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martedì 12 giugno 2018

Il vecchio signore di Lanzarote


C’era un vecchio (1) signore (2) di Lanzarote (3) 
che ogni cosa che scriveva (4) riempiva di note (5) 
la sua vera ebbrezza (6) 
era la completezza (7),
quel vecchio (8) perfezionista (9) di Lanzarote. 


(1) Naturalmente il giudizio è personale dell’autore, essendo l’età sempre relativa.

(2) Qui si intende l’accezione comune di uomo, senza riferimento all'agiatezza del protagonista o al fatto che egli fosse o meno coniugato.

(3) Isola delle Canarie (806 kmq), la più orientale dell’arcipelago, posta fra l’isola di Fuerteventura (a SO) e quella minore di Graciosa (a N). Amministrativamente fa parte della provincia spagnola di Las Palmas; il capoluogo è Arrecife. L’isola, montagnosa, è di origine vulcanica. Il clima è caldo, secco, a carattere tropicale. Si producono legumi, cereali, frutta, vite, grazie a un particolare tipo di coltura, detta enarenado (consistente nel coprire il seminato con ceneri vulcaniche, nei cui vacuoli si condensa l’umidità notturna). La risorsa principale è il turismo. Prende il nome dal navigatore di origine genovese Lanzarotto Malocello, che pare avesse raggiunto l’isola nell'ultimo decennio del XIII secolo.

(4) Vale a dire tutta la sua produzione con intenti letterari o scientifici, non potendosi estendere il concetto a testi che, per loro natura, esulano dalla presente trattazione, come firme in calce a documenti, scritte sui muri dei bagni pubblici, partecipazioni a lutti o celebrazioni, ecc.

(5) Ci si riferisce a ciò che è riportato sulla Enciclopedia Treccani come primo significato del lemma: “Ciascuna delle annotazioni apposte dall’autore o editore di un testo per fare un’osservazione, dare una notizia, chiarire un passo". Quindi il vocabolo non va inteso come “discorso, stampato all'inizio o alla fine del volume, con cui l’editore di un’opera dà notizie di varia natura riguardanti la storia del testo, della tradizione manoscritta, delle edizioni a stampa”, e neppure come “segno grafico disposto sul rigo musicale simboleggiante un dato suono del quale determina l’altezza, attraverso la posizione e la chiave, e la durata, tramite la sua rappresentazione grafica”.

(6) In senso figurato, a indicare l'insolita " allegrezza " dell'anima, non il perturbamento dell’intelletto prodotto da vino e altri alcolici, che è lo stadio iniziale dell’intossicazione alcolica acuta. Lungi dalle intenzione dell’autore il voler dare dell’ubriacone al protagonista del presente limerick.

(7) Compiutamente, senza alcun riferimento alla proprietà di una teoria fisica per cui ogni suo elemento ha un corrispettivo nella realtà oppure al Teorema di completezza della logica o alla completezza semantica secondo il teorema dimostrato da H. Gödel nel 1930, secondo il quale ogni teoria elementare, cioè del primo ordine, non contraddittoria ha un modello numerabile, cioè ha un modello il cui universo ha un'infinità numerabile di elementi.

(8) Cfr. nota 1.

(9) È dubbio che qui l’autore si riferisca o meno alla tendenza psichiatrica nevrotica (generalmente di tipo ossessivo o di tipo narcisistico) che impedisce sovente all'individuo di attuare cose relativamente semplici perché il suo narcisismo e la sua autocritica, unitamente a uno scarso senso della realtà, spostano costantemente tale attuazione verso obiettivi ideali irraggiungibili. Secondo l’approccio psicoanalitico, le aspirazioni che il soggetto perfezionista tenta inutilmente di realizzare derivano dall'introiezione delle ambizioni genitoriali sotto forma di ideale dell’Io, il quale si confronta in modo persecutorio e intransigente con l’Io e lo spinge alla frustrazione nel momento in cui le mete prefissate sono incompatibili con le capacità o le risorse disponibili per realizzarle.

giovedì 27 novembre 2014

Poesie quadrate

Una poesia quadrata è una particolare composizione in cui il numero delle sillabe (o di parole) per ogni verso è uguale al numero dei versi, per cui la sua struttura risulta essere una griglia quadrata, come in questo esempio che traggo dalla matematica e poetessa americana JoAnne Growney e che ho adattato alla nostra lingua:

When lovers leave, 
avoid laments. 
Grab a cactus-- 
new pain forgets.


Se ti lascia,
via la pena:
sfrega cactus
con la schiena.

La poesia quadrata più semplice (1 x 1) è formata da un monosillabo, come questa che ho dedicato a Italo Svevo:

Schmitz 

mentre non esiste in teoria un limite superiore. Questo tipo di contrainte è banale, a meno che non si vogliano costruire opere che abbiano diversi percorsi di lettura. Ad esempio Lewis Carroll fu l’artefice di questa stanza:

I often wondered when I cursed, 
Often feared where I would be – 
Wondered where she’d yield her love 
When I yield, so will she. 
I would her will be pitied! 
Cursed be love! She pitied me…


Fateci caso: la poesia può essere letta anche verticalmente: la prima parola di ogni verso forma esattamente il primo verso “I often wondered when I cursed”, la seconda forma il secondo verso, e così via. Il pregio di quest’opera dell’autore di Alice non risiede solo nella struttura, ma anche nel fatto che la poesia possiede un senso in se stessa, caratteristica che la rende un piccolo capolavoro non solo per la vista, ma anche per l’udito.



Il monstrum del genere "poesie quadrate" è senza dubbio A square in verse of a hundred monasillbles only: Describing the sense of England's happiness, scritto nel 1597 in onore di Elisabetta I dall’inglese Henry Lok (1553?-1608?), un poeta di origini borghesi sempre alla ricerca di protettori tra i nobili delle corti di Edimburgo e Londra e in costante lotta con i debiti. Lok scrisse alcune sequenze di sonetti e contribuì alla riforma della poesia inglese a sfondo religioso, ma a stento lo troviamo nelle antologie di poesia elisabettiana e in qualche saggio critico. Un minore, se non fosse per questa barocca e geniale esibizione di maniera.


Come dice il titolo, l’opera è costituita da una griglia quadrata di lato 10, in cui ognuna delle 100 celle contiene una parola monosillabica (in italiano ciò sarebbe impensabile, mentre in inglese, lingua più sintetica, la maggior parte delle parole lo è). Lo schema, che ho trovato in un articolo della Growney sulla matematica nella poesia, mostra in modo leggibile le parole dell’opera, che è preceduta e seguita da due motti latini.


Thomas P. Roche, Jr., che ha pubblicato la poesia di Lok in appendice al suo saggio Petrarch and the English Sonnet Sequences (New York: AMS Press, 1989) ha messo in evidenza come nella griglia sia possibile riconoscere una complessa struttura di quadrati e colonne e croci che formano poesie più piccole all’interno. Ad esempio, la prima colonna forma la frase:

God makes kings rule for heaue[n]s; your state hold blest 

E l’ultima colonna

And still stand will their shields; fear yields best rest. 

Si può scoprire anche una poesia di cinque versi con quattro parole ciascuno seguendo in diagonale le celle da 1 a 5 e utilizzando le parole poste negli angoli. Le croci indicate in grigio a loro volta nascondono frasi che si possono leggere dal centro verso l’esterno e poi ritornando in modo bustrofedico. 

Presentata questa macchina poetica, che immagino di trovare in un gabinetto rinascimentale delle curiosità letterarie (assieme ai leporeambi e a qualche corno di ippogrifo), mi viene in mente quanto scrisse il grande ludolinguista Giampaolo Dossena* a proposito del quadrato magico alfabetico (il famoso SATOR AREPO TENET OPERA ROTAS): 

“Sempre, leggendo di cose enigmistiche, si trasente il tanfo della condizione carceraria, ma guardando [tali] giochi geometrici (…) si è presi alla gola da miasmi concentrazionari, abissi di infelicità, follia, ebetudine. Certe tradizioni enigmistiche sono tra le testimonianze più patologiche e teratologiche lasciate dall’homo sapiens sulla superficie dello sventurato pianeta Terra. 

Se chi ama i giochi di parole può essere definito “qabbalista dilettante”, chi ama certi giochi enigmistici può essere considerato un qabbalista demente e disperato, che applica le tecniche della qabbalah non al testo della Bibbia bensì a un pezzo di giornale trovato in una latrina (…) 

*in Il dado e l’alfabeto, Zanichelli, 2004, p. 226

venerdì 3 maggio 2013

La quercia del Tasso

La quercia di Torquato Tasso esiste per davvero, sulle pendici del Gianicolo, nei pressi della chiesa di Sant’Onofrio. La leggenda vuole che il poeta si sedesse alla sua ombra negli ultimi tempi della sua vita, quando era ospite del convento annesso alla chiesa. La quercia, ora un tronco rinsecchito addossato a un muretto, si trovava allora nel giardino del convento, dove il poeta si spense il 25 aprile 1595. Il suo sepolcro si trova in una cappella laterale della chiesa. 

Anche questo luogo di memorie non è sfuggito alla prosa surreale di Achille Campanile (1899-1977), uno dei più grandi e prolifici umoristi italiani, scrittore di narrativa e di teatro, giornalista e critico televisivo, che con le sue opere ha percorso quasi tutto il '900, dalla fine degli anni ’20 fino agli ’70. Quasi uno scioglilingua, spesso recitato come monologo teatrale, la Quercia del Tasso, si regge principalmente su una serie di giochi di parole e di allitterazioni, basati sui diversi significati della parola tasso. Il raccontino comparve in Vite degli uomini illustri, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 1979 ed è un classico dello stile di Campanile. Lo propongo nell'interpretazione di una brava attrice della compagnia degli ZappAttori, data presso il teatro "La Casetta" di Roma per la rassegna "I Volti della Follia" (2011). Sotto c’è il testo.

 

La quercia del Tasso 

Quell’antico tronco d’albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand’essa era frondosa. 

Anche a quei tempi la chiamavano così. 

Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide. 

Meno noto è che, poco lungi da essa, c’era, ai tempi del grande e infelice poeta, un’altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. 
Un caso. 

Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la “t” maiuscola e della quercia del tasso con la “t” minuscola. In verità c’era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall’altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso. 

Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano “il tasso del Tasso”; e l’albero era detto “la quercia del tasso del Tasso” da alcuni, e “la quercia del Tasso del tasso” da altri. 

Siccome c’era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch’egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: “E’ il Tasso dell’olmo o il Tasso della quercia?”. 

Così poi, quando si sentiva dire “il Tasso della quercia” qualcuno domandava: “Di quale quercia?” 

“Della quercia del Tasso.” 

E dell’animaletto di cui sopra, ch’era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: “il tasso del Tasso della quercia del Tasso”. 

Poi c’era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s’era dedicata al poeta e perciò era detta “la guercia del Tasso della quercia”, per distinguerla da un’altra guercia che s’era dedicata al Tasso dell’olmo (perché c’era un grande antagonismo fra i due). 

Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: “la quercia della guercia del Tasso”; mentre quella del Tasso era detta: “la quercia del Tasso della guercia”: qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. 

Qualcuno più brevemente diceva: “la quercia della guercia” o “la guercia della quercia”. Poi, sapete com’è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l’albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia. 

Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. 

Viveva. 

E lo chiamarono: “il tasso della quercia della guercia del Tasso”, mentre l’albero era detto: “la quercia del tasso della guercia del Tasso” e lei: “la guercia del Tasso della quercia del tasso”. 

Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: “il tasso del Tasso”. 

Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l’animaletto venne indicato come: “il tasso del tasso del Tasso”. 

Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all’ombra d’un tasso perché non ce n’erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: “il tasso barbasso del Tasso”; e Bernardo fu chiamato: “il Tasso del tasso barbasso”, per distinguerlo dal Tasso del tasso. 

Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell’animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso. 

Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

sabato 29 dicembre 2012

Leporeambo politico, non tecnico, acrostico alfabetico

A un professore pieno di sé
(-anti, -enti, -inti, -onti)

Manovre oscure e prelati importanti,
Agende piene di bei proponimenti,
Rinascono Fini e trombati eccellenti,
Idoletto di Marchionne e furfanti.

Ogni giorno dei risultati ti vanti,
Ma non ci prendere per deficienti:
O le pensioni o le tasse sui denti
Niente crescita, sol lacrime e pianti.

Tra i tuoi democristiani convinti,
Innamorati del pareggio dei conti
Anche allegri banchieri distinti,

Miracolati da regali ed acconti
E ‘l lavoro e l’impresa hai estinti:
Non più ci freghi, o Mario Monti.

martedì 18 settembre 2012

Neologismi personali

L’iniziativa del sito Distanze di cui ho parlato nel precedente post, ovvero la prima raccolta italiana delle parole inventate, mi ha indotto a produrne alcune, perché è un gioco che mi diverte assai. Le propongo al lettore, invitandolo a mettersi anch’egli all’opera e a inviare i suoi contributi. 

Cicchitto, s. m. [lat. cicca, cosa di nessun valore]: piccolo sputo involontario che sfugge nel parlare: sputare un c. Estens.: animaletto molesto: avere un c. in un occhio. “Provò un senso di fastidio, come se si fosse imbattuto in un cicchitto” (BAROZZI). 

Cremlino, s. m. [bass. lat. cremum, la parte butirrosa spessa e opaca che affiora sul latte]: grande dolce natalizio alla crema, tradizionale della Moscovia. “Ivan Alexandrovic tornò a casa con una fame tale che si sarebbe mangiato l’intero cremlino” (id.) 

Nicotimita, s. m. [dai nomi fr. Nicot, e gr. Nikodemos]: chi fuma ma non vuole che si sappia pubblicamente per paura di punizioni famigliari o sociali, pertanto si conforma apparentemente alle opinioni salutiste in voga. “Molti adolescenti sono nicotimiti” (id.). 

Nullicembalo, s. m. [lat. nullus, nessuno, alcuno, nullo, inesistente e gr. Kýmbalon, ciotola, bacino]: strumento musicale a tastiera che aziona una serie di martelletti che picchiano a vuoto, non producendo alcun suono. Estens. Discorso ignorato dall'ascoltatore. “Le parole di Walter furono una sonata per nullicembalo solo” (id.). 

Pertinente, s. m. [dal nome it. Pertini]: che si riferisce all’ex Presidente della Repubblica e uomo politico italiano Sandro Pertini, chi ne imita le parole o i gesti: fare un intervento p., essere p. “Si accese la pipa e mescolò le carte per la briscola, sentendosi più che mai pertinente” (id.).

Aggiornamento del 18/9/2012, ore 22:25

Dimenticavo: 

Trinitrari, s m. pl. [scient. trinitrotoluene, il tritolo]: membri di una setta eretica cristiana dell’inizio del Novecento, influenzata dalle idee del nichilismo, nata nell’ambito della chiesa ortodossa russa. Secondo i t., Dio creò il mondo e l’uomo lo distruggerà, dopo di che ci sarà la seconda venuta di Cristo. I t. propugnavano la distruzione con il tritolo di vite e cose per accelerare la parusia. “Dall’odore che aleggiava sulle macerie dell’orfanotrofio, la polizia capì che i responsabili andavano ricercati tra i trinitrari” (id.)

martedì 28 agosto 2012

Leporeambi politici irregolari indignati disincantati


Al talento bizzarro del poeta Ludovico Leporeo (1582–1653 circa) ho già dedicato un articolo un paio d’anni fa. Egli fu l’inventore dei leporeambi, poesie di forme diverse (molto spesso sonetti), con metrica variabile, piene di termini inusitati, parole sdrucciole e bisdrucciole, rime interne, assonanze, allitterazioni, un funambolico meccanismo al quale l’autore pensava di affidare la propria fama d'inventore di un nuovo modo di far poesia. Autore barocco per eccellenza, in lui la grande capacità tecnica prevaleva sul messaggio: la sua arte è stata accusata di dir niente nel modo più complicato possibile, eppure è una poesia seducente, a tratti anticipatrice degli esperimenti delle avanguardie o dei giochi dei ludolinguisti. 

I leporeambi morirono con il proprio creatore, almeno fino a quando un blogger che poeta non è gli ha trovati simpaticamente adatti all’invettiva politica, pur essendo consapevole della sua grande imperizia tecnica. Preveggente, il Leporeo gli dedicò questo sonetto: 

Leporeambo alfabetico duodecasillabo satirico unisono irrepetito 

Contra un improvisatore 
acoli-ecoli-icoli-ocoli 

O tu, che in poesia fai li miracoli 
E 'l tutto hai penetrato allor che specoli, 
Giust'è che l'universo si trasecoli, 
Ché in verseggiar non hai minimi ostacoli. 

Tu stampe non adopri o carte macoli, 
E fai versi latini, etruschi, e grecoli, 
E dicon quelli a cui narrando io recoli 
Che per la bocca tua parlan gli oracoli. 

Tu li poeti e i retori sventricoli, 
L'Arcifanfano fai degli Arcicocoli, 
E del rimario sai tutti gli articoli. 

Argo sei de' Tersiti e de' monocoli, 
Degno che per le piazze e per li vicoli 
Ti si lancino aranci e bericocoli. 


Quelli qui di seguito presentati sono componimenti dal metro irregolare, piuttosto zoppicanti, scritti per sfogare una certa indignazione in una forma che la fa virare verso il disincanto. La loro allegra idiozia è un tentativo di cogliere l’odierno cretinismo parlamentare e mediatico. 

Leporeambo irregolare politico indignato irrepetito 

A un trasformista di lungo corso 
otto-etto-atto-itto 

Meriteresti di prigion anni otto, 
per il ceffo tuo che pare un retto, 
la bocca larga da fare effetto 
e il naso grosso da fagiol borlotto. 

Poi altri trenta perché sei corrotto, 
piduista come il nano abbietto, 
vestito sempre in doppiopetto, 
che ti prese come zerbinotto. 

Per la menzogna tu sei adatto, 
e dentro di te ti credi un dritto, 
ma tarocco sei come il bagatto. 

Or finisce l’era del gran guitto 
e tu con lui, politico d’accatto, 
leccante lacchè, ciccio Cicchitto. 


Leporeambo irregolare politico infuriato irrepetito 

Al moderato dai toni concilianti 
ente-inte-onte-ante 

I compari ti dicon intelligente 
per le tue uscite assai distinte, 
che nella saggezza paion intinte: 
del compromesso tu sei l’agente. 

Ma non scordo quando, indecente, 
con parole di doppiezza incinte, 
parlasti alla Camera dalle quinte 
rivendicando opposizion clemente. 

E quando dicesti di tua sponte 
a seguaci e nipoti di Almirante 
che Salò era un degno fronte. 

Mente conciliante e benpensante, 
per il poter, vero camaleonte, 
daresti pur il culo, mio Violante. 


Leporeambo irregolare politico acrostico irrepetit

Il capopopolo 
allo-ello-ollo-illo 

Benvenuto anche tu al gran ballo 
E della politica il gran bordello, 
Per pestar col tuo randello 
Padrino, ruffiano e lor vassallo. 

Eminenza, deputato e maresciallo, 
Gelosi del lor pingue orticello, 
Riuniti in furioso capannello, 
Imprecan con parole da camallo. 

La Presidenza perde il controllo, 
Levandosi con fare da caudillo: 
Oramai paventa il suo tracollo. 

Ritieni che basti indicar bacillo? 
Inver sei illuso fino al midollo, 
Perché curar non sai, Beppe Grillo.



lunedì 16 luglio 2012

Teatro laconico

Progenitore e maestro forse insuperato di tutti i raccoglitori di bizzarrie letterarie, Americo Scarlatti (pseudonimo e quasi anagramma del “dottore bibliotecario” Carlo Mascaretti, 1855-1928) pubblicò nei primi due decenni del Novecento una serie di volumi intitolati Et ab hic et ab hoc, nei quali registrò tutte le stranezze, intenzionali e soprattutto involontarie, in cui si imbatteva nella sua attività di instancabile e divertito bibliofilo dell’insensato e dell’eccentrico. 

In uno dei capitoli del compendio degli Et ab hic et ab hoc edito da Salani nel 1988 con la prefazione di Guido Almansi, lo Scarlatti si occupò del cosiddetto Teatro laconico, costituito da tragedie di un verso per atto, o persino di un solo verso in cinque atti. 

Un verso che contiene un intero dramma comparve nel 1913 sulla rivista dei futuristi fiorentini Lacerba, di cui mi sono occupato parlando di Luciano Folgore e dell’Almanacco Purgativo, trionfo dei versi maltusiani. Sono passati più di settant’anni e posso riportare l’intera opera senza i problemi che assillavano lo Scarlatti, che sosteneva che “per poterne dare un saggio, come la legge sulla proprietà letteraria consente, anche limitandomi a riportarne un verso solo, sono costretto, contrariamente alla legge stessa, a riprodurre il dramma intero!” L’opera è senza titolo, ma il nostro compilatore si ritenne autorizzato a immaginare che fosse UCCIDILA

Personaggi: MARITO e MOGLIE 

Atto unico – Scena unica 

Il MARITO alla MOGLIE che sopraggiunge:  
D’onde vieni?
La MOGLIE abbassa confusa lo sguardo. Il MARITO feroce: 
                     So tutto!
La MOGLIE con impeto: 
                                   Io l’amo!
Il MARITO cava il revolver e spara: 
                                                 Muori!

Si tratta indubbiamente di un capolavoro, che esprime in un verso conciso e armonioso un’intera tragedia. Tuttavia il pregio dell’opera, la cui trama descrive una terrificante realtà anche dei giorni nostri, cioè l’uomo geloso che uccide la moglie o la compagna, non risiede certo nell'originalità. Secondo Americo Scarlatti, “tali bizzarrie comico-drammatiche sono derivate direttamente dal teatro di Vittorio Alfieri, il quale nel suo stile energico e conciso giunse a chiudere un'intiera scena del Filippo in tre soli versi, di cui rimane celebre il primo pel dialogo tra Filippo e Gomez in esso concentrato”:

 – Udisti?
               – Udii.
                          – Vedesti?
                                           – Vidi.
                                                      – Oh rabbia!...

Anche in una scena dell’Antigone troviamo concisione ed tono icastico, nel dialogo tra Creonte e Antigone:

– Scegliesti?
                   – Ho scelto.
                                   –  Emon?
                                                  –  Morte!
                                                                 – L’avrai!

Ovviamente tale laconismo alfieriano ha solleticato ben presto l’estro degli umoristi. Una delle prime parodie, giuntaci anonima, fa così dialogare una REGINA e il suo CONSIGLIERE:

REGINA:                                                                                                           Sallo?
CONSIGLIERE:                                                                                                          Sollo!
REGINA:               Sallo il re?
CONSIGLIERE:                    Sallo.
REGINA:                                        Sassi ovunque?
CONSIGLIERE:                                                     Sassi, Sassi per tutta Roma e tutta Atene!

Cinque atti in verso solo costituiscono invece la stravagante prestazione del letterato salentino Leonardo Antonio Forleo (1794-1859), autore di questa ROSMUNDA

ATTO PRIMO 
ALBOINO e ROSMUNDA 

 ALBOINO:
                    Bevi!

ATTO SECONDO 
ROSMUNDA e ALBOINO 

ROSMUNDA (tra sé):
                              Morrai!

ATTO TERZO 
ROSMUNDA e ALMACHILDE 

ROSMUNDA:                  
                                            Deh!...schiavo!

ATTO QUARTO 
ALMACHILDE e ROSMUNDA  

ALMACHILDE:                                        
                                                                    È spento!

ATTO QUINTO 
ROSMUNDA e ALBOINO morto 

ROSMUNDA (sollevando al cielo una ciocca di capelli dell’estinto):
                                                                                     Oh padre!

Simili componimenti, a metà strada tra la presa in giro e l’esercizio di stile, ebbero un discreto successo, aprendo la strada a opere dall'intento esclusivamente umoristico, come fece il commediografo e poeta bolognese Alfredo Testoni (1856-1931), autore tra l’altro della celebre commedia Il Cardinale Lambertini, che ogni bolognese degno di questo nome deve aver visto almeno una volta nella vita. Il Testoni concentrò in un sonetto un’intera commedia, intitolata LA FELICITÀ CONIUGALE

PRIMO ATTO. – Scena prima. – LUI: Profonda
ferita ho qui nel cor! Non ho più pace
quando la guardo! Ohimè – Scena seconda. –
LEI: (da sola) È simpatico, mi piace!

SECONDO ATTO. – LUI: (Presso a lei) M’infonda
una speme nell’anima! – LEI: (tace).
LUI: Vuole un po’ di bene a me? Risponda!
LEI: Tanto! – LUI: Tesor! (molto vivace)

TERZO ATTO. – (Sala in Municipio. Arriva 
il SINDACO che dice sorridente):
Vi unisco, o Sposi! (Voci): Evviva! Evviva!

QUARTO ATTO, ultimo. – (Un luogo solitario).
LUI: Mia tu sei, nevvero, eternamente?
LEI: (sorridendo) Sì! (Cala il sipario).

Purtroppo la nostra lingua non consente le acrobazie verbali del francese, le cui omofonie consentono opere laconiche per noi inarrivabili. Un anonimo autore d’Oltralpe è riuscito ad esempio a comporre una tragedia mettendo in fila nel loro ordine le lettere dell’alfabeto francese, dimostrandosi così un vero plagiario per anticipazione delle opere di alcuni oulipiani. Il titolo è, ovviamente, LA TRAGEDIA DELL’ALFABETO:

Personaggi:
L’ABBÉ PÉQU (a, b, p, q)
Il principe ENO (n, o) amante di 
ACHIKA (h, i, k)
UVÉ (u, v) carnefice.

All'alzarsi della tela, l’abbé PÉQU è inginocchiato ai piedi di ACHIKA. Entra ENO e lo trova in quella posizione compromettente. 

ENO: a, b, c, d! (Abbé, cédez!).
PÉQU: con disprezzo: e, f! (effe)
ENO: j, h, i, k, l, m, n, o. (J’ai ACHIKA, elle aime ENO).
     L’abate non si muove. 
ENO: p, q, r, s, t! (PÉQU est resté!). Corre verso la porta e irritato chiama: u, v! (UVÉ!). Compare il carnefice. 
ENO, mostrandogli PÉQU e facendo un gesto espressivo: z! (zet…).
(Cala la tela

In realtà mancano g, w, x e y, e l’esclamazione effe di PÉQU non ha significato nel contesto, a meno che voglia indicare un sospiro di disappunto, ma non si può criticare una tale opera per delle quisquilie. 

Sempre restando in Francia, un’opera laconica davvero imperitura porta la firma nientedimeno che del grandissimo Paul Verlaine (1844-1896). Egli la compose in occasione di un concorso bandito dal giornale Comédie per un “dramma rapido”. L’opera, dal titolo TROPPA FRETTA è così compiuta da poter essere tradotta in qualsiasi lingua senza perdere in bellezza. Ciò nonostante, non è mai stata rappresentata: 

Dramma in un atto e in prosa 

SCENA I 

Quando s’alza la tela un signore e una signora sono in scena, ma abbracciati. 

SCENA II 

Un altro signore s’avvicina senza far rumore e uccide entrambi con una revolverata. I cadaveri rimangono uno accanto all’altro coi visi rivolti a terra. Il signore va a sollevarne uno e fa un movimento di sorpresa. Va poi a sollevare l’altro e si mostra anche più stupito. 

IL SIGNORE: Perbacco! Ho sbagliato!

(cala la tela


Scende il sipario anche sulle note di Americo Scarlatti dedicate al teatro laconico, ma quest’ultimo ha avuto una degnissima continuazione nell'opera di Achille Campanile (1899-1977), uno dei maggiori umoristi italiani, che, tra gli anni ’20 fino alla morte negli anni '70, rappresentò con le sue opere in modo ironico e surreale il costume e la vita della società italiana. Le sue Tragedie in due battute, rappresentate per la prima volta intorno al 1925, sono certamente il risultato di un approccio innovativo sulla scena teatrale, figlio del futurismo, ma sicuramente personale, capace di anticipare certi aspetti del teatro dell’assurdo di Beckett e Ionesco, anche se lui stesso rifiutò questa parentela. Ne scrisse nel corso degli anni più di seicento, e alcune di esse sono entrate nei modi dire degli italiani. Si tratta di piccoli atti, effettivamente composti da pochissime battute, che della tragedia hanno solo il nome e che furono concepiti più per la lettura che la scena, anche per i numerosi commenti inseriti nelle note di rappresentazione, che talvolta costituiscono l'intero contenuto dell’opera. Il gioco di parole la fa da padrone. Ne presento alcuni esempi. 

PREMIO LETTERARIO 

Personaggi: 
IL POETA 
L'AMICO 

La scena si svolge dove vi pare. All'alzarsi del sipario tutti i personaggi sono in scena. 
IL POETA: Ho scritto nove sonetti e un'ode saffica. 
L'AMICO: Cosicché, in totale, quanti componimenti poetici ci saranno nel tuo nuovo - e speriamo ultimo - volume? 
IL POETA: Dieci con l'ode. 
(Galoppo di cavalli in lontananza. Sipario) 

LO SCANDALO 

Personaggi: 
L'INQUILINO 
IL PADRONE DI CASA 

La scena si svolge nell'ufficio del PADRONE DI CASA. All'alzarsi del sipario, L'INQUILINO viene a fare un reclamo al PADRONE DI CASA. 
L'INQUILINO: (indignato, al PADRONE DI CASA) Signor padrone di casa, c'è nel casamento una signora che fa i bagni di sole su un balcone, in costume troppo succinto e in vista di tutti. Chiedo il vostro intervento acciocché facciate cessare questo intollerabile scandalo. 
IL PADRONE DI CASA: Ma, scusate, questa signora è giovane? 
L'INQUILINO: Sì. 
IL PADRONE DI CASA: È bella? 
L'INQUILINO: Sì. 
IL PADRONE DI CASA: E allora perché protestate? 
L'INQUILINO: Perché sono il marito. 
(Sipario) 

CAPRICCIO 

Personaggi: 
IL PICCINO 
SUO PADRE 

IL PICCINO: Papà, io non ho mai ammazzato nessuno. Potrei ammazzare il signor Giuseppe? 
IL PADRE: Va bene, ma il signor Giuseppe soltanto. 
(Sipario) 

SORPRESA 

Personaggi: 
IL MARITO 
LA MOGLIE 
L'AMANTE DELLA MOGLIE che non parla 

In una camera da letto, ai giorni nostri. 
IL MARITO: (giungendo improvvisamente, trova LA MOGLIE intenta a tradirlo con uno sconosciuto) Ah, infame, dunque non mentiva la lettera anonima, da me ricevuta un'ora fa: tu hai un amante! 
LA MOGLIE: E tu stai a credere alle lettere anonime? Andiamo! 
(Sipario)

venerdì 6 luglio 2012

Autoritratto della radice di 2

Il mio lavoro consiste nell’essere estratta ed esibita. Nell’essere estratta con il maggior numero di decimali possibile. È un lavoro da numero. Prima di tutto perché, quando si incontrano le matematiche, il numero ha voglia di mostrare loro i suoi decimali, poi perché, quando ci sono tanti numeri, essi vogliono far vedere più decimali degli altri. 

Un lavoro irrazionale. 

Io sono la radice quadrata di 2. 

C’è stato 1, 2, molti, poi c’è stato 3 e 4 e molti altri e adesso ci sono io. Sono il primo numero di cui è stata dimostrata l’irrazionalità e, alla prossima occasione, sarò dichiarato il più bello dei numeri irrazionali. 

Sono il numero più celebrato della schiera, quello al quale si sono interessati i più grandi, Euclide e Teeteto, Pitagora e persino Platone, e la mia condizione consiste nell’essere provato irrazionale. Tutti i matematici sanno dimostrare la mia irrazionalità. 

Essere un numero irrazionale è prima di tutto essere un numero diverso, tale da seminare l’inquietudine e il dubbio. 

Fare paura. Arrivare sulla scena in maniera tale che ti credono innocente, un semplice tratto in un quadrato (1), fino a che uno si turba perché tu non puoi esistere. 1, 2, va bene, 1,5 va bene lo stesso, ma non tu, fino a che delle infinità di numeri irrazionali vengono a copiarti. 

Nella vita di un numero non c’è il Terzo Stato: se non sei una frazione, allora sei irrazionale, e buonanotte al secchio! 

Le frazioni sono arrivate per dividere i numeri interi e, appena qualche secolo più tardi, tutti i matematici le usavano. 

Adesso ci sono io. 

Essere un numero irrazionale è una condizione che richiede un dono assoluto di se stessi e una dimostrazione rigorosa. Sono un numero irrazionale a tempo pieno. Lo sono per considerazione delle valutazioni 2-adiche del mio numeratore e del mio denominatore (2), cosa che fa sorridere i matematici esordienti. Lo sono per assurdo: se fossi una frazione irriducibile, il mio numeratore sarebbe pari e il mio denominatore anche (3), fatto che tormenta i miei appassionati. 

Prendete due numeri con i quadrati uguali, scriveteli uno accanto all’altro, sono sempre io che mi chiamo radice di 2, perché sono io ad essere il più positivo. 

Le costruzioni con riga e compasso, un quadrato doppio di un altro, li subisco mille volte alla settimana, i fogli di carta, ognuno la metà della superficie del precedente (4) e ciò nonostante esattamente della stessa forma, io li piego ogni sera prima di andare a letto presto. Conosco a memoria le mie approssimazioni per ridotte successive (5) e, quando chiudo gli occhi, vedo i miei decimali passare al rallentatore. 

Mi preparo anche ad affrontare quegli argomenti muti e insipidi che certi matematici utilizzano per dimostrare sia la mia irrazionalità sia la loro pedanteria, imponendomi delle dimostrazioni di quattro pagine quando sono sufficienti quattro righe o una figura. 

Tutto conta nella tua carriera. 

Un giorno l’essenziale diventa l’infinitezza del tuo sviluppo decimale. Tu hai limato l’argomento e hai finito per piantarti per aver dimenticato di segnalare l’assenza di periodicità in questo sviluppo. Hai sostenuto perentoriamente che bastava l’infinitezza, e hai perduto la faccia mostrando solamente che non eri decimale. 

Quando dormo, sono irrazionale, quando penso che il mio quadrato è uguale a 2, sono irrazionale. Vedo convergere verso di me delle moltitudini di metodi di Newton (6). La testa del mio 2 si piega sotto l’asticella del segno di radice, sento in tutto il mio essere l’irrazionalità di questa posizione. 

Quando nella sala rotonda del Palazzo della scoperta si parla d’irrazionalità, sono io ad essere citato per primo, e si liberano così tonnellate di decimali. Poi, le domande convergono sull’appariscente, il sedicente numero aureo che serve a contare le coniglie (7), gli sguardi si smarriscono verso i decimali allineati sui muri, e non rimane che un primo numero irrazionale, che serve ormai solo a presentare gli altri. 

È la regola. 

E poi, c’è il momento che arriva per forza in una vita, il solo momento di vero riposo, di riposo assoluto. Il riposo del primo numero irrazionale. 

Ti hanno presentato con rigore, come numero positivo il cui quadrato è 2, ti hanno provato non decimale, non razionale, hanno ricordato l’antiferesi (8), hanno evocato la geometria, hanno chiamato alla tua riscossa i vecchi signori barbuti, hanno invocato il sempre giovane e glabro Évariste Galois, considerandoti per dare un esempio, il primo esempio, di gruppo di Galois, e tu ti sei soddisfatto d’essere ancora una volta il primo, commettendo così lo stupido errore (che non è di distrazione perché le radici, anche loro, non conoscono la distrazione) di dimenticare che si è primi solo se esiste un secondo e tutta una sfilza di concorrenti, dopo i quali ti possono opporre un numero trascendente, un miserabile numero del quale tutti i decimali sono più o meno nulli (9), poi molti numeri trascendenti (10), poi non si parlerà più dei tuoi decimali se non per spiegare fino a che punto quelli di π sono più inattesi, più ricchi, più fantasiosi. E là è il vero riposo, il riposo infinito. Tu non sei trascendente, e, ancor peggio, il tuo sviluppo in frazione continua è periodico (11). Niente più importa, non sei più il divo dei numeri, la tua estensione è quadratica (senza parlare di quella dei tuoi muscoli, che si lascia andare), sai che diventerai il primo, ma il primo, volgare, numero algebrico.

-----OO---OO-----

Michèle Audin è docente di matematica all’Università di Strasburgo e, dal 2009, membro dell’Oulipo.  Questo autoritratto di è comparso un paio d’anni fa sul bellissimo sito Images des Mathématiques, ospitato dal CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique).  

La Audin ha pubblicato questo autoritratto, assieme a quello della trottola, sul volume collettivo degli oulipiani C’est un métier d’homme, pubblicato da Mille et une nuits, che contiene una ventina di autoritratti assurdi o parodistici ispirati da un breve racconto di Paul Fournel intitolato “Autoritratto del discesista”. 

I fecondi rapporti tra matematica e letteratura esistenti in Francia sono testimoniati anche da un libro interamente dedicato da Ludmila Duchêne e Agnès Leblanc alla radice di due, Rationnel mon Q (Éditions Hermann), dal titolo deliziosamente ambiguo dal punto di vista fonetico. Si tratta di 65 “esercizi di stile” alla maniera di Queneau, in cui l’irrazionalità di viene dimostrata nello stile di Abel, Bourbaki, Lewis Carroll, Euclide, Fellini, Goldbach, Hitchcock, Idéfix, Kafka, François Le Lionnais, Mersenne, Ohm, Perec, Queneau, Racine, Stokes, Talete, Zazie, e molti altri. Ecco un esempio: 

ANGLICISMES

Proposichieune. La scouère route de 2 est un neummbeur irrachionneul. Prouf. Par l’abzeurde. Sinon la scouère route de 2 canne bi ritteune p/q ouère p et q sont deux neummbeurse entiers, praillemeu entre eux. On élève au scouère et alors on sie que p est divisibeule baille tou, et donc que q est divisibeule baille tou iota. Contradikchieune. 

Proposiscion. La radice squere di 2 è un irrascional namber. Prouf. Per abserd. Consider la radice squere di 2, ke can bi vritten p/q, uere p e q sono due nambers interi, irreeduchibilee tra di loro. Si eleva a squere e cosii si vedi che p è divisibol bai ciu. E cosii che q è  divisibol  bai ciu tuu. Contradiscion (3). 


Note 

1. è il primo numero irrazionale conosciuto, ottenuto come lunghezza delle diagonali di un quadrato di lato 1. 

2. Qui si va sul difficile, per cui mi limito a un collage di concetti tratti da Wikipedia in francese, sperando di dare un’idea della cosa. Nella teoria dei numeri, se p è numero primo, un numero p-adico è un oggetto che si può concepire come una sequenza di cifre in base p, eventualmente infinita a sinistra della virgola (ma sempre finita a destra della virgola). Con un’addizione e una moltiplicazione, che si calcolano come per i numeri decimali consueti, l’insieme dei numeri p-adici forma un corpo commutativo scritto . L'equazione su non ha soluzione, in quanto la valutazione p-adica del primo membro è pari mentre quella del secondo membro è dispari. D'altra parte, è un'estensione di , quindi, se l'equazione non ha soluzioni in , non ha neanche soluzioni in e è irrazionale. 

3. Se si potesse scrivere la frazione irriducibile , che non si può semplificare, allora, elevando al quadrato, si avrebbe . Allora , dove p sarebbe un numero pari e sarebbe divisibile per 4, quindi q sarebbe pari, in contraddizione con il fatto che la frazione deve essere irriducibile. Si tratta di una dimostrazione per assurdo. 

4. I formati dei fogli A della norme ISO 216, sono concepiti in modo che, se si taglia il foglio per la larghezza, si ottengono due fogli simili all’originale, cioè con lo stesso rapporto lunghezza/larghezza. Questo rapporto vale circa

5. Si tratta delle ridotte dello sviluppo di una frazione continua. Vedi nota n. 11. 

6. In analisi numerica, il metodo di Newton, chiamato anche metodo delle tangenti, è uno dei metodi per il calcolo approssimato di una soluzione di un'equazione della forma . Esso si applica dopo avere determinato un intervallo [a,b] che contiene una sola radice. 

7. Il riferimento è alla successione di Fibonacci, nata dall’intento di trovare una legge matematica che potesse descrivere la crescita di una popolazione di conigli individuando e registrandone la ragione quantitativa di incremento. La successione gode della proprietà per la quale il rapporto tra un termine e il suo precedente, tende al valore della sezione aurea, o phi, al tendere di n all'infinito. 

8. I greci chiamavano antiferesi l’algoritmo di approssimazione di una radice. 

9. Il testo allude all’esistenza di numeri trascendenti costruiti grazie al loro sviluppo decimale, come ad esempio il numero: 
 costruito da Joseph Liouville nel 1844, in cui tutti i decimali sono nulli tranne quelli di rango n! (il che causa tanti 0, sempre di più mentre si procede). 

10. I numeri algebrici sono quelli, reali o complessi, che costituiscono delle soluzioni di un’equazione polinomiale con coefficienti razionali, come . I numeri trascendenti sono i numeri irrazionali non algebrici, come ad esempio π. 

11. L’approssimazione di è legata allo sviluppo della frazione continua periodica:


domenica 29 aprile 2012

La matematica di Renzo Butazzi


Era così depresso che quando andava al mare si divertiva solo a fare il morto. Quando morì davvero pensò di essere al mare e si abbronzò.

Era molto depresso: invece di fare le frittelle di riso le faceva di pianto. Qualche maligno diceva che era soltanto avaro: il pianto era più facile da trovare e costava meno.

Non tutte le ciambelle riescono col buco, ma neppure un buco riesce con la ciambella.

Aveva così poche idee, che non le diceva a nessuno per paura di rimanere senza.

L’autore degli aforismi che ho riprodotto è Renzo Butazzi (1928), un Grande Toscano come quell’altro tanto celebrato, solo che lui il cannocchiale lo usa girato dall’altra parte, per guardare splendori e miserie della nostra umanità attraverso le lenti del comico e dell’ironia (e spesso del nonsense). Persona di cultura e ingegno, dagli interessi molteplici, giocoliere di parole, ha collaborato con periodici gloriosi quali il Caffè di Giambattista Vicari (dove ebbe occasione di occuparsi di medicina alternativa), Il Cavallo di Troia, Confini, Il Semplice, Cuore, Satyricon di Repubblica, Comix. Su Il Semplice uscì nel 1996 un suo testo di storia dell’arte che è un vero capolavoro linguistico e comico. Ne riproduco l’inizio:

L'ABBAZZILICA DI PITOSFORI, MONUMENTO ROMANICO

L'abbazzilica romanica di Pitosfori è l'unica abbazia basilischica rimasta pressoché integra fino ai giorni loro. Percorrendo l'involuta che scoscende scosciata lungo il fianco della collina di Monte Pitos, spicca fin da vicinissimo il campanillo invertito a tripla bifora sottratta.
Sulla facciata ecclesiale, in liquirizi bianchi e neri di stile tigresco, rintocca il timpano smandrappato alla buranense, il cui occhio centrale non batte ciglio. La navata principale, che s'all'unghia in tutta la sua vertiginosa larghezza tra le monofore trombate, è preziosamente labirintata dai cenotafi catafratti dei duchi di Pitosforo.

Recentemente ha pubblicato per Sagoma di Varese un delizioso libretto, Il silenzio dell'uovo (2011), biografia letteraria e saggio pseudo-accademico su due poeti dimenticati dell’Ottocento, Torquato e Titina Gazzilloro, fratello e sorella, testo che dovrò procurarmi al più presto per dare maggior spessore alla mia serie sui poeti inesistenti. In rete ho trovato un gustoso estratto del suo vivace e raffinato studio.

Butazzi si è occupato di scienza in più occasioni, come quando scrisse questi pietosi versi nello stile di Edgar Lee Masters (Spoon River Analogy):

Oh, biologo pietoso
prega anche tu
per il fanciullino
morto di freddo
allorché la provetta
cadde, spargendolo,
appena concepito
sul gelido impiantito
del laboratorio.
Lo sfortunato non era neppure
battezzato.

Questa Facoltà di Medicina
Divisione di Cardiochirurgia
ricorda l’eroico sacrificio di
Pelosi Arturo, Belledi Mariuccia e Filotti Antonio.
Animalisti convinti, nemici acerrimi della vivisezione
si sostituirono volontariamente
a un cane e due conigli
in un programma sperimentale
per il trapianto dei cuori di palmito
negli esseri umani.

Qualche giorno fa l’amico Paolo Albani mi ha cortesemente fatto conoscere i componimenti matematici (in prosa) e geometrici (in rima) del Nostro, piccole storie di numeri e altri enti che in qualche modo ricordano l’atmosfera dei miei versi umoristici, facendo di Butazzi un mio plagiario per anticipazione. C’è in questi testi conoscenza e gioco, c’è la consapevolezza che si può parlare di matematica con umorismo senza banalizzarla. Li presento con la certezza che piaceranno al lettore, così come sono sicuro che hanno divertito l’autore mentre li scriveva.

VITA MATEMATICA

Convinto dalla tangente il cerchio cercò di trasformarsi in quadrato. L’angolo invece rifiutò: era sempre stato retto e tale voleva rimanere.

Se cambia l’ordine – suggerì il prodotto ai fattori – facciamo finta di niente: ci risparmiamo un sacco di fatica.

Sarà meglio che usi la spirale, pensò la circonferenza dopo aver avuto l’ennesimo diametro.

Quando andava al circolo il diametro passava sempre per il centro.

Essendo priva di indice la radice quadrata non aveva fatto il servizio militare.

Quella funzione ha un seno iperbolico, osservò il logaritmo leccandosi la mantissa.

La radice di due era molto preoccupata. Ormai erano passati trenta decimali senza che le venisse il periodo. Temeva di essere incinta anche se tutto ciò le sembrava irrazionale.

Quando sss..i didice la cococombinazione, esclamò il triangolo di Tartaglia incontrando il binomio di Newton.

Appena ebbe guardato nella parentesi il coseno pronunciò la diagnosi: c’è un brutto accesso all’integrale fratto. Purtroppo ha una radice cubica e l’estrazione sarà difficile.

Ricomponiti – disse la parentesi al polinomio – Così scomposto ti si vedono i binomi.

L’equazione cercava di risalire alle radici per trovare la propria identità.

Ho detto che sei una bella conica, non una comica, disse il cerchio all’iperbole che stava arrabbiandosi.

L’irrazionalità dei loro esponenti rese molto difficile il confronto tra le due potenze.

Secondo i parametri la variabile era troppo indipendente, ma per fortuna stavano mettendo dei limiti alla sua funzione.

Il Trapezio voleva iscriversi nel circolo del Pentagono ma lo avevano respinto.

Quello che mi fa più soffrire - si lamentava il due - è quando mi estraggono una radice: non finisce mai.

Farci separare non conviene né a me né a te, disse l’uno allo zero.

Sono io, il primo tra i primi, esclamò il due guardando l’uno dall’alto in basso.

Sei troppo irrazionale, ti consiglio l’analisi, suggerì l’algebra all’equazione insoddisfatta.

Appena l’equazione scoprì di avere di avere due membri si precipitò dal dottore.

Io sono l’essere supremo - proclamò la variabile indipendente rivelandosi ai coefficienti - posso assumere qualunque valore nell’infinito.

Non vorrei passare per maniaco – si lamentava l’asintoto – ma non poter mai toccare una curva mi fa impazzire.

Se non glielo spiegavano gli angoli acuti, l’angolo ottuso non riusciva mai a fare un triangolo.

L’angolo piatto è molto utile per mangiarci i gradi.

Ogni volta che le due rette s’incontravano facevano il punto.

Risalendo per i decimali il resto della divisione cercava disperatamente di raggiungere il dividendo.

L’ipotenusa non voleva uscire con i cateti perché erano più piccoli di lei.

Il diametro è molto veloce: fa un giro intero in tre e quattordici, mentre il raggio ci mette il doppio.

Da sempre il numero primo aveva cercato vanamente di farsi in quattro. Finché, sopraffatto dalla frustrazione, si gettò dalle ordinate sfracellandosi sulle ascisse.

In un sistema cartesiano ogni punto del piano è schedato.

Persa la ragione la progressione smise di progredire.

Smarrite tra le infinite soluzioni, le equazioni di primo grado scelsero la sicurezza di un sistema.


GEOMETRIE

Giace curva da stamani
sugli assi cartesiani
l’esponenziale
che si sente male.

L’angolo giro è tondo.
Dorme un sonno profondo,
acciambellato
da quando fu creato.
Non se ne vede niente:
forse è trasparente.

Langue delusa
l’ipotenusa.
Vorrebbe unirsi all’angolo retto,
ma lui si oppone
per farle dispetto.

La parabola
Ha le traveggole:
ci vede doppio,
si crede un’iperbole.

Brulica di parallele l’infinito
che tutte là
si vanno ad incontrare;
come il Mar dei Sargassi
brulica d’anguille
che solo là si vanno ad accoppiare

Un angolo retto,
stancato dall’uso,
cadendo all’indietro
diventa un ottuso.

L’angolo ottuso,
deluso,
di gradi fa abuso.
Si gonfia, si sbraca,
diventa più sciatto:
è un angolo piatto.

Forzuto ed astuto
è l’angolo acuto.
Fa leva,
pian piano si leva,
finché, quando è eretto,
fa l’angolo retto.

Era forse un rettangolo stanco
il trapezio scaleno
che giace sbilenco
sul piano?

Le ultime quattro poesiole geometriche sono state pubblicate su Il Cavallo di Troia nel 1984.