac Bashevis Singer)

E con Singer si può dire di aver terminato l’articolo in modo intelligente.

[L'immagine iniziale è una fotografia dell'opera Dubbio lapidario (2011) di Paolo Albani].

domenica 7 agosto 2011

La più bella recensione del Keplero



4.1 Giovanni Keplero aveva un gatto nero

«Giovanni Keplero
Aveva un gatto nero
Che storceva le vibrisse
Se sentiva cerchio e non ellisse»

Immagino conosciate tutti Popinga. Se invece non lo conoscete, è bene rimediare. Cominciate allora col Popinga più universalmente noto, quel Kees Popinga che riveste il ruolo del placido assassino in “L’uomo che guardava passare i treni” di Georges Simenon: non c’è Maigret (non può proprio esserci, a ben vedere), ma Popinga basta e avanza: è uno dei migliori Simenon.

Dopo questa dovuta presa di familiarità coll’eroe eponimo, andate adesso a conoscere il Popinga più noto del web: per farlo, è sufficiente fare un salto sul suo blog, http://keespopinga.blogspot.com/, e da quel sito capirete molte più cose di quante se ne possano raccontare in questa rubrica.

La frase che troneggia sulla sua home-page è infatti: “Scienza e Letteratura: terribilis est locus iste”, e non v’è dubbio che Popinga mantenga la promessa. I suoi post navigano regolarmente sul crinale affascinante e poco esplorato in cui le narrazioni diventano scienza e le scoperte scientifiche sono narrate come racconti. Una miscela che riesce a sorprendere e affascinare, ogni volta, i partigiani di entrambe le culture. Certo è che sarebbe bello avere avuto come insegnante, ai tempi del liceo, il professor M.F. Barozzi: chi sa esplorare i misteri della scienza e narrarli con la maestria del letterato deve per forza essere in grado di rendere affascinante anche più soporifera delle lezioni, nonché essere dotato di un gran bel senso dell’umorismo.

E, guarda caso, qualche giovane studente questa fortuna ce l’ha davvero: Popinga insegna, e un po’ per rendere i suoi insegnamenti meno ripetitivi, un po’ per puro ed egoistico desiderio di rivincita contro l’apparente immobilità ciclica della didattica, si è dedicato a comporre versi che riguardano – e spesso riassumono – principi e leggi della fisica, postulati e teoremi di matematica. Brevi composizioni, rigorosamente allineate alla metrica prescelta (una “dotta premessa” del suo libro spiega e illustra con dovizia di esempi e dettagli cosa siano i limerick, i cleryhew, i misteriosi fib, nonché le disgraziate incarringhiane e i versi maltusiani), ma vergognosamente divertenti.

E, inevitabilmente, sono anche un gioco da giocare. Se il cleryhew che dà il titolo al libro (riportato in testa a quest’articolo) è di facile e immediata lettura – a meno che tra i lettori di RM non vi sia qualcuno che abbia dimenticato che è stato proprio Keplero a scoprire che le orbite dei pianeti sono ellissi e non cerchi – altri componimenti sono decisamente più impegnativi:

Sentite questo “Destino dei bosoni”:

Il fotone migliore della sua generazione
Era stanco del gruppo, voleva distinzione
Dai fermioni canzonato
Si fece scoraggiato
E gli sembrò un principio d’esclusione

Solo un limerick, ma a voler scriverci le note a piè di pagina per una classe di liceo, ci vuole un intero corso introduttivo di meccanica quantistica. Naturalmente, un’intera sezione è dedicata alla matematica: questo si intitola “La tentazione”.

C’era un asintoto dalla fede ispirato
Che fece voto di non esser toccato
Ma davanti a una cotangente
Bella, sinuosa, suadente
Dovette ammettere di sentirsi tentato

Come spesso accade quando la chiave di lettura è multipla ed intelligente, si rischia perfino di esagerare nell’attribuire significati ai testi. Prima ancora di entrare in possesso del libro, il vostro umile recensore si è imbattuto in questo fib (senza sapere cosa fosse un fib) dal misterioso titolo “Agorafobia”, ma dall’esplicativo sottotitolo “Interazione Forte”:

È
Una
Forza
Crudele
Che ci trattiene
In un piccolo locale
All’interno di un complesso edificio

Come dice l’autore, questi fib sulle forze fondamentali (certo, vi sono anche quelli per l’interazione elettromagnetica, debole, gravitazionale e di Higgs) giocano sulla doppia lettura, al pari degli indovinelli e delle crittografie. Colto dall’entusiasmo, chi scrive era anche convinto che l’interazione forte evocata dai versi fosse splendidamente sottolineata dalla forma grafica della poesia: al pari della celebre “The Bomb” di Gregory Corso, che era una lunga poesia i cui versi disegnavano graficamente il fungo atomico, pareva che il componimento di Popinga riproducesse il grafico dell’interazione forte, molto intensa a distanze nucleari ma con un rapidissimo affievolimento al crescere della distanza. In realtà, la forma grafica della poesia è stabilita a priori dal suo essere un fib, ovvero una composizione le cui sillabe si basano sulla serie di Fibonacci: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13… il primo e il secondo verso devono essere composti d’una sola sillaba, il terzo da 2, il quarto da 5, e così via. Ne segue che anche un fib dedicato a una gaussiana avrebbe la forma di quello appena citato per l’interazione forte, con gran scorno delle capacità deduttive del vostro recensore.

Ma forse è un buon segno: tutti i giochi intelligenti nascondono altri giochi, anche involontari. Il libro del professor Barozzi, in arte Popinga, è al tempo stesso libro di scienza, di poesia, di umorismo. Far convivere le tre cose è davvero meritorio, riesce solo ai grandi.


Una recensione da tale fonte e in tali termini renderebbe felice chiunque. Grazie, Rudi!

lunedì 9 maggio 2011

American haikus


Le prime traduzioni di haiku in occidente furono pubblicate agli inizi dell’900 in Francia e in Inghilterra. Oltralpe, i resoconti di viaggio e le traduzioni curate da Paul-Louis Couchoud furono fonte di ispirazione per una generazione di poeti come Julien Vocance (1878-1954), che scrisse sulla sua esperienza di guerra del 1914-18 perle come questa:

Ils ont des yeux luisants
De santé, de jeunesse, d'espoir
Ils ont des yeux en verre.

Hanno degli occhi lucenti,
di salute, di giovinezza, di speranza.
Hanno occhi di vetro.

In Francia di haiku si occuparono, anche scrivendone, Rainer Maria Rilke, Jean-Richard Bloch, René Maublanc, Jean Paulhan e Paul Eluard. In Italia, vicine allo spirito degli haiku furono le poesie degli ermetici della prima e seconda generazione, come Giuseppe Ungaretti, Sandro Penna, Salvatore Quasimodo e Leonardo Sinisgalli, ma degli influssi giapponesi sull’ermetismo italiano dei primi decenni del Novecento, mediati sicuramente dai soggiorni parigini di Ungaretti e di altri prima della Grande Guerra, mi occuperò casomai un’altra volta.

Ezra Pound a Parigi nel 1913
Le prime traduzioni dal giapponese esercitarono un influsso sugli imagisti anglo-americani, cui si legò successivamente e per qualche tempo Ezra Pound. Nel 1913 egli pubblicò una breve poesia simile agli haiku, In a Station of the Metro:

The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.

L’apparire di questi volti nella folla,
petali su un umido, nero ramo.

La dichiarazione di Pound, di qualche anno successiva, “Non usare alcuna parola superflua, nessun aggettivo, che non riveli qualcosa” è molto vicina allo spirito degli haiku che, come ha indicato Roland Barthes (ne L’impero dei segni, 1970), “non descrive, ma si limita ad immortalare un'apparizione, a fotografare un attimo: è per questo che tra le sue caratteristiche peculiari troviamo la leggerezza e, soprattutto, una grande sintesi, che spalanca un vuoto ricco di suggestioni”. Questa idea si ritrova anche in numerose opere di T. S. Eliot e Amy Powell.

Dopo un periodo di relativo oblio, fu solo dopo la seconda guerra mondiale che rinacque nel mondo occidentale l’attenzione per gli haiku, soprattutto grazie ai saggi dell’inglese Reginald Horace Blyth sulla cultura giapponese e alla scoperta, non sempre pienamente compresa, del buddismo Zen. La prima traduzione in una lingua occidentale di un intero volume di haiku avvenne tuttavia in spagnolo. Nel 1956 il poeta e premio Nobel messicano Octavio Paz pubblicò la traduzione di Oku no Hosomichi, “La stretta strada per Oku”, celebre raccolta del grande maestro giapponese del Seicento Matsuo Bashō. Secondo Paz, l'introduzione dell’haiku ha rappresentato per la poesia occidentale “una critica della spiegazione e della reiterazione, che sono malattie della poesia”.


L’opera di divulgazione e di critica di Blyth stimolò la pubblicazione delle prime raccolte di traduzioni, che a loro volta incoraggiarono la composizione di haiku, soprattutto presso i poeti e gli scrittori della Beat Generation degli anni ’50 e ’60, affascinati dal buddismo giapponese. Scrittori come Jack Kerouac e Allen Ginsberg scrissero molti haiku, tutti piuttosto irregolari nella metrica. Come spiegò lo stesso Kerouac, “L’haiku americano non è esattamente come quello giapponese. L’haiku giapponese è strettamente disciplinato dalle diciassette sillabe, ma, poiché la struttura del linguaggio è diversa, non penso che l’haiku americano (brevi componimenti di tre versi intesi come completamente confezionati con il Vuoto del Tutto) debba preoccuparsi delle sillabe, poiché la lingua americana è d’altra parte qualcosa… che scoppia di cultura popolare. Soprattutto, un haiku deve essere molto semplice e privo di ogni trucco poetico e descrivere una piccola immagine, malgrado ciò deve essere arioso e grazioso come una Pastorella di Vivaldi”.

Kerouac compose haiku per tutta la vita, almeno a partire dalla metà degli anni ’50. Essi si trovano disseminati qua e là nelle sue opere, come ne I vagabondi del Dharma, il cui protagonista ne scrive alcuni. Molti degli haiku di Kerouac furono raccolti in Scattered Poems, City Light Books, 1971, pubblicato due anni dopo la sua morte. Qui ne presento alcuni, accompagnati dal mio adattamento:

Early morning yellow flowers,
Thinking about
The drunkards of Mexico.

Fiori gialli del primo mattino,
pensando
agli alcolisti del Messico.

No telegram today
Only more leaves
Fell.

Oggi nessun telegramma,
solo più foglie
che cadono.

Nightfall,
Boy smashing dandelions
With a stick.

Cala la notte,
un ragazzo spacca denti di leone
con un bastone.

Holding up my
Purring cat to the moon
I sighed.

Sollevando alla luna
il mio gatto che faceva le fusa
ho sospirato.

Drunk as a hoot owl,
Writing letters
By thunderstorm.

Ubriaco come una civetta,
scrivendo lettere
con una tempesta.

Empty baseball field
A robin
Hops along the bench.

Campo di baseball deserto.
Un pettirosso
saltella lungo la panchina.

All day long
Wearing a hat
That wasn't on my head.

Tutto il santo giorno
portando un cappello
che non era sulla mia testa.

Crossing the football field
Coming home from work –
The lonely businessman.

Attraversando il campo di football
torna a casa dal lavoro –
l’uomo d’affari solitario.

After the shower
Among the drenched roses
The bird thrashing in the bath.

Dopo l’acquazzone
tra le rose fradice
l’uccello si scrolla nel bagno.

Snap your finger
Stop the world -
Rain falls harder.

Fai schioccare le dita
ferma il mondo –
la pioggia cade più forte.

Nightfall,
Too dark to read the page
Too cold.

Al calar della notte
troppo buio per leggere la pagina,
troppo freddo.

Following each other
My cats stop
When it thunders.

Seguendosi l’uno con l’altro
i miei gatti si fermano
quando tuona.

Wash hung out
By moonlight
Friday night in May.

Bucato steso ad asciugare
alla luce della luna.
Venerdì sera di maggio.

The bottoms of my shoes
Are clean
From walking in the rain.

Le suole delle mie scarpe
sono pulite
dal camminare nella pioggia.

Glow worm
Sleeping on this flower -
Your light's on.

Lucciola
che dormi su questo fiore –
la tua luce è accesa.

A quiet Autumn night
And these fools
Are starting to argue.

Una quieta notte autunnale
e questi sciocchi
cominciano a discutere.

Every cat in Kyoto
Can see
Through the fog.

Ogni gatto a Kyoto
riesce a vedere
attraverso la nebbia.

A car is coming but
the cat knows
it’s not a snake.

Una macchina sta arrivando
ma il gatto sa
che non è un serpente.

In London-town cats
can sleep
in the butcher’s doorway.

A Londra i gatti
riescono a dormire
nell’entrata del macellaio.

Birds singing
in the dark –
Rainy dawn.

Uccelli che cantano
nel buio –
alba piovosa.

Catfish fighting for his life,
and winning,
splashing us all.

Pesce–gatto che combatte per la vita
e che vince,
bagnandoci tutti.

The low yellow
moon above the
quiet lamplit house.

La bassa e gialla
luna sopra
la quieta casa illuminata.

Unencouraging sign
- the fish store
is closed.

Segno scoraggiante –
la pescheria
è chiusa.

Nodding against
the wall, the flowers
sneeze.

Dondolandosi contro
il muro, i fiori
starnutiscono.

Straining at the padlock
the garage doors
at noon.

Chiudendo a forza con il lucchetto
le porte del garage
a mezzogiorno.

The moon,
the falling star –
look elsewhere.

La luna,
la stella cadente
– guardo altrove.

The rain has filled
the birdbath
again, almost.

La pioggia ha ancora
quasi riempito
la vaschetta per gli uccelli.

The sound in your mind
Is the first sound
That you could sing.

Il suono nella tua mente
è il primo suono
che hai potuto cantare.


E’ necessario dire che queste poesie non convinsero pienamente i critici. Al di là del mancato ma comprensibile rispetto della metrica, agli haiku di Kerouac si rimproverò una certa superficialità. Lo haiku tradizionale richiedeva un lungo periodo di apprendimento e di formazione, mentre Kerouac lo considerava come una forma di poesia “immediata”, che può essere scritta sulle ali di una spontanea ispirazione. Una sorta di scrittura automatica di tipo surrealista (“privo di ogni trucco poetico”), talvolta ispirata e deformata dall’alcol, prende il posto della paziente vergatura di ideogrammi sulla carta dei maestri giapponesi. Per riprendere la metafora della fotografia di Roland Barthes, direi che alle lunghe pose dell’haiku originale, Kerouac sostituisce la tecnica e i risultati delle fotografie fatte con una delle prime Kodak Instamatic.

Forse queste opere di Kerouac andrebbero allora viste alla luce di un altro grande amore dello scrittore americano, il jazz. Egli scrisse poesie sul be–bop, dedicandone una a Charlie Parker, cercando di catturare nei versi lo spirito libero e un po’ folle di questa forma d’espressione musicale. La forma “minimalista” dell’haiku diventa allora un modo per riprendere le brevi frasi musicali del bop, e l’improvvisazione poetica si affianca a quella musicale. Non è un caso allora trovare una trentina degli haiku di Kerouac nell’album Blues and Haikus, che egli pubblicò nell’ottobre 1959 (ma le registrazioni sono della primavera dell’anno precedente) assieme ai due sassofonisti jazz Al Cohn e Zoot Sims:


L’aneddotica musicale, sempre ricca di particolari curiosi e indiscreti, riferisce che, durante le registrazioni, il produttore Bob Thiele dovette mettersi a gridare per far capire a Kerouac i tempi corretti in cui doveva inserirsi con la voce recitante. Inoltre, Cohn and Sims uscirono di corsa dallo studio per andare in un vicino bar non appena la sessione si fu conclusa, senza neanche voler riascoltare il nastro appena inciso. In un angolo dello studio lo scrittore piangeva sconsolato, probabilmente ubriaco fradicio. Anche questo era il be–bop, anche questo era Kerouac.

Questo articolo è dedicato all’amico Giuseppe Deliso, intellettuale e musicista, non alcolista.

lunedì 4 aprile 2011

Giovanni Keplero aveva un gatto nero


Oggi Lunedì 4 aprile 2011 esce in libreria un libro che prima non era mai uscito nelle librerie. È un libro di poesie umoristiche scientifiche, cioè un libro scientifico di poesie umoristiche, oppure un libro umoristico di poesie scientifiche, a scelta del lettore. S’intitola Giovanni Keplero aveva un gatto nero. Matematica e fisica in versi ed è edito da Scienza Express di Torino. L’ho scritto io, che mi firmo con il nome anagrafico di Marco Fulvio Barozzi, ma tra parentesi metto anche il soprannome di Popinga con il quale sono conosciuto in rete. Si tratta di un libro scritto per divertirmi mentre lo scrivevo e ho scoperto che le operine che contiene divertivano anche gli altri. In libreria costa solo 9 €, ma è possibile ordinarlo direttamente alla casa editrice, risparmiando il 15%. Per chi non sapesse di che cosa sto parlando, dico che esso contiene limerick di matematica e fisica:

La fusione nucleare

Vinti da un impellente desiderio
due nuclei innamorati di deuterio
fecero una fusione.
Ci fu un’esplosione:
la nascita di Elio provò l’adulterio.

Flatlandia
Disse un semicerchio di Matera:
“Se ruoto sul diametro divento la sfera!”
Chiosò il rombo: “Che coglione,
non esiste una terza dimensione!”
Per il semicerchio fu giornata nera.

Ed anche clerihew:

Antonio Meucci
Antonio Meucci
morì per i suoi crucci:
se la spassava in un motel
e ai Brevetti ci andò Bell.

Poi incarrighiane e maltusiani:

L’insieme Z
È l’insiem dei razionali,
con la virgola o le frazioni:
corrispondon alle divisioni
tra numeratore e denominator.
Diversamente dai naturali,
non si contan sulle dita:
si rischierebbe persin la vita
a far frazioni delle falang.

La balistica
La balistica è la scienza
che studia il moto dei proietti:
se le sue leggi non accetti
rischi di sbagliare mir.

E persino poesie basate sulla serie di Fibonacci (fib):

Agorafobia
(Interazione forte)

È
una
forza
crudele
che ci trattiene
in un piccolo locale
all’interno di un complesso edificio.

E anche degli haiku:

Ormai tra di noi
forze di van der Waals,
stanco amore.

Secondo me potreste anche comprarvelo. Chi volesse, può venire a sentire la presentazione che farò al Salone del Libro di Torino sabato 14 maggio dalle ore 13 alle 14 dialogando con gente importante come Piero Bianucci, mentre Maria Rosa Menzio leggerà alcuni dei versi. Il tutto organizzato da Scienza Express edizioni.

martedì 26 maggio 2009

Ricordo di Mario Benedetti



Lo scrittore e poeta uruguaiano Mario Benedetti, di lontane origini umbre, uno dei più importanti della letteratura sudamericana contemporanea, è morto il 17 maggio scorso nella sua casa di Montevideo all'età di 88 anni, dopo una lunga malattia polmonare. Che fosse consapevole di essere vicino alla morte lo si capisce non solo dai travagli che lo hanno afflitto negli ultimi due anni, ma ancor di più dalle rare interviste che concedeva, nelle quali il tema della fine era dominante. «Negli ultimi tempi lavoro meno e contemplo di più (…) Lo stato del mondo mi deprime, oltretutto presto compirò 88 anni, non si può dire che stia andando a ballare (…) In questa situazione rimpiango di non essere religioso, sarebbe più facile. Ma non lo sono, e non lo voglio essere» aveva dichiarato un anno fa a Juan Cruz del «País» che, ricordando lo scrittore, ha messo in risalto le contraddizioni della sua figura, sempre in bilico tra uno spirito fortemente malinconico e una sorridente ironia. Tratti, questi, che caratterizzano tutta la sua ricca opera, un’ottantina di libri tra romanzi, saggi, racconti e poesie, che lo hanno reso molto celebre nel suo paese e in tutto il mondo di lingua spagnola.

La varietà della sua opera (ha scritto anche testi di canzoni e saggi politici) potrebbe rendere difficoltoso ogni tentativo di classificazione. Tuttavia, in questa diversità di registri, palpita una segreta unità che dà coerenza a tutta la sua opera, uno stile personale che deriva dalla sua vocazione comunicante, vale a dire, secondo la definizione data dallo stesso Benedetti, l’interesse a stabilire un clima nel quale il lettore si senta parte di un dialogo con l’autore, sviluppato in un piano di mutua fiducia e di apprendimento reciproco. Benedetti diceva di non scrivere per i posteri, ma per i lettori contemporanei, nel tentativo di conquistarli letterariamente perché agiscano umanamente. Il successo di questa vocazione comunicante è dimostrata dal fatto che pochi poeti contemporanei godono di un pubblico così fedele e numeroso, anche in settori abitualmente lontani dalla letteratura.

L’impegno manifesto di raggiungere un vasto pubblico non si realizza attraverso concessioni alla banalità o al sentimentalismo superficiale. Nella sua relazione con il lettore, il poeta uruguaiano ha ben chiaro il suo ruolo di “provocatore”, che vuole aprire gli occhi al prossimo e non coprirli. Naturalmente una comunicazione di questo tipo si realizza attraverso un codice di facile comprensione per il destinatario, fatto di linguaggio accessibile, semplicità sintattica e stile vicino al registro colloquiale. Questa familiarità letteraria deriva dall’ossessione, che fu anche di Antonio Machado, di “parlar chiaro”. Lo scopo dichiarato è di creare una complicità con il lettore, far nascere in lui un vincolo affettivo con l’opera letteraria, affinché si operi in lui una trasformazione. L’opera letteraria, per attuare questa trasformazione, non deve fornire verità rassicuranti, ma, al contrario, suscitare dubbi e domande, rivelare contraddizioni, spingere alla curiosità e alla ricerca. Ma non è un invito ad assumere un atteggiamento scientifico?

Tra le forme poetiche che meglio si sono prestate agli intenti di Benedetti c’è sicuramente l’epigramma, che egli ha abbigliato da haiku in una fortunata raccolta (Rincón de haikus, Madrid: Visor, 1999; México: Alfaguara, 1999). Eccone alcuni:

La muerte invade
de vez en cuando el sueño
y hace sus cálculos.

La morte invade
di quando in quando il sogno
e fa i suoi calcoli.

Las religiones
no salvan / son apenas
un contratiempo


Le religioni
non salvano / sono appena
un contrattempo.

Cada comarca
tiene los fanatismos
que se merce.


Ogni territorio
ha i fanatismi
che si merita.

Drama cromático:
el verde es un color
que no madura.

Dramma cromatico:
il verde è un colore
che non matura.

Cuando me entierren
por favor no se olviden
de mi bolígrafo

Quando mi seppelliranno
per favore non si dimentichino
la mia biro.

Cuando prometen,
los políticos ríen
con los suplentes

Quando promettono,
i politici ridono
con i collaboratori.

El preso sueña
algo que siempre tiene
forma de llave.

Il prigioniero sogna
qualcosa che ha sempre
forma di chiave.

Eran los brazos
de la Venus de Milo
los que aplaudían.

Erano le braccia
della Venere di Milo
quelle che applaudivano.

Sòlo los náufragos
valoran con justicia
la natación.

Solo i naufraghi
valutano con giustizia
il nuoto.

Sé de un ateo
que en las noches rezaba
pero en francés

So di un ateo
che di notte pregava,
però in francese.

Un pessimista
es sólo un optimista
bien informado.

Un pessimista
è solo un ottimista
ben informato.

Dicevo dell’ironia che caratterizza molta dell’opera poetica di Mario Benedetti, e che si ravvisa negli haiku-epigrammi che ho proposto. Questo accattivante aspetto lo si riscontra anche nelle sue poesie d’amore, come questa, dal titolo che già muove al sorriso (traduzione di Federico Guerrini):

Lovers go home

Ahora que empecé el día
volviendo a tu mirada
y me encontraste bien
y te encontré más linda,
ahora que por fin
esta bastante claro
donde estas y donde
estoy,
se por primera vez
que tendré fuerzas
para construir contigo
una amistad tan piola
que del vecino
territorio del amor,
ese desesperado,
empezarán a mirarnos
con
envidia
y acabaran organizzando
excursiones,
para venir a preguntarnos
cómo hicimos.


Lovers go home

Oggi che ho iniziato la giornata
tornandoti sott’occhio
e mi hai trovato bene
e ti ho trovato ancora più bella,
adesso che finalmente
è abbastanza chiaro
dove sei e dove
sono,
per la prima volta so
che avrò la forza
di costruire con te
un’amicizia così sottile
che dal vicino
territorio dell’amore,
questo disperato,
inizieranno a guardarci
con invidia
e finiranno per organizzare
escursioni,
per venire a chiederci
come facciamo.

Benedetti ha saputo spesso additare con la sua ironia pungente anche lati inaspettati del progresso scientifico e tecnologico. Questi temi, uniti al suo invito allo spirito critico, ne fanno indubbiamente una figura che non poteva mancare nella mia proposta di poeti interessati al rapporto tra scienza e letteratura.

¿Por qué no hay más viajes a la luna?

Cuando el bueno de Armstrong dio aquellos pasos
todos registramos cómo se movía
tosco / pesado / en un suelo blancuzco
¿o era de piedra pómez? ¿quién se acuerda?

Durante un rato estuvo cavillando
y la escafandra o como se llamase
impedía que viéramos sus ojos
pero juraría que su mirada era
de pereza o abulia.

Algo debió explicar a su regresso,
algo diferente al discurso de gloria
que le ordenaron pronunciar eufórico
entre medallas, flores vítores y guirnaldas.

Algo debió decir en privado a sus jefes,
algo importante inesperado.

Verbigracia / Cuando estaba allá arriba,
caminando como un zoombie en la Luna,
mi general mi coronel pensé en ustedes
y se me ocurrió no sé por qué
que debía matarlos con urgencia
uno a uno / dos a dos / etcétera.

O verbigracia dos / Cuando andaba allá / eroico,
pisando las feísimas arrugas del satélite,
imaginé que así debía ser la muerte
es decir el paisaje de la muerte.

O verbigracia tres / cuando estaba en Selene,
paseando por la nada como un imbécil,
setí el asco infinito de la ausencia del hombre
y me dije qué mierda estoy haciendo aquí.

Algo así debe haber confesado a sus jefes,
con su estrenada voz de robot disidente
y quizá por eso los dueños del poder
postergaron sine die los viajes a la Luna.

Perché non ci sono più viaggi sulla Luna?

Quando quel buon uomo di Armstrong fece quei passi,
tutti registrammo come si muoveva,
grossolano, pesante, su un terreno biancastro,
oppure era di pomice? Chi si ricorda?

Per un attimo stavo pensando
e lo scafandro, o come si chiama,
ci impediva di vedere i suoi occhi
ma giurerei che il suo sguardo era
di pigrizia o abulia.

Qualcosa ha dovuto spiegare al suo ritorno,
qualcosa di diverso dal discorso di gloria
che gli ordinarono di pronunciare euforico
tra medaglie, fiori festosi e ghirlande.

Qualcosa ha dovuto dire ai suoi capi,
qualcosa di importante inaspettato.

Cioé: quando ero lassù
camminando come uno zombie sulla Luna
mio generale, mio colonnello pensavo a voi
e mi venne l’idea non so perché
che dovevo uccidervi con urgenza
uno a uno, due a due, eccetera.

O cioè due: quando camminavo lassù, eroico,
calpestando le bruttissime rughe del satellite,
immaginai che così dev’essere la morte,
vale a dire il paesaggio della morte.

O cioè tre: quando ero su Selene,
passeggiando per il nulla come un imbecille,
provai il disgusto infinito dell’assenza dell’uomo
e mi son detto che cazzo sto facendo qui.

Qualcosa di simile deve aver confessato ai suoi capi
con la sua voce straniata di robot dissidente
e forse per questo i detentori del potere
rinviarono sine die i viaggi sulla Luna.


Windows 98

Antes del fax del modem y el e-mail
la vergüenza era sólo artesanal
la mecha se encendía con un fósforo
y uno escribía cartas como bulas.
Antes los besos iban a tu boca
hoy obedecen a una tecla send
mi corazón se acurruca en su software
y el mouse sale a buscar el disparate.
Cuando me enamoraba de una Venus
mis sentimientos no eran informáticos
pero ahora debo pedir permiso
hasta para escribir con el
News gothic
Te urjo amor que cambies de formato,
prefiero recibirte en
Times new roman
mas nada es comparable a aquel desnudo
que era tu signo en tiempos de la Remington.

Windows 98

Prima del fax, del modem e dell’e-mail
la vergogna era solo artigianale,
lo stoppino si accendeva con un fiammifero
e si scrivevano fogli come bolle.
Prima i baci andavano alla tua bocca,
oggi obbediscono a un tasto “Invia”,
il mio cuore si rannicchia nel suo software
e il mouse esce a cercare sciocchezze.
Quando mi innamoravo di una Venere
i miei sentimenti non erano informatici,
ma ora devo chiedere il permesso
persino per scrivere con il News gothic.
Ti imploro amore di cambiar formato,
preferisco riceverti in Times new roman,
ma niente è paragonabile a quello, nudo,
che era la tua impronta ai tempi della Remington.