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venerdì 8 marzo 2013

Prima liceo, tra sesso e rivoluzione

Il criterio che aveva portato una trentina di adolescenti sfigati nell'unica classe tutta maschile dell’Einstein era puramente geografico: venivamo tutti da fuori Milano, oppure dalle periferie allora ai margini della campagna, come il Vigentino, Rogoredo, via Mecenate. A peggiorare il nostro senso di esclusione, la 1°H era la sola classe ospitata in un’aula del seminterrato, di fronte all'infermeria e al bar e di fianco al garage dei professori. Una delle conseguenze più evidenti di questo isolamento, a parte l’indimenticabile aroma di caffè mescolato ai gas di scarico, era che ad ogni cambio di insegnante godevamo di un quarto d’ora di riposo logistico, il tempo necessario per essere raggiunti da un essere trafelato con il registro in mano, in provvisoria discesa nell'Averno, tutt'altro che facilis

Facevamo parte della generazione del baby-boom, e quella soluzione serviva a selezionare gli iscritti in funzione degli spazi disponibili. Il professor Papandrea, il preside, aveva già previsto una certa selezione naturale e indotta, con conseguente riduzione significativa dei promossi e smembramento finale della classe, con i sopravvissuti, i “più adatti”, distribuiti nelle altre sezioni indicate da lettere precedenti e più fortunate. Da anni, infatti, alla 1°H non seguiva mai una 2°H. 

Non ricordo i nomi dei professori di quella prima liceo scientifico dell’anno scolastico 1969-70, e di gran parte dei miei compagni di classe. Stranamente, ricordo soltanto il nome dell’insegnante di religione, don Virginio, un vecchio prete che aveva fatto come cappellano degli Alpini la campagna di Russia e ci parlava solo di quello, con dolore e rispetto per il nemico. Si sedeva sempre sopra un banco della prima fila, che i più dispettosi di noi provvedevano regolarmente a sporcare di gesso prima del suo ingresso. La prof di lettere era un’anziana signora, molto materna, che abitava sopra l'Upim di Piazzale Corvetto, quella di matematica era giovane e scheletrica, abbastanza insignificante. 

Erano ancora i tempi beati in cui l’anno scolastico incominciava ai primi di ottobre, ma c’erano la contestazione e l’autunno caldo, perciò le nostre vacanze estive furono in qualche modo prolungate da una lunga occupazione fino alla fine del mese. Ci fu un periodo di calma relativa in novembre, durante il quale gli scioperi avevano cadenza solo settimanale, interrotto in maniera tragica dalla bomba di Piazza Fontana. Così a fasi alterne, fino a metà maggio, quando anche i più politicizzati sentivano avvicinarsi gli scrutini finali. 

In quel primo anno agitato scoprii alcune cose delle quali alle medie, nel mio paesone sulla via Emilia, avevo solo vago sentore. Innanzitutto la città, luogo meraviglioso, caotico, rumoroso, futurista, che amavo scoprire poco alla volta e in aree sempre più lontane, come un esploratore curioso e un po’ intimorito. Con un certo brivido amavo andare alla Statale in via Festa del Perdono, luogo dei grandi, simbolo della mia crescita umana futura, dove spesso con qualche amico bigiavo le manifestazioni per mangiare i panzerotti o i panini con il wurstel e i crauti rossi nella vicina Piazza Santo Stefano. 


C’era poi la politica, nella sua declinazione contestataria, allegramente casinista, ingenua, come si addice a un movimento di giovani pieni di speranze, di illusioni sul futuro, ma anche di grandissime cazzate. I giovani di allora erano fortunati, sapevano di vivere meglio dei loro genitori, e credevano che questo progresso fosse un meccanismo ineluttabile della storia. A loro nessuno poteva togliere almeno la speranza. Per me, e per molti come me, quell’atmosfera di protesta continua, di stravolgimento dei tempi e dei luoghi stabiliti, che già si manifestava anche in forme violente, era, lo devo ammettere, un gran divertimento. La mia coscienza politica era quella di un ragazzino, cioè rasentava lo zero, e a nulla valeva la lettura di quei pallosissimi libretti rivoluzionari che allora circolavano e che quasi ti obbligavano a comprare davanti alle scuole. Sapevo che le nostre rivendicazioni contro l’autoritarismo e per il diritto allo studio erano giuste, e vedevo che in cambio avevamo gas lacrimogeni e stragi. Mi sentivo dalla parte della “rivoluzione”, della quale apprezzavo non certo la componente militare (i katanga del Movimento Studentesco mi facevano paura) ma quella più genuinamente libertaria, un po’ hippy, con molto rock, ma senza le droghe, che non sapevamo neanche che cosa fossero. E poi c’era il sesso, più immaginato che sperimentato. 


Già. Per i primini di una classe tutta maschile le manifestazioni erano anche le occasioni privilegiate di conoscere le ragazze. C’erano le prime esperienze con l’altro sesso, cose ridicole di fronte alla precocità priva di poesia dei tempi attuali: una passeggiata mano nella mano, il primo bacio con una di seconda, la piacevole sensazione di un seno toccato attraverso il maglione. Fu un formidabile connubio di impegno e cuccamento, di slogan truculenti e di minigonne. Aveva ragione Gilles Deleuze a dire che non c’è rivoluzione senza investimento libidinale: eros e rivoluzione camminavano anche loro per mano. Penso che la sinistra in Italia abbia perso gran parte del suo fascino per i giovani proprio perché è passata l’idea che a destra si scopa di più. 


Alla fine dell’anno scolastico della 1°H dell’Einstein fummo promossi in una quindicina, da suddividere nelle tre seconde delle sezioni che facevano inglese. Pochi giorni dopo l’esposizione dei cartelloni, i miei genitori furono convocati da Papandrea per il sorteggio e tornarono con la notizia che ero finito nella B, uno delle sezioni più prestigiose e, last but not least, collocata in un lungo corridoio del primo piano. Sapevo che, nella seconda, le ragazze sarebbero state circa il doppio dei ragazzi: il futuro sembrava promettente, in quell'estate di Rare Bird e Mungo Jerry. Ancora non conoscevo lei, la Pallade Atena del Liceo, l’algida vergine della matematica: avrei incontrato la professoressa Ines Furlan una volta giunto in terza, ma questa è una storia diversa e ve la racconterò un’altra volta.