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giovedì 7 marzo 2024

Beppo Levi, tra Torino, gli Appennini e le Ande

 


Beppo Levi (1875-1961) è stato un matematico autore di articoli su logica, equazioni differenziali, variabili complesse, sul confine tra analisi e fisica.

La famiglia di Beppo Levi era ebrea, e Beppo era il quarto di dieci figli. Il padre, Giulio Giacomo Levi, esercitava la professione di avvocato, ma fu anche autore di diversi libri su questioni politiche e sociali in cui manifestava le sue idee liberali messe in discussione dal nascente socialismo.

Studiò matematica all'Università di Torino, iniziando gli studi nel 1892. Frequentò i corsi tenuti da Corrado Segre, Enrico D'Ovidio e Giuseppe Peano, e questi matematici ebbero una grande influenza su di lui. Per tutti conservò un profondo affetto per il resto della sua vita.

Ebbe come maestri anche Vito Volterra e Mario Pieri. Corrado Segre, che aveva studiato a Torino con D'Ovidio, era stato nominato nel capoluogo piemontese alla cattedra di Geometria Superiore nel 1888. Divenne relatore della tesi di Levi,. Studió “...la varietà delle secanti delle curve algebriche, in vista dello studio delle singolarità delle curve spaziali”. Sono del 1897 e del 1898 una sua ampia memoria pubblicata dall'Accademia delle Scienze di Torino «Sulla varietà delle corde di una curva algebrica» e alcune note dei Rendiconti dei Lincei, in cui fra l'altro viene dimostrata la possibilità di mutare una data curva algebrica sghemba in un'altra priva di singolarità puntuali per mezzo di trasformazioni birazionali dello spazio e viene studiata la riduzione delle singolarità di una superficie algebrica mediante successive trasformazioni quadratiche. Ancora giovanissimo, Beppo Levi conquistò così un posto d'onore nel campo della geometria algebrica.

Negli ultimi tre anni di studio all'Università di Torino, Levi era sostenuto da una borsa di studio. Laureatosi nel luglio 1896, Levi fu nominato assistente di Luigi Berzolari a Torino e mantenne questo incarico fino al 1899. Suo padre era morto nel 1898 e questo diede a Levi la responsabilità di capofamiglia (era il figlio maggiore superstite). Per mantenere se stesso e gli altri membri della famiglia, assunse diversi incarichi di insegnante nelle scuole superiori. Insegnò prima a Sassari, poi a Bari, passando poi a Vercelli prima di insegnare in Emilia-Romagna, prima a Bobbio poi a Piacenza. Alcuni di questi incarichi lo portavano lontano dalla sua famiglia, cosa che lo angosciava e cercava di trovare lavoro più vicino alla sua città natale. Ritornò a Torino, dove insegnò all'Istituto Tecnico fino al 1906 quando il suo incarico venne reso permanente.

Durante questi sette anni come insegnante, Levi aveva tentato di ottenere diversi incarichi universitari ma senza riuscirci. Nel 1901, ad esempio, partecipò al concorso per la cattedra dell'Università di Torino indetto da Luigi Berzolari. In questa competizione arrivò terzo: il posto andò a Gino Fano.

Nel 1906 vinse il concorso per la nomina a professore di Geometria descrittiva e proiettiva all'Università di Cagliari. Mentre era sull’isola, Levi realizzò un lavoro eccezionale sull'aritmetica delle curve ellittiche che pubblicò in quattro articoli intitolati “Saggio per una teoria aritmetica delle forme cubiche ternarie” (un articolo nel 1906 e tre nel 1908). Riferì di questo lavoro nella conferenza “Sull'equazione indeterminata del terzo ordine” al Congresso Internazionale dei Matematici di Roma nel 1908. Rimase a Cagliari, insegnando geometria analitica, per quattro anni finché fu chiamato alla cattedra di analisi algebrica presso l'Università di Parma nel 1910. Mentre era a Cagliari, Levi aveva sposato Albina Bachi di Torre Pellice in Piemonte. Albina, come Levi, era ebrea; ebbero tre figli, Giulio, Laura ed Emilia. Anche se per Albina “...Cagliari era una località esotica; per lui era troppo lontano dalla sua famiglia”.

L'anno in cui Levi lasciò Cagliari era stato promosso a professore ordinario, ma era così ansioso di andarsene che era pronto ad accettare un posto inferiore a Parma, in un'università che non aveva il corso di matematica. Mario Pieri, però, che era stato uno dei maestri di Levi a Torino, era a Parma e desiderava che il suo ex allievo lo raggiungesse lì. Una volta a Parma (dal 1910), Pieri divenne l'amico più intimo di Levi. Trascorse diciotto anni a Parma impegnandosi notevolmente nello sviluppo scientifico dell'Università con una serie di politiche che produssero ottimi risultati. Levi occupò, oltre alla cattedra di Analisi algebrica, anche quella di Geometria analitica e, per un anno, anche quella di Fisica matematica. Ciò significava che il suo carico di lavoro era estremamente pesante. Tuttavia fece sforzi strenui per far sì che il corso di laurea in matematica si stabilisse a Parma e ottenne l'approvazione del rettore per tale scopo. Purtroppo, lo scoppio della prima guerra mondiale e l'entrata in conflitto dell'Italia nell'aprile 1915, impedirono la realizzazione dei piani di Levi. La guerra vide una tragedia colpire la famiglia Levi, poiché i suoi due fratelli Decio ed Eugenio furono entrambi uccisi in azione nel 1917.

Dopo la fine della guerra, Levi rinnovò i suoi sforzi per ottenere il corso di matematica a Parma. La sua posizione si rafforzò quando divenne presidente della Facoltà di Scienze. Tuttavia, negli anni '20, la situazione politica in Italia cominciò a rendere il suo lavoro sempre più difficile, incidendo seriamente sui suoi tentativi di migliorare lo status di Parma. Giovanni Gentile, professore di storia della filosofia all'Università di Roma nel 1917, divenne ministro dell'istruzione nel governo fascista italiano nel 1922 e nei due anni successivi portò avanti importanti riforme dell’istruzione. Gentile organizzò nel marzo 1925 a Bologna il primo Congresso delle Istituzioni Culturali Fasciste che portò in aprile al "manifesto Gentile" che cercava l'appoggio degli intellettuali al fascismo. Due matematici, Corrado Gini e Salvatore Pincherle, appoggiarono il manifesto mentre altri redassero un contro-manifesto sostenendo l'indipendenza degli intellettuali dalle interferenze politiche. Levi firmò il contromanifesto, così come Leonida Tonelli, Vito Volterra, Guido Castelnuovo, Tullio Levi-Civita e Francesco Severi. Tuttavia, le riforme fasciste continuarono, portando alla chiusura del corso di matematica presso l'Università di Parma. Tutti i matematici se ne andarono tranne Levi, che divenne professore di matematica speciale e preside della scuola di chimica. Nel 1928, però, nell'ambito della riforma fascista venne chiusa anche la scuola di chimica di Parma.

Nonostante queste estreme difficoltà, gli anni di Levi a Parma furono quelli in cui aveva ampliato la già ampia gamma dei suoi campi di ricerca. Prima di recarsi a Parma aveva già pubblicato oltre quaranta articoli su argomenti che spaziavano dalla geometria algebrica alla logica, lavorando in particolare sull'assioma della scelta.

Aveva studiato inoltre la teoria dell'integrazione, le equazioni differenziali alle derivate parziali e il principio di Dirichlet, producendo il "teorema di Beppo Levi", o della convergenza monotona di sequenze di funzioni misurabili, che permette di passare con il limite dentro il segno di integrale quando la successione di funzioni integrate è puntualmente crescente. Il teorema implica in particolare che possiamo calcolare l’integrale di una funzione positiva e misurabile come limite di una successione crescente di integrali di funzioni semplici. Quindi non solo come estremo superiore di integrali di funzioni semplici dominati da f. Data una funzione misurabile positiva, esiste sempre una successione crescente di funzioni semplici che converge a f.


Levi si interessò anche di storia della scienza e di fisica: in quest'ultimo ambito, è da ricordare, in particolare, la sua breve monografia
Nuove teorie della meccanica quantistica e le loro relazioni con l'analisi matematica (1926). A questa già ampia gamma di lavori, aggiunse contributi ad argomenti come la teoria dei numeri, l'ingegneria elettrica, la teoria delle misurazioni fisiche e la fisica teorica. Nel 1928 lasciò Parma e passò alla cattedra di teoria delle funzioni dell'Università di Bologna, dove ebbe un oneroso carico didattico e amministrativo, ma continuò a intraprendere la ricerca con le stesse passioni che aveva coltivato per tutta la vita. Scrisse articoli sulla logica, sulle equazioni differenziali, sulle variabili complesse, nonché sul confine tra analisi e fisica. Ebbe anche un ruolo significativo nella Unione Matematica Italiana come redattore del Bollettino dell'Unione Matematica Italiana e direttore dal 1931 al 1938. Per molti versi le cose andarono bene per Levi a Bologna: sua figlia Laura iniziò il dottorato in fisica, ebbe ottimi rapporti con Salvatore Pincherle, allora in pensione ma ancora attivo, e nel 1935 fu eletto alla Reale Accademia dei Lincei.

Nonostante il suo odio per il fascismo, Levi aveva firmato il "giuramento al fascismo" nel 1931 insieme a circa 1200 altri matematici (solo undici si rifiutarono di firmare). Forse anche per questo, per diversi anni poté svolgere le sue funzioni a Bologna con poche interferenze politiche. La situazione cambiò radicalmente nel luglio 1938 quando, sotto la pressione di Hitler, Mussolini presentò il Manifesto della Razza. Questa legge era totalmente antisemita, togliendo la cittadinanza italiana agli ebrei e vietando loro di lavorare nel campo dell’istruzione, del governo e delle banche. Ciò provocò la destituzione di Levi dal suo incarico a Bologna nel 1938. Aveva preso contatti con diversi matematici argentini attraverso il suo lavoro di redattore del Bollettino e, nonostante avesse sessantatré anni, iniziò subito a cercare di negoziare un trasferimento in Argentina. Cortés Plá invitò Levi a dirigere l'istituto di matematica recentemente fondato presso l'Università del Litoral di Rosario. Nell'ottobre del 1939 Levi, con la moglie e le due figlie, lasciò l'Italia ed emigrò in Argentina. In questo periodo emigrò in Palestina il figlio Giulio, che era biologo. Sorprendentemente, sebbene Levi avesse 64 anni quando assunse l'incarico di professore e direttore dell'Istituto di Rosario, poté continuare a insegnare, intraprendere ricerche e svolgere compiti amministrativi per altri 20 anni. Oltre a tenere corsi di analisi, geometria e meccanica razionale, fu molto attivo nella ricerca, pubblicando circa un terzo dei suoi lavori in spagnolo. Fondò la rivista Mathematicae Notae, la collana Publicaciones del Instituto de matemáticas e la serie di libri Monografias. Pubblicò “Sistemas de ecuaciones analiticas en terminos finitos, diferenciales y en derivadas parciales" (1944), un’esposizione scritta in modo chiaro dei teoremi fondamentali dell’esistenza dei sistemi di equazioni differenziali alle derivate parziali analitiche, insieme al necessario materiale preliminare sulle funzioni implicite e sulle equazioni differenziali ordinarie.

Nel 1947 Levi pubblicò “Leyendo a Euclides” (Leggere Euclide).LM Blumenthal scrive in una recensione:

“Questo simpatico libricino registra in modo informale alcuni pensieri di un matematico scaturiti dalla lettura degli 'Elementi' di Euclide. Sebbene l’autore neghi qualsiasi intenzione di scrivere uno studio storico serio o una critica moderna di Euclide, nel libro c’è molto di entrambi”

Nel 1956 Levi ricevette il Premio Antonio Feltrinelli dell'Accademia dei Lincei.

A Levi era stata offerta la possibilità di tornare alla sua cattedra a Bologna dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma scelse di restare in Argentina. Levi e sua moglie Albina fecero molte visite in Italia dopo essere emigrati in Argentina, e fu in Italia che Albina morì nel 1951. Morì a Rosario all'età di 86 anni e lì fu sepolto nel cimitero ebraico.

domenica 4 giugno 2023

La Madonna del Manganello

 


Una delle rappresentazioni più diffuse in epoca tardo medievale e moderna della Madonna del Soccorso è stata quella in cui la Vergine, armata di un bastone, allontana il Diavolo per proteggere un bambino.

Una delle prime opere dedicate a questa raffigurazione della Vergine è quella del folignate Nicolò di Liberatore detto l’Alunno (1430-1502), conservata presso la Galleria di Palazzo Colonna a Roma. Al centro del dipinto, la Vergine compare in cielo con un lungo bastone, che minaccia un diavolo sulla destra che sta portando via un pargoletto dalle mani della madre disperata sulla sinistra.


Al museo di San Francesco a Montefalco, in Umbria, si può vedere un esempio ancor più famoso, il quadro del 1509 di Tiberio d’Assisi in cui la Vergine con il bastone nel braccio destro alzato, con la mano sinistra tiene per mano un bambino che cerca spaventato di sfuggire alle grinfie del diavolo e di salire sull’abito della Madonna. 
Da un lato del dipinto si vede una donna in ginocchio che prega Maria. È la madre del bambino, che chiede disperatamente aiuto.

La tradizione narra che la madre, stanca per la mancanza di obbedienza del figlio, in un momento di esasperazione chiese al diavolo di portarselo via, e il diavolo si presentò immediatamente per esaudire la richiesta.

Disperata, vedendo il grande errore che aveva commesso e il figlio distrutto dalla paura, la madre, sapendo che l’anima del bambino era in grave pericolo perché non era ancora stato battezzato, pregò la Vergine. La Madonna venne subito a soccorrerla, e prese a bastonate l’orribile creatura infernale.


Questa storia e il tipo di iconografia dell’opera erano molto diffusi nel centro e nel sud Italia. Essa serviva a scoraggiare la pratica del Battesimo tardivo, un tema che preoccupava molto l’Ordine degli Agostiniani. Molti dipinti, come quello della Madonna del Soccorso di Montefalco, provengono infatti da chiese agostiniane.

Ancor più nota divenne l’immagine della grande pala d’altare risalente al 1642 attribuita al pittore toscano Andrea Piccinelli, detto il Brescianino, realizzata per la chiesa di San Biagio di Avigliano (PZ). Durante il ventennio fascista questa rappresentazione iconografica venne ripresa dagli organi del PNF che, per evidenti motivi, la elessero patrona degli squadristi e poi protettrice dei fascisti, con il nome di Madonna del Manganello. L’opera originale, in cui la vergine è circondata dai santi Biagio e Cataldo, è andata perduta dopo la guerra ed è nota solo grazie a una riproduzione fotografica in un testo del 1929.


In molti santuari dell’Italia meridionale la Madonna del Soccorso è rappresentata nelle statue, alcune molto ingenue, altre di buona fattura. La più famosa fu la Madonna del Manganello realizzata da Giuseppe Malecore (1876-1967), uno scultore di Lecce specializzato nella lavorazione della cartapesta, come arredo sacro per una chiesa non parrocchiale di Monteleone, dal 1928 diventata Vibo Valentia. La statua, del 1936, rappresentava una Madonna con bambino, nella tipica iconografia della Madonna del Soccorso che, mentre nella mano sinistra sorregge il figlio Gesù, con la destra solleva un bastone che è diventato un manganello nodoso. Ai piedi della donna si trova un secondo bambino in piedi. La statua è realizzata in cartapesta colorata, e anche dalla fotografia di questa rappresentazione furono tratte in seguito alcune serie di santini.

Sul retro di tali santini era spesso riprodotto lo stornello Il Santo Manganello, ideato dal bresciano Asvero Gravelli (1902-1956), sansepolcrista, squadrista, volontario della guerra d’Etiopia e fondatore di diverse riviste del regime e, amnistiato dopo la guerra, militante del MSI fino alla morte. Ecco l’infame testo:

«O tu santo Manganello
tu patrono saggio e austero,
più che bomba e che coltello
coi nemici sei severo.
O tu santo Manganello
Di nodosa quercia figlio
ver miracolo opri ognor,
se nell'ora del periglio
batti i vili e gli impostor.
Manganello, Manganello,
che rischiari ogni cervello,
sempre tu sarai sol quello
che il fascista adorerà.»

La Chiesa Cattolica non riconobbe mai ufficialmente tali immagini, ma, nel clima di concordia successivo ai Patti Lateranensi, tollerò questo uso improprio di un’immagine sacra, in fondo apprezzato dall’Uomo della Provvidenza.

domenica 2 dicembre 2018

Decreto Sicurezza



Il Decreto Sicurezza è la negazione dei valori democratici, dei valori costituzionali, di quelli cristiani tanto declamati. È un provvedimento fascista, contro il quale è necessaria una mobilitazione nelle forme più svariate. Chi non si schiera è complice di questo abominio.

venerdì 29 maggio 2015

Il contratto per i lavori di costruzione di Auschwitz III

"Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione. È costituito da sessanta baracche in legno, che qui chiamano Blocks, di cui una decina in costruzione; a queste vanno aggiunti il corpo delle cucine, che è in muratura; una fattoria sperimentale, gestita da un distaccamento di Häftlinge [= prigionieri, internati] privilegiati; le baracche delle docce e delle latrine, in numero di una per ogni gruppo di sei od otto Blocks. Di più, alcuni Blocks sono adibiti a scopi particolari. Innanzitutto, un gruppo di otto, all’estremità est del campo, costituisce l’infermeria e l’ambulatorio; v’è poi il Block 24 che è il Krätzeblock, riservato agli scabbiosi; il Block 7, in cui nessun comune Häftlinge è mai entrato, riservato alla Prominenz, cioè all’aristocrazia, agli internati che ricoprono le cariche supreme; il Block 47, riservato ai Reichsdeutsche (gli ariani tedeschi, politici o criminali); il Block 49, per soli Kapos; il Block 12, una metà del quale, ad uso dei Reichsdeutsche e Kapos, funge da Kantine, cioè da distributorio di tabacco, polvere insetticida, e occasionalmente altri articoli; il Block 37, che contiene la Fureria centrale e l’Ufficio del lavoro; e infine il Block 29, che ha le finestre sempre chiuse perché è il Frauenblock, il postribolo del campo, servito da ragazze Häftlinge polacche, e riservato ai Reichsdeutsche.
I comuni Blocks di abitazione (baracche) sono divisi in due locali; in uno (Tagesraum) vive il capobaracca con i suoi amici: v’è un lungo tavolo, sedie, panche; ovunque una quantità di strani oggetti dai colori vivaci, fotografie, ritagli di riviste, disegni, fiori finti, soprammobili; sulle pareti, grandi scritte, proverbi e poesiole inneggianti all’ordine, alla disciplina, all’igiene; in un angolo, una vetrina con gli attrezzi del Blockfrisör (barbiere autorizzato), i mestoli per distribuire la zuppa e due nerbi di gomma, quello pieno e quello vuoto, per mantenere la disciplina medesima.

L’altro locale è il dormitorio; non vi sono che centoquarantotto cuccette a tre piani, disposte fittamente, come celle di alveare, in modo da utilizzare senza residui tutta la cubatura del vano, fino al tetto, e divise da tre corridoi; qui vivono i comuni Häftlinge, in numero di duecento-duecentocinquanta per baracca, due quindi in buona parte delle cuccette, le quali sono di tavole di legno mobili, provviste di un sottile sacco a paglia e di due coperte ciascuna. I corridoi di disimpegno sono così stretti che a stento ci si passa in due; la superficie totale di pavimento è così poca che gli abitanti di uno stesso Block non vi possono soggiornare tutti contemporaneamente se almeno la metà non sono coricati nelle cuccette. Di qui il divieto di entrare in un Block a cui non si appartiene.
In mezzo al Lager c’è la piazza dell’Appello, vastissima, dove ci si raduna al mattino per costituire le squadre di lavoro, e alla sera per venire contati. Di fronte alla piazza dell’Appello c’è una aiuola dall’erba accuratamente rasa, dove si montano le forche quando occorre." (P. Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi, 1983)

L’organizzatissima struttura di lavoro coatto e di morte descritta da Primo Levi, deportato in quell’inferno nel 1944, è Auschwitz III, il campo satellite, situato a circa 7 chilometri da lager principale, vicino alla sede dell’insediamento industriale di Buna a Monowice, in cui si utilizzavano i prigionieri come schiavi per la costruzione di uno stabilimento per la produzione della gomma sintetica.
“Noi siamo a Monowitz, vicino ad Auschwitz, in Alta Slesia: una regione abitata promiscuamente da tedeschi e polacchi. Questo campo è un campo di lavoro, in tedesco si dice Arbeitslager; tutti i prigionieri (sono circa diecimila) lavorano ad una fabbrica di gomma che si chiama la Buna, perciò il campo stesso si chiama Buna.”
Buna era l’acronimo di Butadien-Natrium-Prozess, cioè il procedimento che aveva portato nel 1937-38 alla prima sintesi industriale del polibutadiene mediante la polimerizzazione anionica con il sodio come iniziatore radicalico e aveva consentito di produrre una gomma sintetica strutturalmente analoga a quella naturale. 


L’insediamento industriale, in allestimento dall’ottobre 1942, era stato voluto dal potentissimo e nazistissimo conglomerato chimico I.G. Farben, per poter trarre vantaggio dal costo del lavoro quasi nullo e dalle vicine miniere di carbone slesiane. La società aveva investito nell’impresa enormi capitali. Si trattava della più grande fabbrica chimica in costruzione all'epoca.
“La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri, e vi si parlano quindici o venti linguaggi. Tutti gli stranieri abitano in vari Lager, che alla buna fanno corona: il Lager dei prigionieri di guerra inglesi, il lager delle donne ucraine, il Lager dei francesi volontari, e altri che noi non conosciamo. Il nostro Lager (Judenlager, Vernichtungslager, Kazett) fornisce da solo diecimila lavoratori, che vengono da tutte le nazioni d’Europa; e noi siamo gli schiavi degli schiavi, a cui tutti possono comandare, e il nostro nome è il numero che portiamo tatuato sul braccio e cucito sul petto”.
Le condizioni disumane di vita e lavoro per la costruzione e l’allestimento dell’impianto costarono la vita a un numero di deportati superiore ai 10 mila su un totale di circa 35 mila addetti, anche se la Buna Werke non entrò mai in produzione:
“Come diremo, dalla fabbrica di Buma, attorno a cui per quattro anni i tedeschi si adoperarono, e in cui noi soffrimmo e morimmo innumerevoli, non uscì mai un chilogrammo di gomma sintetica”.
Infatti il sito fu pesantemente bombardato più volte nel 1944 e le contingenze militari per il Reich si fecero sempre più sfavorevoli. Il campo fu liberato dall’Armata Rossa (non dagli americani, Benigni!) il 27 gennaio 1945, dopo che l’evacuazione forzata degli internati nel gelo aveva provocato altre migliaia di vittime.


Il massacro fu tutta colpa dei tedeschi? Gli italiani “brava gente” erano del tutto ignari di ciò che si stava realizzando a Buna? Il fascismo non ebbe responsabilità dirette e indirette nella Shoah? No di sicuro, e possiamo portare una piccola ulteriore prova del coinvolgimento italiano nell’olocausto già prima della caduta del fascismo del 25 luglio 1943 e della nascita successiva della asservita e collaborazionista Repubblica Sociale Italiana.

L’amico americano John F. Ptak, che si schermisce quando lo definisco “il miglior libraio scientifico esistente” ha pubblicato infatti tempo fa sul suo sito un articolo riguardante un fascicoletto di fogli in carta sottile intitolato Contratto per l’esecuzione di lavori di costruzione in partecipazione con imprese germaniche, nei cantieri di Heydebrek, Blechhammer e Auschwitz. L’atto fu stipulato nel marzo 1942 tra la I.G. Farben e la Confederazione Fascista degli Industriali per i lavori di edificazione dell’impianto di Buna così come di altre vicine strutture industriali a Heydebrek e Blechhammer (dove si dovevano costruire stabilimenti di gruppi come AEG, Uhde e Dyckerhoff). Il contratto fu pubblicato dalla Tipografia del Gianicolo di Roma per conto della Confederazione Fascista degli Industriali, Federazione Nazionale Fascista, Raggruppamento Germania. Il documento consta di 29 pagine, con fogli approssimativamente della dimensione A4. Dopo la guerra fu acquisito dalla Libreria del Congresso (che la ricevette il 12 luglio 1945), e successivamente venduto a John alla fine del 1999.

Una delle cose che più colpisce il lettore è il modo in cui vengono descritti con fredda precisione sia gli impianti industriali sia i campi dei prigionieri e le strutture per lo sterminio di massa. Dietro quelle righe anodine c’è l’orrore di uno dei crimini più grandi commessi dall’uomo sull’uomo, assurto forse alla rappresentazione stessa del Male. Il contratto elenca il numero degli addetti tedeschi e italiani, tecnici e operai non internati, descrive i loro alloggiamenti, il loro salario, gli incentivi, le pause, i periodi di riposo e di vacanza, le assicurazioni, il trattamento delle malattie e degli infortuni, ecc. e tutti i consueti particolari del lavoro in un grande progetto industriale. Morte e lavoro trattati con lo stesso burocratico scrupolo.

In calce compaiono i nomi dei firmatari dell’accordo per ciascuna delle parti: 
A) per IG Farbenindustrie AG, Heydebreck, Heydebreck OS: Adolf Mueller e (Hans) Deichmann. Quest’ultimo fu il legale rappresentante della IG Farben per l’Italia tra il 1942 e il 1945. Nel 1942 era incaricato di reclutare gli operai italiani per la costruzione dei campi di lavoro indicati; 
B) per Oberschleische Hydrierwerke AG, Blechhammer, Kreis-Consei: Schlick
C) per IG Farbenindustrie AGl Auschwitz, Auschwitz OS: Adolf Mueller e (Hans) Deichman.

Le firme dei rappresentanti italiani per la Confederazione Fascista degli Industriali sono quelle di Aurelio Aureli (presidente) e Giacomo Milella (direttore). L’ingegner Aurelio Aureli (1896-1950), il mese successivo alla firma del contratto con i tedeschi, il 23 aprile 1942, fu nominato Cavaliere del Lavoro (Brevetto n. 1162). La sua scheda sul sito della Federazione Nazionale dei Cavalieri del Lavoro recita che:
“Laureatosi in ingegneria, fondò una sua ditta di costruzioni. Realizzò numerose opere in molte altre città italiane e a Roma, dove in particolare costruì il ponte Duca d'Aosta sul Tevere, uno dei più conosciuti della capitale. Alla grande capacità progettuale e alla competenza tecnica univa grandi doti di organizzatore. Ricoprì numerosi incarichi, fra i quali quello di presidente dell'Istituto case popolari e di presidente della Federazione nazionale fascista costruttori. In quest'ultima veste rappresentò varie volte il governo italiano e firmò alcuni protocolli d'intesa (…) Per favorire lo sviluppo delle conoscenze tecniche nel settore, fondò l'Istituto di studi e sperimentazione dell'industria edilizia, di cui fu per molti anni presidente”.
Un pezzo grosso del regime, insomma, specializzato nella costruzione di ponti (ne aveva costruiti anche a Siracusa e a Parma), pontiere anche negli accordi internazionali con altre potenze dell’Asse per la costruzione di opere edili (in Bulgaria, Albania, nella Grecia occupata dai nazisti). Era dotato di indubbie capacità organizzative, visto che seppe coinvolgere nel progetto di Buna imprese e lavoratori di tutta Italia, come risulta dalle pagine del contratto. In quell’impresa maledetta, con decine di migliaia di altri disgraziati, sarebbe stato coinvolto suo malgrado anche Primo Levi.






mercoledì 15 aprile 2015

Il convegno che mai si fece (Schouten, Cartan e Levi Civita)

Una delle manifestazioni culturali di punta promosse ogni anno dal regime fascista era il Convegno Volta, la cui prima edizione si tenne nel 1931 e che, ad anni alterni, si occupava di scienza. Al consesso, organizzato dall'Accademia d'Italia e programmato nel mese di ottobre, erano invitati scienziati italiani e stranieri tra i più prestigiosi nella loro disciplina. La prima edizione, che sanciva i progressi della fisica nucleare italiana, fu organizzata da Enrico Fermi e vide la partecipazione, tra gli altri, di Niels Bohr, Guglielmo Marconi, Marie Curie. Fu in quell'occasione che si risolse la confusione terminologica riguardante le particelle neutre, assegnando il termine neutrone alla sola particella neutra presente nel nucleo, mentre per quella più piccola ed evanescente Fermi propose il nome neutrino

Il Convegno Volta del 1938, dedicato all'Africa per celebrare i recenti fasti imperiali dell'Italia, si svolse subito dopo l'introduzione delle prime leggi razziali, quelle che il 5 settembre 1938 avevano decretato l’espulsione degli studenti ebrei dalle scuole italiane e la sospensione dal servizio di tutti gli insegnanti e dei liberi docenti ebrei. In realtà sul Convegno non vi furono effetti sostanziali derivanti dalla discriminazione per il semplice motivo che nessuno scienziato ebreo doveva partecipare. 

Nei primi mesi del 1939 si incominciò a organizzare il IX convegno, che doveva essere dedicato a un tema matematico, la geometria differenziale. Incominciarono a partire i primi inviti agli scienziati stranieri, naturalmente dopo aver verificato attentamente che non fossero membri della "razza ebraica". Destò ad esempio qualche dubbio il francese Cartan, che si chiamava Élie, ma si accertò che il nome giudaico era solo una coincidenza.  

Le risposte all'invito, diverse in base alle idee, al carattere e alla sensibilità degli invitati, furono varie. Il matematico olandese Jan Arnoldus Schouten (1883 - 1971), specialista di geometria differenziale e di calcolo tensoriale, professore a Delft, non usò mezze misure per far capire agli organizzatori che era stato un errore invitarlo: 
"Signori, non ho potuto rispondere immediatamente all'amichevole invito dell'Accademia Reale d'Italia a partecipare al Convegno Volta del 1939 perché volevo prima sapere se sarebbero stati invitati gli scienziati ebrei italiani e stranieri. Ho pertanto scritto personalmente al professor Severi. La sua risposta non lascia sfortunatamente alcun dubbio al riguardo. Mi vedo pertanto costretto a rifiutare il vostro amichevole invito. Vi invito tuttavia a non considerare questo rifiuto come un atto contro l'Italia: ho il più grande rispetto per la scienza italiana e i sentimenti più amichevoli per i colleghi italiani. Mi è però impossibile partecipare a un congresso sulla geometria differenziale dal quale saranno esclusi, per questioni razziali, degli intellettuali italiani e stranieri quali Tullio Levi Civita, Guido Fubini, Beniamino Segre, D. van Dantzig e Ludwig Berwald". 
La seconda risposta che qui ci interessa arrivò dalla Francia, da uno dei più grandi specialisti transalpini di geometria differenziale e di teoria dei gruppi di Lie: Élie Cartan (1869 - 1951). Con Schouten aveva pubblicato diversi articoli, e conosceva la lettera dell'olandese, che lo aveva inserito tra i destinatari per conoscenza. Dopo un po' di tempo decise di partecipare al Convegno, scrivendo al fascista Severi, unico matematico nell'Accademia d'Italia. Non è un caso che si rivolgesse direttamente a lui, perché i due si erano incontrati più volte. Insieme ad esempio avevano fatto parte della commissione che aveva assegnato le prime due medaglie Fields al Congresso di Oslo del 1936 (a Levi Civita era stata vietata la partecipazione per un’intervista rilasciata negli Stati Uniti che velatamente criticava il regime). 
"Ho l'onore di accusare il ricevimento dell'invito che mi avete fatto avere di partecipare al IX Convegno Volta che avrà luogo a Roma il prossimo ottobre. Sono molto onorato di questo invito e vi ringrazio. Parteciperò senza dubbio a questa manifestazione, salvo eventi imprevisti, e mi farà sicuramente molto piacere passare qualche giorno con i colleghi matematici di Roma". 
Non si trattava, come vedremo, di condivisione da parte di Cartan delle leggi razziali. La lettera del francese nascondeva in realtà un desiderio: poter incontrare Tullio Levi Civita. L'anno precedente l'italiano aveva inviato al francese un suo articolo, e Cartan gli aveva risposto con una lettera piuttosto lunga e più personale di quanto fosse sua abitudine scrivere. Eccone un brano: 
"Fubini, che ho visto recentemente [il matematico italiano di origine ebraica era transitato da Parigi prima di recarsi esule negli Stati Uniti], mi ha detto di numerosi nostri amici matematici italiani. È inutile dirvi quali siano i miei sentimenti. Spero che la signora Levi Civita e voi siate in buona salute e abbiate approfittato delle vacanze". 
Levi Civita, che aveva letto la lettera di Schouten perché era il secondo destinatario per conoscenza, rispose a Cartan dicendo: 
"[A voi vadano] Tutti i miei ringraziamenti per la simpatia che mi esprimete a seguito delle recenti manifestazioni antisemite. Fino ad ora non so nulla di ufficiale, ma ho già saputo abbastanza, o direi piuttosto troppo, dai giornali". 
Il IX Convegno Volta alla fine non si fece, perché il primo settembre era scoppiata la guerra e molti invitati dei paesi belligeranti erano impossibilitati a partecipare. Levi Civita morì alla fine del '41, ignorato dal mondo accademico italiano. La notizia della sua morte raggiunse Parigi solo nel luglio del 1942. Poiché era membro dell'Accademia di Francia, si decise di commemorarlo il 18 settembre, con un ricordo scritto proprio da Cartan. Anche in Francia erano entrate in vigore le leggi razziali, ma un ebreo morto si poteva pur ricordarlo: 
"Ma ciò che ha permesso alla fama del nostro confratello di uscire dal cerchio degli specialisti è il ruolo che ha giocato nella storia del calcolo differenziale assoluto, sono le numerose applicazioni che ne ha ottenuto". 
Dopo la guerra fu ritrovato il testo dell'intervento di Cartan previsto per il Convegno Volta: nell'introduzione era pieno di elogi per i lavori di Levi Civita.

Riferimento:

sabato 11 aprile 2015

I matematici italiani e le leggi razziali


Le premesse della discriminazione degli ebrei in Italia c'erano già tutte, soprattutto dopo le feroci campagne di stampa denigratorie organizzate a partire dal 1933 da giornalisti legati al regime fascista come Telesio Interlandi o da uomini di potere come Roberto Farinacci, eppure il Duce in persona, ancora nel febbraio 1938, dichiarava su L'informazione diplomatica che il governo non avrebbe preso misure di alcun tipo contro i cittadini di religione ebraica. Ma il legame sempre più stretto con la Germania nazista, culminato nella visita a Roma di Hitler nel mese di maggio e nella sigla l'anno successivo del Patto d'Acciaio, fecero in pochi mesi precipitare la situazione in direzione della catastrofe.

Il 24 giugno Mussolini ricevette il giovane antropologo Guido Landra, illustrandogli la propria nuova posizione circa la questione razziale, e ordinando di creare un Ufficio Studi sulla razza, con l’obiettivo di mettere a punto in pochi mesi “i punti fondamentali per iniziare la campagna razziale in Italia”. Landra si mise all’opera e, attenendosi alle direttive del Duce, redasse un decalogo destinato a essere diffuso. In seguito, Landra fu incaricato di riunire un comitato di dieci "studiosi" ideologicamente allineati, i quali accettarono di figurare come firmatari del documento.

Il 14 luglio 1938 fu pubblicato su Il Giornale d'Italia e altri organi di stampa il Manifesto degli Scienziati Razzisti, fondamento ideologico dell'antisemitismo. Il documento sosteneva l'esistenza delle razze umane e, al capitolo 9, dichiarava che :
GLI EBREI NON APPARTENGONO ALLA RAZZA ITALIANA. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.
Inizialmente firmato dai dieci scienziati fascisti contattati da Landra (medici, zoologi e antropologi), il Manifesto ricevette nei giorni successivi l'adesione di altri 180 scienziati e di 140 intellettuali e uomini di cultura, fascisti e anche cattolici.

Proprio La difesa della razza si intitolava la rivista quindicinale che vide la luce il 5 agosto successivo, con una copertina che mostrava un gladio romano che separava la pura razza italica da quella giudaica e da quella africana. Diretta da Interlandi e con segretario di redazione un giovane Giorgio Almirante, la rivista, nei suoi cinque anni di vita, ospitò vari articoli di divulgazione pseudoscientifica, firmati dai fascistissimi luminari del Manifesto, ma anche da alcuni insospettabili alla luce della loro successiva carriera. Nel primo numero, si potevano leggere bestialità come queste:

 
La campagna ideologica per il razzismo precedette di poco i primi provvedimenti di legge. Con il regio decreto del 5 settembre 1938 si disponeva l’espulsione immediata di tutti gli studenti ebrei dalle scuole italiane di ogni ordine e grado, la sospensione dal servizio di tutti gli insegnanti e dei liberi docenti ebrei, nonché del personale scolastico. Il provvedimento aveva il carattere d’urgenza, in quanto all’inizio di ottobre sarebbero cominciati l’anno scolastico e quello accademico. Il successivo decreto-legge del 15 novembre ribadiva l’esclusione degli studenti, degli insegnanti e di tutti gli altri dipendenti “di razza ebraica” dalla scuole pubbliche e private e dalle università, e inoltre si faceva divieto di adottare libri di testo scritti da autori ebrei. Non era certamente un caso che la discriminazione iniziasse proprio dalla scuola, vista dal regime come strumento principale di indottrinamento dei giovani.


L’impatto di questi provvedimenti fu drammatico per la comunità ebraica: vennero espulsi 96 professori universitari e 193 assistenti, 279 presidi e professori di scuola media, più di 100 maestri elementari, 200 liberi docenti, 114 autori di libri di testo, 5400 studenti elementari e medi, 200 studenti universitari. Cominciava per gli ebrei italiani un cammino senza ritorno che li avrebbe sospinti sempre più ai margini della vita sociale e produttiva.

Ormai la macchina della persecuzione si era messa in moto. Nel regio decreto-legge del 17 novembre si proibivano i matrimoni misti, era decretata l’espulsione degli ebrei da tutti gli impieghi pubblici, si limitava il loro diritto di proprietà. Tra le poche eccezioni ai divieti c’erano i parenti dei caduti in guerra o per la causa fascista, gli iscritti al Partito nazionale fascista e tutti quegli ebrei che avevano acquisito benemerenze eccezionali, Il 22 dicembre si collocavano in congedo assoluto i militari ebrei appartenenti alle Forze Armate.

Le leggi razziali vennero applicate con particolare zelo negli istituti culturali, anche i più importanti. Molti matematici ebrei, tra i più grandi della loro generazione, furono vittime della follia razzista. Più che i loro contributi scientifici, ricordo in queste righe ciò che dovettero patire.

Ai soci ebrei dell’Accademia dei Lincei, assorbita dall’Accademia d’Italia nel 1934 per volere di Mussolini, il grande prestigio non bastò a evitare l’espulsione: il Regio Decreto del 1 dicembre dichiarava decaduti i soci ebrei dell'Accademia. Albert Einstein, membro straniero dell’Accademia sin dal 1921, venuto a conoscenza, delle leggi razziali promulgate dal Governo Italiano, scrisse il 3 ottobre 1938 una lettera nella quale chiedeva conferma di quanto appreso dai giornali. Poiché non ebbe risposta, lo scienziato tedesco inviò il 15 dicembre una seconda lettera, con la quale chiedeva di essere escluso dalla lista dei soci stranieri. Il 2 gennaio del 1939 il presidente dei Lincei, il mineralogista Federico Millosevich, rispose comunicando di prendere atto delle sue dimissioni.

Accademico dei Lincei era Guido Castelnuovo (1865 - 1952), tra i padri della geometria algebrica italiana, che fu costretto ad abbandonare ogni incarico,e tuttavia reagì, oramai settantatreenne, contribuendo all'organizzazione di corsi clandestini di livello universitario per studenti ebrei. Sfuggito ai rastrellamenti nazisti, dopo la liberazione di Roma (4 giugno 1944), fu nominato commissario del CNR, con il compito di avviarne la riorganizzazione dopo il periodo bellico. Componente della commissione di epurazione della ricostituita Accademia dei Lincei nel 1944-46, fu poi eletto presidente dell'organismo, carica che mantenne quasi fino alla morte. Nel 1950 era stato nominato senatore a vita.

Sua figlia Emma Castelnuovo (1913 - 2014), laureatasi in matematica nel 1936, dopo un periodo come bibliotecaria presso l'Istituto di matematica dell'Università di Roma, nell'agosto del 1938 vinse la cattedra di insegnante di scuola media ma, dopo alcuni giorni, fu sospesa dal servizio a causa delle leggi razziali. Tra il 1939 al 1943 insegnò nella scuola israelitica clandestina e poi, dopo la guerra, avrebbe contribuito al rinnovamento della didattica della geometria euclidea e della matematica in generale.


Un altro grande vecchio della matematica italiana, Vito Volterra (1860 - 1940), forse la figura più prestigiosa dell’Accademia dei Lincei negli anni Venti, venne colpito dai provvedimenti razziali. Senatore del Regno dal 1905, patriota e volontario nella Grande guerra, a Volterra il fascismo non era mai piaciuto. Nel 1931 era stato uno dei dodici professori universitari italiani a rifiutarsi di prestare il Giuramento di fedeltà al Fascismo ed era stato dispensato dal servizio per incompatibilità con le generali direttive politiche del governo. Dovette abbandonare anche le sue molte cariche nelle accademie scientifiche italiane. Costretto all’esilio, tornò in Italia poco prima di morire. Il fascismo tentò di cancellarne persino la memoria. Quando morì, l'11 ottobre 1940, la scomparsa di una delle figure più illustri della cultura italiana passò pressoché inosservata: nessuna delle istituzioni scientifiche italiane ebbe il coraggio di ricordare ufficialmente il grande matematico, uno dei principali fondatori dell'analisi funzionale e della teoria delle equazioni integrali, maestro della biologia matematica. L’unica commemorazione fu tenuta da Carlo Somigliana (1860 - 1955) nell'Accademia Pontificia di cui Volterra era membro dal 1936.


Le leggi razziali colpirono un altro grande matematico, filosofo e divulgatore di origine ebraica. Federigo Enriques (1871 - 1946), tra i più importanti esperti di geometria algebrica, fu colpito dalle leggi razziali e costretto ad abbandonare l'insegnamento e qualsiasi altro impiego di carattere culturale. Negli anni della discriminazione razziale insegnò a Roma nella scuola ebraica clandestina fondata da Guido Castelnuovo e riuscì a pubblicare alcuni articoli in forma anonima sul Periodico delle Matematiche, organo della Mathesis (di cui era stato presidente dal 1919 al 1932, opponendosi alla riforma della scuola di Giovanni Gentile perché troppo orientata verso la cultura umanistica). Durante l'occupazione tedesca visse nascosto. Tornò a insegnare all'Università nel 1944 per altri due anni fino alla morte, avvenuta a Roma il 14 giugno 1946.


Guido Fubini (1879 - 1943), noto soprattutto per il teorema in analisi matematica che ne porta il nome, considerato tra i fondatori della moderna geometria proiettiva differenziale, era prossimo alla pensione quando entrarono in vigore le leggi razziali. Temendo per sé e la famiglia, ebbe la buona idea di partire per gli Stati Uniti accettando l’invito di insegnare a Princeton. Morì a New York nel 1943.


Questo breve panorama di odiosa discriminazione si conclude con il nome di Tullio Levi Civita (1873 - 1941), i cui lavori sul calcolo tensoriale avevano contribuito alla formulazione della teoria della relatività da parte di Einstein. Membro della Royal Society inglese, accademico dei Lincei e dell’Accademia pontificia, si oppose al fascismo. Con l’entrata in vigore delle leggi razziali, gli fu vietato l'accesso alla biblioteca del suo Istituto di Matematica dell'Università di Roma. Fu poi allontanato dall’insegnamento e visse isolato dalla comunità scientifica. La sua salute andò peggiorando fino alla morte, avvenuta per infarto a Roma il 29 dicembre 1941. 


A questo punto ci si potrebbe domandare quale fu l’impatto delle leggi razziali sui matematici italiani non ebrei. Ebbene, fu lo stesso che nelle altre categorie, scientifiche e non: un misto di conformismo, di pauroso silenzio, di collaborazionismo per cogliere un’occasione di carriera. Se un matematico di punta come Francesco Severi (1879 - 1961), fascista dagli anni ‘20, trovò normale, dopo aver suggerito nel 1931 il giuramento di fedeltà al regime, che il fascismo prendesse la strada del razzismo (fu lui a cacciare Levi Civita), salvo poi pentirsi dopo la guerra, altri, altrettanto bravi nella disciplina, si adeguarono al nuovo, freddo, clima. Molti di loro, tra i quali Mauro Picone, riuniti il 10 dicembre 1938, dichiararono senza vergogna che: 
“La scuola matematica italiana, che ha acquistato vasta rinomanza in tutto il mondo scientifico, è quasi totalmente creazione di scienziati di razza italica” (...) “Essa, anche dopo le eliminazioni di alcuni cultori di razza ebraica, ha conservato scienziati che, per numero e qualità, bastano a mantenere mantenere elevatissimo il tono della scienza scienza matematica italiana, e maestri che con la loro intensa opera di proselitismo scientifico assicurano alla Nazione elementi degni di ricoprire tutte le cattedre necessarie”. 
Il danno che le leggi razziali portarono alla matematica italiana e alla sua immagine fu in realtà gravissimo, e la reazione internazionale non mancò di sottolinearlo. Ma di questo parlerò un’altra volta.