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martedì 11 aprile 2023

"Le particelle elementari", una storia consistente

 


Distanti ma uniti
- Con Le particelle elementari (1998) Michel Houellebecq ha conosciuto la consacrazione. La dimensione polemica del libro ha indubbiamente giocato un ruolo nel suo successo. In effetti, il romanzo non esita ad affrontare alcuni argomenti tabù con una lucidità e un cinismo a volte gelidi (e anche accuse di pornografia). Una caratteristica che avrebbe potuto provocare anche un perfetto rifiuto dei lettori (come personaggio pubblico Houellebecq ci mette molto del suo per apparire antipatico e indisponente). Ma la forza dell'autore è quella di aver saputo sviluppare nuovi angoli di approccio ai diversi problemi della società, tessendo nuovi parallelismi tra il sistema economico, sessuale, scientifico o addirittura religioso.

Attraverso il destino di due fratellastri a prima vista agli antipodi (ma piuttosto due facce della stessa medaglia, o due particelle con spin opposto), Michel Djerzinski, ricercatore asessuato di biologia molecolare, interamente dedito alla sua scienza ("Nel caso di Djerzinski, il suo uccello gli serviva a pisciare, e basta."), e Bruno Clément, insegnante ossessionato e frustrato, vittima della sua disperata ricerca di sesso, Houellebecq ripercorre la storia dei costumi sessuali e sociali di quarant’anni di storia sociale dell’Occidente.

Si tratta di trasformazioni politiche e sociali in cui il narratore scorge l’origine di una catastrofe mondiale senza via d’uscita, la cui responsabilità principale viene attribuita al movimento del Sessantotto; movimento complesso e oggetto di una enorme quantità di interpretazioni estremamente contrastanti e divergenti. Quella proposta da Houellebecq, condivisibile o meno, ha senz’altro il merito di essere chiara. A suo vedere, se il Sessantotto si è proposto come movimento di liberazione, in particolare nell’ambito sessuale, il problema fondamentale risiede proprio nel senso profondo di questa pretesa emancipazione. Perché attribuendo un valore capitale all’individuo, la liberazione cancella ogni possibilità di «legame» all’interno della società in modo così efficace che i suoi effetti sono tuttora evidenti:
“Fa un certo effetto osservare come spesso tale liberazione sessuale venisse presentata sotto forma di ideale collettivo mentre in realtà si trattava di un nuovo stadio nell’ascesa storica dell’individualismo. Coppia e famiglia rappresentavano l’ultima isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale. La liberazione sessuale ebbe come effetto la distruzione di queste comunità intermedie, ultime a separare l’individuo dal mercato. Un processo di distruzione che continua oggigiorno”.
Ma la novità dell’epoca aperta dal Sessantotto è costituita da un trattamento particolare del desiderio. Come afferma Michel, “la società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce ad organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società funzioni, affinché la competizione continui, occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini”.

Abbandonati dai rispettivi padri, poco amati in gioventù da una madre hippy e che li considera d’intralcio, né Bruno né il fratellastro Michel, i due protagonisti, riescono a inserirsi nella catena che lega i padri ai figli. Mentre Michel incarna lo scapolo senza figli, Bruno è il tipo del cattivo padre, incapace di recitare il suo ruolo in un mondo in cui la funzione paterna ha perso ogni significato:
“I bambini, invece, erano la trasmissione di uno stato, di regole e di un patrimonio. Questo era naturalmente il caso negli strati feudali; ma anche tra commercianti, contadini, artigiani, in tutte le classi sociali appunto. Oggi tutto ciò non c'è più: sono un dipendente, sono un inquilino, non ho niente da trasmettere a mio figlio. Non ho nessun mestiere da insegnargli, non so nemmeno cosa saprà fare dopo; le regole che ho conosciuto non si applicheranno più a lui, comunque vivrà in un altro universo”.
I passaggi sulla loro infanzia (il “regno perduto” come lo chiama Houellebecq) sono particolarmente commoventi. Evocano questa felicità spensierata, piena e totale, che può abitarci in tenera età:
"Molti anni dopo, quando sarebbe diventato un quarantenne disilluso e amareggiato, avrebbe rivisto questa immagine: lui stesso, quattro anni, che pedalava con tutte le sue forze sul suo triciclo per il corridoio buio, fino alla luminosa apertura del balcone. Probabilmente era in quei momenti che aveva sperimentato la sua più grande felicità terrena.”
Bruno scoprirà la crudeltà dei suoi coetanei durante il suo percorso scolastico e infine i suoi fallimenti sentimentali, mentre Michel si chiuderà nella sua solitudine di scienziato sognante e incapace di emozioni. Morte e follia li attendono in ogni momento, anche se qualche (breve) parentesi di felicità amorosa li placherà durante il loro tragico viaggio. I due sono mossi verso destini ineluttabili, e in molti hanno fatto notare che sembrano mere macchine narrative costruite apposta in funzione delle tesi di fondo sostenute dall’autore.

La prima parte del romanzo, dove vengono raccontate l'infanzia e l'adolescenza dei due fratellastri, è dominata da resoconti di simmetria che rivelano le esperienze vissute dall'uno come un'eco di quelle vissute dall'altro. Entrambi vengono abbandonati dai genitori e accolti dalle rispettive nonne che, attraverso l'amore e il sacrificio di sé, permettono loro di condurre una vita apparentemente normale. La morte della nonna determina l'uscita dal "regno perduto" (titolo della prima parte) e l'inizio di questi "momenti strani" (titolo della seconda parte) che porteranno il disincanto al culmine, mostrando l'inevitabile fallimento di i due fratelli in una società che ha spazzato via le condizioni di possibilità dell'amore come principio di coesione e condivisione. La tardiva relazione di Michel con Annabelle è un'eco ritardata della relazione di Bruno con Christiane. La morte prematura delle due giovani è una conseguenza simbolica dell'atrofia affettiva dei due fratelli: ognuno di loro incarna, in forma diversa, l'incapacità di amare.

L'incontro di Bruno con Christiane è iniziato con un rapporto orale in una vasca idromassaggio in un campo new age. Un momento che trova meraviglioso perché "non c'era alcun elemento di seduzione, era qualcosa di molto puro". La coppia frequenta assiduamente campi naturisti e circoli scambisti. Tuttavia, è presente anche la complicità (anche se non sembra essere il suo criterio primario) e tra loro nasce un vero e proprio attaccamento. Sviluppa qui il suo sogno di un “comunismo sessuale” che ancora chiama “sessualità socialdemocratica”.

Parallelamente, il rapporto con l'ex moglie mostra una visione senza pietà per i corpi "sessualmente imperfetti" (cellulite, smagliature, ecc.) mentre descrive, senza compiacimento, il suo ruolo di padre indegno (facendo scivolare psicofarmaci nella bottiglia di suo figlio per poter andare a masturbarsi davanti al minitel…). Passaggi durissimi e molto lucidi: "In realtà i padri non si sono mai interessati ai figli, non hanno mai provato amore per loro, e più in generale gli uomini sono incapaci di provare amore che è un sentimento a loro totalmente estraneo. Quello che sanno è il desiderio, il puro desiderio sessuale e la competizione tra maschi”.

Houellebecq descrive tutta la crudeltà della "legge del sesso", in particolare nella colonia comunitaria dove alloggia Bruno, il vampirismo di questa frenetica ricerca e il suo aspetto faustiano. “Asciugamano in mano, iniziò un percorso irregolare attraverso il prato; barcollò, per così dire, tra le vagine. ". Ma anche le fitte dell'onanismo nella sua solitudine più sordida: “Si versò un secondo whisky, eiaculò sulla rivista e si addormentò quasi tranquillo”.

A un certo momento Bruno comprende che “l’obiettivo principale della sua vita era stato esclusivamente sessuale; non era più possibile cambiare” e in ciò - sottolinea il narratore - “era un personaggio emblematico della sua epoca”. Ma stando così le cose è possibile considerare Bruno un individuo? È la domanda che si pone il suo fratellastro Michel (la coscienza critica all’interno del romanzo). Da un punto di vista fisico certamente, pensa Michel: “la putrefazione del suo organismo, sì, gli apparteneva individualmente; avrebbe conosciuto a titolo personale il declino fisico e la morte”, ma “d’altra parte […] la sua visione edonista della vita, i campi di forze che strutturavano la sua coscienza e i suoi desideri, quelli appartenevano al complesso della sua generazione”. Dunque, se sul piano fisico poteva apparire come un individuo, “da un altro punto di vista non era altro che l’elemento passivo dello spiegamento di un movimento storico. Le sue motivazioni, i suoi valori, i suoi desideri: nulla di tutto ciò lo distingueva neppure in misura minima dai suoi contemporanei”.


Individualismo e crisi dell'Occidente
- Man mano che si girano le pagine, emerge la visione paradossale e conflittuale della donna, che Michel ammira e odia (senza dubbio anche per l'abbandono 
materno). Non esita a condannare in ogni momento il femminismo (considerato castrante): “In pochi anni sono riusciti a trasformare i ragazzi intorno a loro in nevrotici impotenti e scontrosi”, per chiamare le donne “vecchia puttana” o per prendere in giro la “stupida rassegnazione delle femmine”, mentre poi scrive “A cosa servivano gli uomini? È possibile che in passato, quando gli orsi abbondavano, la virilità potesse aver svolto un ruolo specifico e insostituibile, ma per diversi secoli gli uomini non erano visibilmente serviti quasi a nulla. A volte ingannavano la noia giocando a tennis, che era un male minore, ma talvolta lo ritenevano anche utile per far avanzare la storia, cioè essenzialmente per provocare rivoluzioni e guerre. (…) Un mondo fatto di donne sarebbe infinitamente superiore sotto tutti i punti di vista; evolverebbe più lentamente, ma con regolarità, senza tornare indietro e senza interrogativi dannosi, verso uno stato di felicità comune”. O, anche “Decisamente, le donne erano migliori degli uomini. Erano più carezzevoli, più amorevoli, più compassionevoli e più gentili”. Respinge quindi con queste ultime dichiarazioni ogni sospetto di misoginia.

Al centro di questa riflessione, denuncia l'individualismo e la grande depressione sociale e spirituale di fine Novecento: "Avendo esaurito i godimenti sessuali, era normale che gli individui liberati dalle ordinarie restrizioni morali si rivolgessero ai più ampi godimenti della crudeltà; due secoli prima, Sade aveva seguito un percorso simile. In questo senso, i serial killer degli anni '90 erano i figli naturali degli hippy degli anni '60”.

Deliberatamente posto sotto il segno di Aldous Huxley e del suo romanzo The Brave New World al quale peraltro dedica un capitolo nel suo romanzo, Michel cerca di trovare una via d'uscita alla "malinconia dell'uomo occidentale” secondo la sua espressione. Un esito che, secondo lui, passa attraverso l'eugenetica da lui apertamente propugnata. Si propone così di riflettere sulla possibilità di una mutazione genetica che metta fine alla sofferenza e alla solitudine umana. Inventare una nuova specie che sia finalmente libera dal desiderio sessuale (ma non dal piacere) e dalla morte.
“La mutazione metafisica che ha creato materialismo e scienza moderna ha avuto due grandi conseguenze: il razionalismo e l’individualismo. L’errore di Huxley è stato quello di non aver valutato adeguatamente il rapporto di forza tra queste due conseguenze. In dettaglio, il suo errore sta nell’aver sottovalutato l’aumento di individualismo prodotto da una incrementata coscienza della morte. Dall’individualismo nascono la libertà, il senso dell’io, il bisogno di distinguersi e di essere superiori al prossimo”.
Perciò in ragione di questa libertà individuale, contrariamente a quanto pensava Huxley, sorgono la competizione economica e quella sessuale. Si giunge così ad una esacerbazione del desiderio:
“Perché la mutazione metafisica operata dalla scienza moderna si porta dietro l’individuazione, la vanità, l’odio e il desiderio. Di per sé il desiderio - contrariamente al piacere - è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. E, questo, tutti i filosofi - non solo i buddisti, non solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome - l’hanno capito e insegnato. La soluzione degli utopisti - da Platone a Huxley passando per Fourier - consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l'immediata soddisfazione”.

Verso la post-umanità
- Houellebecq (attraverso Michel) immagina una nuova umanità, liberata dall'individualismo grazie a una mutazione biologica che sappia sfruttare i paradossi della fisica quantistica: la tesi della non separabilità quantistica in particolare è mobilitata per promuovere una nuova ontologia e l'immagine di nuove relazioni tra le persone. Le conoscenze derivate dalla biologia molecolare e dalla fisica quantistica vengono analizzate come strumenti di una revisione ontologica che ha come corollario una nuova concezione dell'evoluzione: lo spostamento verso la post-umanità, che segna l'ingresso nella post-storia, pone fine anche alla “storia naturale” che viene sostituita da una storia “meta-naturale”.

Lo scrittore francese osserva che l'uomo, antropologicamente, è in procinto di essere travolto dal mondo che ha creato: le scienze, infatti, hanno prodotto le condizioni per una mutazione fondamentale facendo dell'umanità "la prima specie animale dell'universo conosciuto" ad essere capace “di organizzare da sé le condizioni della propria sostituzione”. Eppure, questa mutazione è diventata essenziale, se l'uomo vuole sopravvivere al “suicidio occidentale”, diretta conseguenza della metafisica del materialismo che ha dominato il XX secolo. Incompatibile con l'umanesimo, il materialismo ha dato vita a una “cultura del godimento”, basata sull'apologia del desiderio e della liberazione sessuale, che ha come corollari l'individualismo, il consumismo e il mercantilismo. Ma lungi dal fermarsi all'evidenza del disastro storico che fotografa, Houellebecq delinea la possibilità della rigenerazione: poiché il male, la solitudine, viene dalla libertà individuale concessa dalle società moderne, il rimedio va cercato nel modello opposto, in un tipo olistico di società che concede all'individuo solo un valore secondario rispetto al collettivo:

La soluzione di Houellebecq non è né politica né umanista: una volta esaurita la metafisica del materialismo, un'altra metafisica deve sostituirla determinando l'apparizione di una nuova umanità, liberata dall'individualismo e dalla riproduzione sessuata grazie a una rivoluzionaria tecnica di clonazione. Questa mutazione antropologica si basa su due idee chiave: in primo luogo, la dissociazione della procreazione dal sesso, che dovrebbe garantire "la riproduzione della specie umana in laboratorio in condizioni di sicurezza genetica e affidabilità totale. Scomparsa conseguentemente dei rapporti familiari, della nozione di paternità e di filiazione”.

La fine della riproduzione sessuata appare come la logica conclusione di un processo che è già iniziato nell'ordine sociale e che deve trovare il suo prolungamento nell'ordine biologico. La scienza responsabile della creazione delle condizioni materiali per questa mutazione è la biologia molecolare; ma questa non fornisce strumenti abbastanza potenti da distoglierci dall'evidenza del nostro essere-nel-mondo ed è quindi la fisica quantistica che è responsabile della realizzazione del "grande cambiamento". Sta qui la vera originalità del romanzo: non nell'idea di sostituire la genesi con la genetica, ma in un progetto di revisione ontologica basato sui paradossi della fisica quantistica. La difficoltà è che la biologia e la fisica quantistica hanno due linguaggi lontani, tra i quali è difficile stabilire una continuità. È questo campo di ricerca, lasciato incolto dalla scienza, che Houellebecq ha voluto sondare attraverso l'immaginazione: “Mi aspetto molto dai ricercatori che cercano di collegare il mondo quantistico (la vera natura dell'infinitamente piccolo) al mondo macroscopico (il nostro mondo “normale” composto di oggetti). Queste persone stanno cercando di stabilire una continuità. È difficile. Ma è certo che una rivoluzione considerevole scoppierà quando questa continuità sarà stabilita”.

Particelle elementari - Questa sfida è quella che Michel cerca di raccogliere nel romanzo: si chiede come conciliare l'ontologia quantistica con l'esistenza di corpi biologici dotati di identità autonoma e qualità intrinseche. La fisica quantistica, in effetti, ha sconfitto la nozione realistica di una sostanza materiale dotata di permanenza e che sostiene i fenomeni nel più profondo dell'Essere. Le particelle elementari non sono substrati portatori di qualità concrete, ma strutture matematiche prive di sostanza sottostante. Prive di una precisa localizzazione, non corrispondono ad un classico punto materiale ma ad un pacchetto d'onda, cioè ad una sovrapposizione di movimenti potenziali, la cui posizione può essere valutata solo in termini probabilistici. A rigor di termini, si può solo parlare della realtà di una particella al momento dell'osservazione: tra due osservazioni, la funzione d'onda descrive la particella come se fosse sparsa su un'intera porzione di spazio, così che la sua esistenza è del tutto virtuale. Ma durante l'osservazione, la funzione d'onda si riduce ad una delle possibilità che descrive prima di evolvere, una volta fatta l'osservazione, in un nuovo spazio di possibilità. Essendo l'osservazione un evento discreto, senza continuità e senza durata, i costituenti ultimi della materia non possono essere considerati come entità permanenti che possiedono una propria “identità”. Schrödinger proponeva di immaginarli piuttosto come “eventi istantanei”, capaci di passare senza transizione da un'esistenza potenziale non localizzata a un'esistenza concreta localizzata, e viceversa.

Vediamo quanto sia difficile conciliare questa ontologia senza qualità con un'ontologia di corpi viventi che possiedono qualità proprie e un'identità non intercambiabile. La biologia e la fisica quantistica parlano linguaggi lontani, tra i quali possono esistere solo al massimo relazioni complementari. Principio essenziale della fisica quantistica, il principio di complementarità fu enunciato da Niels Bohr nel 1927 per risolvere la contraddizione onda/particella: le particelle elementari ci possono apparire a volte sotto forma di corpuscoli, a volte sotto forma di onde, questi aspetti costituiscono due rappresentazioni "complementari" di una stessa realtà. La fisica quantistica, come sappiamo, ha scoperto il disturbo causato da ogni osservazione: la cosa osservata reagisce a ogni misura che usiamo per osservarla. Dall'osservatore, quindi, dipende la scelta della proprietà corpuscolare o ondulatoria che privilegerà e si può descrivere l'oggetto solo dall'angolazione prescelta in termini di interazioni, correlazioni. Nella mente di Bohr, la contraddizione onda/particella dimostrava l'inadeguatezza del linguaggio naturale a descrivere i fenomeni e la necessità di ricorrere a diversi sistemi interpretativi per formulare punti di vista parzialmente contraddittori in un linguaggio semplice.
“Ma queste due modalità interpretative si completano anche a vicenda, perché in realtà sappiamo da tempo che hanno entrambe ragione, proprio perché la vita esiste. Il problema che la biologia deve affrontare non è quindi chiedersi quale di questi due modi di vedere sia il più corretto, ma semplicemente come la natura li abbia fatti combaciare.” (Bohr citato da Heisenberg).
Questa complementarità dei discorsi è il principio del romanzo, il cui carattere composito si spiega con la volontà di moltiplicare gli angoli di approccio. Essa è il principio della narrazione: Michel e Bruno, i quali incarnano rispettivamente il cammino della scienza e il cammino delle lettere, occupano infatti posizioni speculari nel dispositivo narrativo. Il discorso di Michel tende al distacco e l'impersonalità della scienza, mentre quello di Bruno si nutre dell'esperienza personale, che fornisce la sua materia viva alla letteratura. Michel, lo scienziato, del resto non è mai il narratore della propria vita, è solo colui che enuncia riflessioni teoriche il cui substrato empirico sono le esperienze del fratello. Quanto a Bruno, il letterato, è il narratore delegato della propria storia che racconta successivamente al suo psicanalista, al fratello e a Christiane. È come se le esperienze vissute e raccontate da Bruno alimentassero la maturazione intellettuale di Michel, che vi riflette in termini scientifici e propone la fine della riproduzione sessuata come soluzione ai problemi affettivi ed esistenziali in cui inciampa il fratello. Questa disposizione fa parte di un dispositivo sperimentale che consente di stabilire relazioni complementari tra scienza e letteratura, trasformando così il romanzo in una sorta di laboratorio in cui i fatti dell'esperienza e della teoria si completano a vicenda per lavorare su questo, che è forse il suo vero ambizione: la trasformazione dell'uomo.

Infine, la complementarità permette di inscrivere le traiettorie individuali dei due fratelli nel quadro del futuro collettivo, perché “così come l'installazione di un allestimento sperimentale e la scelta di una o più osservabili consentono di assegnare a un sistema atomico un dato comportamento - a volte corpuscolare, a volte ondulatorio - così Bruno potrebbe apparire come un individuo, ma da un altro punto di vista, era solo l'elemento passivo del dispiegarsi di un movimento storico. Le sue motivazioni, i suoi valori, i suoi desideri: niente di tutto questo lo distingueva, seppur minimamente, dai suoi contemporanei”.

La commistione di fatalità e cecità che governa il destino dei due fratellastri è in linea con la logica di un rigoroso determinismo storico: “Date le condizioni iniziali […], parametrizzata la rete delle interazioni iniziali, gli eventi si sviluppano in un disincantato spazio vuoto; il loro determinismo è inevitabile. Quello che era successo doveva succedere, non poteva essere diversamente; nessuno poteva essere ritenuto responsabile”. Questa visione ha qualcosa di disumano nel suo modo di negare la libertà e la responsabilità individuale, sottoponendo l'uomo alle leggi dell'eredità biologica e sociale. Le Particelle elementari è un romanzo con una tesi: il gusto dell'autore per il presente della verità generale, la durezza dimostrativa e la brutalità assertiva della sua scrittura, il carattere volutamente esemplare della maggior parte dei personaggi a volte tende a racchiuderlo nella retorica di un manifesto filosofico. Ma dietro queste apparenze si nasconde un oggetto strano, complesso, che sperimenta le grandi costruzioni teoriche e scientifiche del suo secolo per delineare i contorni di un mondo tornato finalmente abitabile.


Non località
- Questa disposizione ha l'effetto di collegare le traiettorie dei due fratelli in un modo che evoca la non separabilità quantistica, evidenziata nei primi anni '80 dagli esperimenti di Alain Aspect (premio Nobel per la fisica nel 2022), ai quali peraltro nella finzione del romanzo Michel avrebbe preso parte, che hanno fornito una completa confutazione delle obiezioni sollevate nel 1935 da Einstein, Podolsky e Rosen contro il formalismo quantistico (se non è preveggenza, Houellebecq ha senza dubbio dato prova di grande conoscenza delle ultime novità scientifiche). Conosciute come il paradosso EPR, queste obiezioni furono formalizzate dalle disuguaglianze di Bell, che considerano il sistema formato da due elettroni con spin opposto. Il teorema di Bell afferma che, se separiamo questi due elettroni di spin inverso e li collochiamo in luoghi molto lontani l'uno dall'altro, i loro spin, nonostante la distanza che li separa, continueranno a essere dipendenti: se uno vale +½, l’altro varrà -½. Il teorema di Bell risulta quindi in un paradosso: sebbene apparentemente separate nello spazio e incapaci di comunicare con qualsiasi mezzo fisico noto, le due particelle non sono separate, formano un sistema inseparabile, dotato di proprietà fisiche che non possono essere attribuite a nessuna particella, ma solo all'intero sistema. In seguito alla pubblicazione del lavoro di John Bell, diversi gruppi hanno tentato di verificare le previsioni della fisica quantistica effettuando esperimenti su popolazioni di particelle prodotte in coppia e allontanate l'una dall'altra in due direzioni opposte.

Per il loro test di Bell aggiornato, Aspect e i suoi colleghi hanno installato, per ciascuno di due fotoni entangled, un sistema di commutazione che cambiava in modo casuale il percorso del fotone tra due rami. Ogni ramo aveva un polarizzatore con un orientamento diverso. Il sistema funzionava come uno scambio ferroviario, deviando rapidamente i fotoni tra due "binari" separati, ciascuno con un diverso polarizzatore. Le modifiche erano apportate mentre i fotoni viaggiavano dalla sorgente ai rivelatori; quindi, non c'era abbastanza tempo per il coordinamento tra le presunte variabili nascoste.

Alain Aspect è riuscito a dimostrare che due sistemi quantistici interagenti possono essere rappresentati solo da un sistema con funzione d'onda globale: solo il grande sistema che comprende i due sistemi può avere uno “stato”. Questo fenomeno ha dato luogo a diverse interpretazioni filosofiche evocate nel romanzo:
“Djerzinski stava finendo la sua tesi di dottorato all'Università di Orsay. Come tale, avrebbe partecipato ai magnifici esperimenti di Alain Aspect sulla non separabilità del comportamento di due fotoni emessi successivamente dallo stesso atomo di calcio”. Continua Houellebecq: "Precisi, rigorosi, perfettamente documentati, gli esperimenti di Aspect avrebbero avuto un notevole impatto nella comunità scientifica"
"Restano quindi solo due ipotesi. O le proprietà nascoste che determinano il comportamento delle particelle erano non locali, cioè le particelle potevano avere un'influenza istantanea l'una sull'altra a una distanza arbitraria. O si doveva rinunciare al concetto di particella elementare dotata, in assenza di ogni osservazione, di proprietà intrinseche: ci si trovava allora di fronte a un profondo vuoto ontologico - a meno che non si adottasse un positivismo radicale, e ci si accontentasse di sviluppare il formalismo matematico predittivo di osservabili rinunciando definitivamente all'idea di realtà soggiacente. È naturalmente quest'ultima opzione che ha mobilitato la maggior parte dei ricercatori”.
Riletto alla luce di questi principi, il titolo del romanzo può essere interpretato in un senso diverso da quello che gli è stato generalmente attribuito. Come sottolinea Houellebecq, “particelle elementari” sono state spesso intese come “una società composta da individui che si sentono isolati, separati gli uni dagli altri, che si incrociano in uno spazio neutro". Ma c'è un altro significato: siamo noi stessi composti da particelle elementari, aggregati instabili, in continuo movimento. Passando dal livello individuale al livello infra-individuale, Houellebecq libera le particelle di una materia anonima di cui conserva solo le interrelazioni. Infatti, tra le opzioni ontologiche autorizzate dalla non separabilità, una consiste nel liberarsi radicalmente dall'archetipo del corpo materiale e nel considerare il campo fenomenico come un tessuto costituito dall'interrelazione quantistica dell'intero universo. Ciò presuppone l'esistenza di un mondo dotato di unità organica, privo di parti indipendenti l'una dall'altra: ogni evento è strettamente determinato da tutti gli altri, dipende da una combinazione di circostanze che coinvolge l'intero universo in un dato momento. In particolare, gli eventi che contribuiscono alla preparazione di una data esperienza determinano quale degli eventi dovrebbe essere l'esperienza - determinati da tutti gli eventi che si svolgono nel loro ambiente vicino o lontano.

Negando la concezione classica di un mondo che può essere analizzato in parti dotate di un'esistenza separata e indipendente, la fisica delle particelle la sostituisce con l'immagine di una totalità indivisibile che inscrive l'esistenza individuale all'interno di correlazioni più fondamentali. Di questa unità organica, Michel ha il presentimento in più occasioni. Innanzitutto, durante il matrimonio di Bruno dove si stabilisce nella sua mente un'associazione tra la formula consacrata, "i due diventeranno una sola carne" e le esperienze di Aspect: "quando due particelle sono state unite, formano appena allora un indivisibile intero, che mi sembra del tutto conforme a questa storia di una sola carne”. Non un mondo di oggetti, ma di relazioni.

L'idea della non separabilità fa quindi parte del romanzo su due livelli: determina il rapporto tra i due fratelli, ma fornisce anche il suo principio per il legame che unisce la nuova umanità. Sottoponendo la tesi dell'interdipendenza universale a un diversivo opportunista, Houellebecq immagina un'altra umanità, liberata dall'individualismo e fondata sulla connessione come nuova figura della collettività e della felicità.

La nuova umanità nasce da una regressione all'età precedente la separazione. Spinto dal desiderio di un paradiso unito, un "regno perduto" come ogni paradiso, libera l'uomo dalla responsabilità oltre che dall'individualità. Questa è tutta l'ambiguità del romanzo: la regressione sul piano psichico fa parte di un progetto di rifusione ontologica che, secondo il suo autore, testimonia un “progressismo sconvolgente”.


Ontologia degli stati e storie consistenti -
Secondo il fisico e filosofo della scienza Michel Bitbol, una delle ontologie più naturalmente adattabili alla teoria quantistica è un'ontologia degli stati, così come una delle ontologie più adatte alla teoria relativistica è un'ontologia degli eventi. Uno dei grandi vantaggi di una tale ontologia è che non solo permette di risolvere questioni di individualità, ma le priva di ogni possibilità di essere poste. Le entità costitutive della nuova ontologia, infatti, non sono più particelle, ma vettori di stato. Tuttavia, a differenza delle particelle che possono essere ritenute la causa di eventi discreti e specifici osservati nei dispositivi di misurazione, queste nuove entità sono profondamente inadatte al modello dualistico dell'azione causale. Ciò rende pericoloso qualsiasi tentativo di esprimere l'ontologia quantistica per mezzo del linguaggio naturale. Gli scienziati sono stati così portati a cercare possibilità di connessione tra il mondo così come si manifesta a noi (come una serie di eventi uniti da relazioni causali) e gli elementi della nuova ontologia. Questo è il ruolo assegnato alle teorie della decoerenza, che permette di stabilire una giunzione tra il mondo quantistico e il mondo dell'atteggiamento naturale. Hardcastle, uno dei suoi teorici, propone, ad esempio, di considerare gli oggetti di medie dimensioni che popolano il nostro mondo (tavoli, sedie, strumenti di misura), non come entità dotate di una propria dimensione ontologica, ma come l'ombra percettiva dell'effetto che le vere entità della nuova ontologia producono nel nostro cervello.

Houellebecq si dichiara a favore del “recente progetto di riprogettazione ontologica che aveva preso corpo dai lavori di Zurek, Zeh e Hardcastle: la sostituzione di un'ontologia di oggetti con un'ontologia di stati". Solo un'ontologia di stati, infatti, è stata in grado di restituire la possibilità pratica delle relazioni umane. In un'ontologia di stati, le particelle erano indistinguibili e ci si doveva limitare a qualificarle attraverso un numero osservabile. Le uniche entità suscettibili di essere identificate e denominate in una tale ontologia erano le funzioni d'onda e, attraverso di esse, i vettori di stato: da qui la possibilità analogica di restituire senso e amore”.

I riferimenti di Houellebecq alle teorie della decoerenza di H. Dieter Zeh, alle "storie consistenti" di Griffiths, all'"ontologia degli stati" di Wojciech Zurek non hanno nel romanzo una semplice funzione documentaria, sono attuati per costringere il lettore a partecipare all'elaborazione di una costruzione mentale che destabilizza tutti i suoi schemi cognitivi. La nuova ontologia rompe infatti con i consueti sistemi di rappresentazione, vale a dire anche con il consueto a priori romanzesco. Richiede l'invenzione di un nuovo linguaggio, non più “un linguaggio di oggetti e proprietà” ma “un linguaggio di stati”.

L'ontologia priva di qualità della fisica quantistica è incompatibile con il sostanzialismo del linguaggio naturale, il cui uso principale è quello di applicarsi alle cose oggettivate. Ora, il fatto di qualificare gli oggetti, quindi di usare nomi - propri o comuni - e dotarli di proprietà attraverso aggettivi, deriva da una rappresentazione materialistica del mondo: gli oggetti dovrebbero essere lì, con le loro proprietà, esistere indipendentemente dall'osservazione. Se volessimo fondare un linguaggio corrispondente ad un'ontologia di stati, dovremmo ridurre tutto, non più ad oggetti, ma a movimenti. Una sfida senza dubbio impossibile da vincere, perché richiederebbe la rinuncia alle strutture fondamentali del nostro linguaggio, ma che tuttavia spiega alcune caratteristiche della scrittura di Houellebecq: una scrittura piatta, diretta, senza enfasi, con piccoli aggettivi, una costruzione fluida dove le scene scivolano per giustapposizione, dove si passa senza transizione dal destino personale alla storia collettiva e dove i singoli accadimenti contano meno per se stessi delle dinamiche del tutto. Moltiplicando gli effetti speculari tra i personaggi, scivolando costantemente da una storia all'altra, da un livello all'altro, Houellebecq decostruisce la classica rappresentazione di un mondo analizzabile in parti autonome per sostituirla con una concezione olistica del dispiegamento narrativo. Da questo punto di vista, la storia dei due fratellastri è meno quella di due individui separati, quanto la ricostituzione di un movimento storico globale a partire da due luoghi ontologici interdipendenti. In un'ontologia di stati, infatti, il postulato dell'esistenza di individui autonomi non è altro che un'ipotesi di lavoro, adottata ai fini economici dell'adattamento. Come spiega Michel a suo fratello:
“Hai una consapevolezza di te stesso; questa consapevolezza permette di avanzare un'ipotesi. La storia che riuscite a ricostruire dai vostri stessi ricordi è una storia consistente, giustificabile nel principio di una narrazione univoca. Come individuo isolato, che persevera nell'esistenza per un certo periodo di tempo, soggetto a un'ontologia di oggetti e proprietà, non hai dubbi su questo punto; dobbiamo necessariamente essere in grado di associarti a una storia consistente di Griffiths. Questa ipotesi a priori, la fai per il dominio della vita reale, non la fai per il dominio dei sogni”.
È a questo sogno che il romanzo dà forma, iscrivendo la nuova ontologia nel non-luogo dell'utopia planetaria. Ma nel mondo reale, che è anche quello del lettore, non c'è alternativa al linguaggio naturale, che presuppone l'esistenza di individui autonomi, dotati di qualità proprie e di una storia suscettibile di mutare, da configurare all'interno di una narrazione. La realtà ultima della materia è in ultima analisi pensabile e dicibile solo a partire da un linguaggio che presuppone il suo contrario, cioè un mondo di cose dato in anticipo. Tra realtà dicibile e realtà quantistica ci sono però possibili mediazioni, come le “storie consistenti di Griffiths” che Michel evoca all'inizio del romanzo:
“Le storie consistenti di Griffiths furono introdotte nel 1984 per collegare le misurazioni quantistiche a narrazioni plausibili. Una storia di Griffiths è costruita da una serie di misure più o meno arbitrarie che si svolgono in momenti diversi. […] Da un sottoinsieme di misurazioni si può definire una storia, logicamente coerente, che però non può dirsi vera; può semplicemente essere sostenuta senza contraddizione. Delle possibili storie del mondo in un dato contesto sperimentale, alcune possono essere riscritte nella forma normalizzata di Griffiths; si chiamano allora storie consistenti di Griffiths, e tutto accade come se il mondo fosse composto da oggetti separati, dotati di proprietà intrinseche e stabili. Tuttavia, il numero di storie di Griffiths che possono essere riscritte da una serie di battute è solitamente significativamente maggiore di una”.
Nelle storie consistenti, l'approccio all'interpretazione quantistica è ampiamente compatibile con la meccanica quantistica standard come si trova nei libri di testo. Tuttavia, il concetto di misurazione con cui le probabilità vengono introdotte nella teoria quantistica standard non gioca più un ruolo fondamentale. Invece, tutta la dipendenza quantistica dal tempo è probabilistica (stocastica), con probabilità date dalla regola di Born o dalle sue estensioni. Richiedendo che la descrizione di un sistema quantistico venga eseguita utilizzando uno spazio campionario probabilistico ben definito (chiamato "framework"), questo approccio risolve tutti i ben noti paradossi dei fondamenti quantistici. In particolare, la meccanica quantistica è locale e coerente con la relatività ristretta. La meccanica classica emerge come un'utile approssimazione alla meccanica quantistica più fondamentale in condizioni adeguate. Il prezzo da pagare per questo è un insieme di regole di ragionamento simili, ma anche significativamente diverse da quelle che compongono la logica quantistica. Un'importante implicazione filosofica è la mancanza di un unico stato di cose universalmente vero in ogni istante di tempo.

Le storie consistenti di Griffiths sono sequenze di eventi ricostruiti dal pensiero, in modo tale che il loro verificarsi attestato non avrebbe alterato l'esito della previsione. Questo metodo di ricostruire a posteriori ciò che è accaduto prima della misura ha il pregio di giustificare il discorso spontaneo dei fisici delle particelle che, dall'osservazione di un impatto su un rivelatore, cercano nelle proprietà il filo di una sorta di catena di cause. Permette, in altre parole, di configurare in una narrazione gli eventi istantanei e virtuali che sono costitutivi della fisica quantistica. Tuttavia, la fisica quantistica generalmente consente più di una storia consistente tra due misurazioni.

A essere rigorosi, queste storie devono quindi essere considerate come finzioni che hanno un certo grado di attendibilità (probabilistica) ma non soddisfano il criterio della verità, che richiederebbe l'esistenza di un'unica storia tra due misurazioni reali. È in termini molto simili che la narrazione si riflette nell'epilogo del romanzo: come “ricostruzione credibile basata su ricordi parziali” piuttosto che “riflesso di una verità inequivocabile e attestabile”. La finzione non racconta fatti reali ma li ricostruisce secondo le modalità più generali del possibile e del probabile. Posizionandosi fin dall'inizio nell'inverificabile, la finzione è libera di moltiplicare all'infinito le possibilità di trattamento. Così facendo, non volta le spalle a un'ipotetica realtà oggettiva ma la affronta come un problema irrisolto, avviandosi alla ricerca di una verità meno rudimentale, più congetturale e meno univoca. La finzione può quindi essere un operatore di conoscenza e la fisica quantistica se ne serve, non solo come ultima risorsa, ma come strategia che contribuisce pienamente al suo successo cognitivo. La finzione, infatti, non è l'esposizione romanzata di questa o quella verità, ma una trattazione specifica del mondo che consiste non nell'eludere le regole che la trattazione della verità richiede, ma nell'evidenziare la natura complessa della situazione, che vieta di limitare la questione della verità a quella del verificabile. Di conseguenza, tra scienza e letteratura, si tratta meno di una contrapposizione che di una complementarità: accettando di lavorare nell'inverificabile per rispondere meglio alle esigenze della verità, giocano il gioco della finzione per proporre possibili scenari del nostro futuro.

L'ultima parola è lasciata al successore dell'uomo, in un ultimo omaggio a questa specie che, “per la prima volta nella storia del mondo, ha potuto intravedere la possibilità del proprio superamento; e che, qualche anno dopo, seppe mettere in pratica questo superamento”. Un tributo ambiguo perché reso da questo luogo impensabile che è la storia della post-umanità. Vale a dire dalla post-storia di un'umanità che ha rinunciato ai suoi attributi più specifici: desiderio, soggettività, individualità. Come se l'uomo possa raggiungere l'umanità solo a costo della propria negazione.

martedì 21 settembre 2021

Alla scoperta delle particelle atomiche

 


Un fisico è il modo che ha l'atomo di sapere qualche cosa sugli atomi

Le indagini per scoprire la struttura interna dell'atomo iniziarono con la scoperta dell'elettrone da parte del fisico inglese J. J. Thomson nel 1897. Thomson dimostrò che i raggi catodici non erano una sorta di fenomeno indefinito che si verificava in un "etere" ancor più vago, ma erano in realtà composti da particelle estremamente piccole e cariche negativamente, perché erano respinte dall'elettrodo negativo di un tubo di scarica (tubo di Crookes). Thomson chiamò queste cariche negative "corpuscoli". Il lavoro di Thomson fu pubblicato nell'edizione di marzo del 1904 del Philosophical Magazine. Per i corpuscoli di Thomson si riprese poi il nome di elettrone proposto nel 1891 dall’irlandese George Stoney quando introdusse il concetto puramente matematico di "unità di carica fondamentale". Nel suo articolo, Thomson, dimostrò che gli elettroni erano molto più piccoli dell’atomo, ne erano dei costituenti e, quindi, che l’atomo non era la particella fondamentale della materia (l’atomo, che significa “non divisibile”, era divisibile).

Thomson propose per l'atomo un modello continuo: esso era visto come una nube di carica positiva che compensava la carica negativa degli elettroni, i quali erano disposti al suo interno in modo quasi casuale, come i canditi nel tipico dolce natalizio britannico, il plum pudding, o come anche l'uvetta nel panettone. Da ciò, si indica usualmente il modello atomico di Thomson come “modello a panettone”. È importante notare che, in questa rappresentazione, gli elettroni, seppur disposti casualmente, non sono statici. La loro carica esatta (per i tempi) fu misurata nel 1909 da Robert Millikan e Harvey Fletcher.



Il fisico giapponese Hantaro Nagaoka rifiutò il modello di Thomson sulla base del fatto che le cariche opposte sono impenetrabili. Nel 1904 propose un modello planetario alternativo dell'atomo, in cui un centro carico positivamente è circondato da un numero di elettroni rotanti, alla maniera di Saturno e dei suoi anelli. Tuttavia, molti dettagli del modello non erano corretti. In particolare, gli anelli elettricamente carichi sarebbero instabili a causa della perturbazione repulsiva. Lo stesso Nagaoka abbandonò il modello nel 1908.


Nello stesso periodo, anche le scoperte relative al fenomeno della radioattività avevano iniziato a dare impulso alla ricerca atomica. Nel 1896, il francese Antoine Becquerel individuò le forme base di radioattività, che Ernest Rutherford, allora uno studente di Thomson, chiamò alfa e beta. Nello stesso anno, i coniugi Marie e Pierre Curie iniziarono a lavorare sull'emissione di radiazioni da parte dell'uranio e del torio. I Curie presto annunciarono le loro scoperte fondamentali sulla radioattività naturale di radio e polonio. Nel 1900, Becquerel poté comunicare che le particelle beta e gli elettroni erano la stessa cosa.



L’importanza di chiamarsi Ernest

Nel primo decennio del XX secolo, Ernest Rutherford (1871-1937), iniziò a riunire tutte queste informazioni in un insieme coerente. Rutherford era figlio di una famiglia di contadini inglesi emigrati in Nuova Zelanda. Talento precoce, nel 1895 aveva ottenuto una borsa di ricerca per recarsi in Inghilterra presso il Cavendish Laboratory dell’Università di Cambridge, che allora era diretto da J.J. Thomson, con il quale contribuì alla scoperta dell'elettrone. 

Nel 1903, propose che la radioattività fosse causata dalla rottura degli atomi. Frederick Soddy (Nobel per la chimica nel 1921), insieme a Rutherford, scoprì che il torio radioattivo si trasformava in radio. Al momento della scoperta, ricordò in seguito Soddy, gridò: "Rutherford, questa è trasmutazione!" Rutherford ribatté di scatto, "Per l'amor di Dio, Soddy, non chiamarla trasmutazione. Ci faranno saltare la testa come alchimisti!" Rutherford e Soddy stavano osservando la trasmutazione naturale di un elemento in un altro mediante il decadimento radioattivo di tipo alfa. I due scoprirono poi che un campione di torio di qualsiasi dimensione impiegava invariabilmente lo stesso tempo per il decadimento radioattivo di metà della sua massa: la sua "emivita" (11 minuti e mezzo in questo caso). Sempre nel 1903, Rutherford considerò un tipo di radiazione emessa dal radio, scoperta dal francese Paul Villard tre anni prima, e si rese conto che essa doveva rappresentare qualcosa di diverso dai raggi alfa e beta, a causa del maggiore potere di penetrazione. Rutherford diede a questo terzo tipo di radiazione il nome di raggio gamma. Tutti e tre i termini di Rutherford sono oggi di uso standard.

Alla fine del 1907, Rutherford e Thomas Royds poterono dimostrare che le particelle alfa erano atomi di elio ionizzati, e probabilmente nuclei di elio. Il Premio Nobel per la Chimica del 1908 gli fu assegnato "per le sue indagini sulla disintegrazione degli elementi e sulla chimica delle sostanze radioattive".

Nel 1911, insieme al fisico tedesco Hans Geiger, per qualche settimana suo ospite a Cambridge, e al neozelandese Ernest Marsden, studente di dottorato di quest’ultimo, postulò che gli elettroni orbitano attorno al nucleo di un atomo, proprio come i pianeti orbitano attorno al sole. Studiando la deflessione (cambio di traiettoria) delle particelle alpha, Rutherford ipotizzò la presenza, all'interno dell'atomo, di una forte concentrazione di materia in un volume molto piccolo, ovvero il nucleo, circa 100.000 volte più piccolo dell'atomo stesso, facendo risultare l'atomo essenzialmente vuoto. Nell'articolo The Scattering of α and β Particles by Matter and the Structure of the Atom (La diffusione di particelle α e β e la struttura dell'atomo), Rutherford rigettò definitivamente il modello atomico di Thomson, poiché secondo quel modello né le particelle con carica negativa, ossia gli elettroni, né la distribuzione di carica positiva che doveva contenerli sarebbero stati in grado di produrre deflessioni così marcate. Nacque così il modello atomico che da Rutherford prende il nome. 



L’esperimento era abbastanza semplice: Geiger e Marsden bombardarono una sottile lamina d’oro con dei raggi alfa provenienti da una sorgente radioattiva. Dal lato opposto rispetto al punto di collisione, osservarono la distribuzione delle particelle alfa che avevano attraversato la lamina e andavano a colpire uno schermo fluorescente. Una parte delle particelle era deviata, da cui dedussero l’esistenza, al centro dell’atomo, di un nucleo di carica positiva. Se l’atomo fosse stato omogeneo, nessuna particella sarebbe stata deflessa.


Fu il danese Niels Bohr a combinare i concetti atomici di Rutherford con la teoria quantistica di Max Planck per produrre il primo modello moderno dell'atomo. Nel 1913, Bohr dimostrò che gli elettroni si muovono attorno al nucleo con carica positiva di un atomo in certi "gusci" di energia discreta e che la radiazione viene emessa o assorbita quando un elettrone si sposta da un guscio all'altro. L'anno successivo, l’inglese Henry Moseley, bombardando diversi elementi chimici con elettroni ad alta energia e misurando la lunghezza d'onda e le frequenze dei raggi X risultanti, dimostrò che ogni elemento poteva essere identificato dal suo unico "numero atomico", in quanto ogni elemento emette raggi X a una frequenza unica. Osservò anche che poteva ottenere una retta tracciando in un grafico la radice quadrata della frequenza dei raggi X in funzione dei numeri atomici degli elementi.

La seconda particella atomica fondamentale, il protone, fu identificata da Rutherford in alcuni esperimenti condotti a partire dal 1917 e i cui risultati vennero diffusi in un articolo nel 1919. Questi esperimenti iniziarono dopo che Rutherford aveva notato che, quando le particelle alfa venivano sparate nell'aria (composta principalmente da azoto), i suoi rivelatori a scintillazione mostravano le tracce dei tipici nuclei di idrogeno come prodotto. Allora aveva preso un materiale emettitore di particelle alfa (nuclei di elio) e lo aveva sistemato vicino a un contenitore pieno di azoto. Analizzando l’emissione del contenuto, si accorse che le particelle α erano capaci di produrre nuclei di idrogeno dopo aver bombardato l’azoto. Rutherford ipotizzò che le particelle alfa avessero semplicemente eliminato un protone dall'azoto, trasformandolo in carbonio.

Il 24 agosto del 1920, durante il congresso della British Association for the Advancement of Science a Cardiff, egli commentò: “Dobbiamo concludere che l'atomo di azoto si è disintegrato sotto la forza intensa sviluppata in una collisione ravvicinata con una particella alfa veloce, e che l’atomo di idrogeno che si è liberato forma una parte costituente del nucleo dell’azoto”. Il nucleo dell'idrogeno aveva, dunque, un ruolo fondamentale all'interno dei nuclei di ogni elemento atomico, motivo per cui Rutherford propose l'uso di un nome apposito. La sua proposta di protone (proton) venne accettata dalla comunità scientifica. 

Nel 1919 Rutherford era succeduto a J. J. Thomson come direttore del Cavendish Laboratory. Nella sua conferenza d’onore (“lezione Bakeriana”) alla Royal Society di Londra del 3 giugno 1920, descrisse lo stato delle conoscenze del momento sui nuclei atomici. Suggerì che esistesse, all’interno del nucleo atomico, una combinazione stretta tra elettroni e protoni. All'epoca si riteneva infatti che il nucleo fosse costituito da protoni ed elettroni, quindi il nucleo di azoto, ad esempio, con un numero di massa di 14, si presumeva contenesse 14 protoni e 7 elettroni (di massa trascurabile). Ciò sembrava dare le giuste massa e carica (il concetto di spin e di esclusione erano di là da venire). La memoria cominciava con la trattazione degli angoli di deviazione nell’esperimento di diffusione delle particelle α con nuclei di altri elementi, in cui si discuteva la differenza tra ciò che si era osservato e le predizioni attraverso la legge di Coulomb di repulsione tra particelle cariche. Successivamente mostrò come, dai risultati, fosse possibile dedurre un valore per le dimensioni del nucleo (circa 10−4 m).

Considerò, inoltre, il processo di trasmutazione dell’azoto e chiese al fisico e matematico di Cambridge Patrick Blackett di utilizzare una camera a nebbia, di cui era esperto, per trovare tracce visibili di questa disintegrazione. La camera a nebbia è un semplice rilevatore di particelle utilizzato per visualizzare il passaggio di radiazioni ionizzanti. Essa era costituita da un ambiente sigillato contenente un vapore supersaturo di acqua o alcool. Una particella con carica energetica (ad esempio, una particella alfa o beta) interagiva con la miscela gassosa spostando gli elettroni dalle molecole di gas tramite forze elettrostatiche durante le collisioni, provocando una scia di particelle di gas ionizzato. Gli ioni risultanti agivano come centri di condensazione attorno ai quali si formava una scia simile a nebbia di piccole goccioline se la miscela di gas era nel punto di condensazione. Queste goccioline erano visibili come una traccia a "nuvola" che persisteva per diversi secondi mentre le goccioline cadevano attraverso il vapore. Queste tracce avevano forme caratteristiche. Ad esempio, una traccia di particelle alfa era spessa e diritta, mentre una traccia di elettroni era sottile e mostrava più evidenze di deviazioni da collisioni.


Blackett scattò 23.000 fotografie che mostravano 415.000 tracce di particelle ionizzate. Otto di queste si biforcavano, mostrando che la combinazione atomo di azoto-particella alfa aveva formato un atomo di fluoro, che poi si era disintegrato in un isotopo di ossigeno 17 (e non di carbonio come inizialmente ipotizzato da Rutherford), un protone e un fotone. Blackett pubblicò i risultati dei suoi esperimenti nel 1925. La trasmutazione avveniva secondo la reazione nucleare descritta qui sotto (la notazione utilizzata fa riferimento a quella moderna, non ancora utilizzata dai fisici di quell’epoca): 


Blackett realizzò così la prima reazione nucleare provocata artificialmente, trovando che i nuclei di azoto catturano le particelle alfa ed emettono un protone ad altissima velocità trasformandosi infine nell'isotopo stabile dell'ossigeno di numero di massa 17. Rutherford riconobbe "che il nucleo può aumentare piuttosto che diminuire di massa come risultato di collisioni in cui viene espulso il protone".

Rutherford dedicò l’ultima parte della conferenza londinese alla struttura del nucleo, spiegando che il nucleo di un atomo è caratterizzato dal “numero di massa” A, numero intero più vicino al rapporto fra la massa dell’atomo e quella dell’atomo di idrogeno, e dal “numero atomico” Z, corrispondente al numero di elettroni. Si conoscevano allora solo elettroni, di massa trascurabile e carica elettrica unitaria negativa, e protoni, di carica unitaria positiva, per cui un nucleo caratterizzato dai numeri A e Z era necessariamente descritto come composto da A protoni, che fornivano la massa, e da AーZ elettroni, in modo da ridurre a Z unità la carica elettrica positiva dell’atomo. Rutherford considerò che, essendo l’atomo neutro di idrogeno assunto come nucleo di carica unitaria con un elettrone strettamente associato, fosse possibile l’esistenza di un atomo neutro con A=1 e Z=0, dato dall’unione di un elettrone con un protone. Ipotizzò, inoltre, che potesse esistere anche una sorta di coppia neutra, con un nucleo con A=2 e Z=1: un isotopo pesante dell’idrogeno. Considerò in dettaglio le “nuove” proprietà che questo atomo avrebbe dovuto avere, ovvero un campo esterno praticamente nullo, eccetto a distanze molto piccole, quindi vicine al nucleo, e che conseguentemente poteva muoversi attraverso la materia.

Se un atomo del genere fosse stato possibile, ci si aspettava che sarebbe stato prodotto, probabilmente in piccole quantità, nella scarica elettrica attraverso l’idrogeno, dove sono presenti sia l’elettrone che il nucleo di idrogeno. L’esistenza di questo atomo sembrava necessaria nella spiegazione della struttura dei nuclei più pesanti.


Hypotheses fingo

La spinta iniziale per l’introduzione del neutrone quale componente del nucleo atomico si deve sempre a Rutherford, che, nel tentativo di spiegare i fatti contraddittori nelle proprietà dell’atomo, che allora si pensava composto solo da protoni ed elettroni, propose l’esistenza nel nucleo atomico di un’altra particella, di carica nulla e massa leggermente superiore a quella del protone. Queste particelle, aumentando le forze nucleari attrattive, avrebbero potuto compensare l'effetto repulsivo delle cariche elettriche positive dei protoni, impedendo così ai nuclei degli atomi pesanti di disintegrarsi. 

 Partendo da questa ipotesi, James Chadwick, che dal 1921 era vicedirettore del Cavendish, intraprese una serie di esperimenti a lungo infruttuosi per verificare la presenza di tale particella nucleare. Chadwick (1891-1974) aveva studiato alla Victoria University di Manchester con Rutherford fino a quando ottenne il Master of Science nel 1913. Lo stesso anno, gli fu assegnata una borsa di studio per la ricerca. Scelse di studiare la radiazione beta sotto Hans Geiger a Berlino. Utilizzando il contatore recentemente sviluppato da Geiger, Chadwick fu in grado di dimostrare che la radiazione beta produce uno spettro continuo e non linee discrete come si pensava. Era in Germania quando scoppiò la Prima Guerra mondiale e trascorse i successivi quattro anni nel campo di internamento di Ruhleben presso Berlino.

Dopo la guerra, Chadwick seguì Rutherford al Cavendish Laboratory, dove conseguì il dottorato nel giugno 1921. Fu per oltre un decennio assistente direttore della ricerca di Rutherford presso il Cavendish Laboratory, quando era uno dei centri più importanti al mondo per lo studio della fisica. Seguendo l’idea di Rutherford, Chadwick tentò di bombardare il berillio con particelle α, particelle β e con raggi γ, usando il metodo degli scintillatori per rivelare gli effetti, ma non trovò nulla. La natura delle forze dentro al nucleo rimase misteriosa, ma si sviluppò un nuovo modello fenomenologico del potenziale nucleare. Crebbero anche gli esperimenti in cui rimaneva inspiegato il comportamento degli elettroni nucleari, che, in combinazione con la metà dei protoni nucleari, consentivano di tenere conto in via teorica sia della massa isotopica che del numero atomico. 

A una conferenza a Cambridge sulle particelle beta e sui raggi gamma nel 1928, Chadwick incontrò di nuovo Geiger, sotto il quale aveva studiato prima della guerra. Geiger aveva portato con sé un nuovo modello del suo contatore, che era stato migliorato dal suo studente di post-dottorato Walther Müller. Il nuovo contatore Geiger-Müller costituiva un miglioramento importante rispetto alle tecniche di scintillazione allora in uso a Cambridge, che si basavano sull'occhio umano per l'osservazione. Il suo principale svantaggio era che rilevava le radiazioni alfa, beta e gamma, ma il radio, che il laboratorio Cavendish normalmente usava nei suoi esperimenti, emetteva tutti e tre i tipi di radiazione, ed era quindi inadatto a ciò che Chadwick aveva in mente. Invece il polonio è un emettitore alfa e Lise Meitner, su invito di Geiger, ne procurò a Chadwick circa 2 millicurie (circa 0,5 μg) dalla Germania.

 Rutherford perse in questo periodo interesse rispetto al problema degli elettroni nel nucleo. Tra il 1925 e il 1930 fu presidente della Royal Society e in seguito presidente dell'Academic Assistance Council che aiutò quasi mille rifugiati universitari dalla Germania. Fu nominato all'Ordine al Merito nel 1925 e nominato Pari come Barone Rutherford di Cambridge nel 1931, titolo che si estinse nel 1937 con la sua morte, dovuta a un’ernia intestinale.


Bothe e Becker

Nel 1930 a Berlino fu compiuto il primo passo concreto verso la scoperta del neutrone: il fisico e matematico berlinese Walther Bothe osservò che esiste una radiazione penetrante che riesce a passare attraverso uno spessore di 200 mm di piombo. 

Walther Bothe (1891-1957) aveva studiato dal 1908 al 1912 all'Università di Berlino, dove fu allievo di Max Planck, conseguendo il dottorato poco prima dello scoppio della Prima Guerra mondiale. Dal 1913 al 1930 lavorò presso il Physikalisch-Technische Reichsanstalt nella stessa città, divenendo Professore Straordinario nell'Università. Nel 1930 fu nominato Professore di Fisica e Direttore dell'Istituto di Fisica dell'Università di Giessen. 

Insieme a Geiger, la cui influenza determinò gran parte del suo lavoro scientifico, pubblicò, nel 1924, il metodo della coincidenza tra reti di contatori Geiger, che selezionano particelle che si muovono in una data direzione; il metodo può essere utilizzato, ad esempio, per misurare la distribuzione angolare dei raggi cosmici. Bothe applicò questo metodo allo studio dell'effetto Compton e ad altri problemi di fisica. Insieme, lui e Geiger studiarono la diffusione a piccoli angoli dei raggi luminosi e Bothe stabilì le basi dei metodi moderni per l'analisi dei processi di dispersione. Dal 1923 al 1926 Bothe si concentrò in particolare sulla teoria corpuscolare della luce. Nel 1927 chiarì ulteriormente, mediante il suo metodo, le idee sui quanti di luce e l'interferenza.

Nel 1930 Bothe, in collaborazione con il suo studente Herbert Becker, bombardò il berillio di massa 9 (e anche boro e litio) con raggi alfa derivati ​​dal polonio, e ottenne una nuova forma di radiazione ancora più penetrante dei raggi gamma più duri derivati ​​dal radio

Essi, infatti, stavano studiando l’irraggiamento di alcuni elementi leggeri da parte delle particelle α, dotate di grande energia, emesse da una sorgente di polonio. In questa reazione, le particelle α spesso interagiscono con i nuclei bersaglio producendo un protone e un raggio γ, come aveva scoperto Rutherford quando aveva studiato l’emissione di particelle alfa dall’azoto. 

La strumentazione dell’esperimento consisteva in un contatore Geiger, un recipiente di metallo su cui appoggiare la sorgente di polonio in una posizione fissata, e un’asta verticale, alla cui estremità inferiore era attaccato un sottile strato delle sostanze che dovevano essere irradiate, ognuna messa in modo da coprire 120° del disco. Grazie alla rotazione dell’asta era possibile scegliere quale sostanza inserire tra la sorgente e la parte inferiore del recipiente, ovvero quale irraggiare con le particelle α. Gli strati delle sostanze erano sufficientemente spessi da fermare le particelle α incidenti e gli spessori della parete del contatore e del recipiente riuscivano ad assorbire i raggi X emessi dagli atomi delle sostanze irradiate. Tutto l’apparato era protetto dalla radiazione ambientale attraverso un cilindro di piombo. La tecnica sperimentale prevedeva che, bombardando una sostanza con particelle α emesse da una sorgente radioattiva, si formassero un fotone e un protone. Osservarono, invece, che con nuclei di berillio, boro e litio veniva emessa una radiazione sconosciuta e in special modo il primo tra questi elementi dava un effetto particolarmente marcato.


Bothe e Becker fecero più prove: posero degli strati di 1 o 2 cm di piombo, tra il recipiente e il contatore, ridussero l’energia delle particelle α incidenti e interposero fogli di argento tra la sorgente e lo strato di berillio, infine per una variazione più fine introdussero aria ad una pressione conveniente dentro il recipiente di metallo. Per ogni prova calcolarono la curva e il coefficiente di assorbimento. Poterono così comparare le curve prodotte senza e con lo strato di piombo e notarono che la radiazione emessa nel secondo caso aveva un’energia maggiore di quella delle particelle α incidenti e dell’energia dei raggi γ emessi da qualsiasi ordinaria sostanza radioattiva. Le diedero il nome di “seconda radiazione”. La differenza dalla “prima” era che non veniva emesso il protone, ma una sorta di radiazione energetica neutra: poteva infatti penetrare fogli di metallo, ma non venire deflessa da un campo magnetico come le altre particelle cariche elettricamente. L’unica cosa conosciuta fino a quel momento che potesse avere queste caratteristiche era la radiazione γ, così fu naturale l’interpretazione che i risultati mostrassero la mancanza di protoni come prova dell’emissione di raggi γ di straordinaria energia.

Per la sua scoperta del metodo della coincidenza e per le scoperte successivamente ottenute, che posero le basi della spettroscopia nucleare, Bothe fu insignito, insieme a Max Born, del Premio Nobel per la Fisica per il 1954.

A Heidelberg, Bothe riuscì, dopo molte difficoltà, a ottenere il denaro necessario per costruire un ciclotrone. Lavorò, durante la Seconda guerra mondiale del 1939-1945, alla teoria della diffusione dei neutroni e alle misurazioni ad essi relative. Alla fine della guerra, quando l’Istituto fu rilevato per altri scopi, Bothe tornò al Dipartimento di Fisica dell'Università, dove insegnò fino a quando la malattia che lo aveva invalidato per diversi anni lo costrinse a restringere il campo di applicazione del suo lavoro. Riuscì, tuttavia, a supervisionare il lavoro dell'Istituto di Fisica nel Max Planck Institute e continuò a farlo fino alla sua morte a Heidelberg, l'8 febbraio 1957.

Dopo questo passo compiuto in Germania, si aprivano due differenti linee di ricerca: cercare di spiegare l’assorbimento di una particella α da parte di un nucleo di berillio e della successiva emissione di un fotone di energia così elevata, oppure usare la sorgente Po-Be per studiare l’interazione radiazione-materia ad energia intermedia tra quella dei raggi γ ordinari e quella dei raggi cosmici.

Il primo approccio fu indagato al laboratorio Cavendish, a Cambridge, da Henry Webster. Trovò, nel caso del berillio (e del boro), che il processo responsabile per l’emissione del fotone ad alte energie dovesse essere la cattura della particella α da parte del nucleo di berillio (o del boro) che emetteva un surplus di energia come radiazione. All’inizio del 1932 fece un’altra importante osservazione: vide che la radiazione emessa dal berillio nella stessa direzione delle particelle α incidenti è molto più penetrante di quella emessa nella direzione opposta. Mise in dubbio che la radiazione Po-Be fosse costituita da raggi γ. Fece nuovi esperimenti con una camera a nebbia, ma senza risultati significativi, probabilmente perché non aveva apparati sperimentali adatti.


Curie e Joliot

Il secondo approccio, cioè quello che si poneva il problema di studiare l’interazione tra radiazione e materia ad energie intermedie, fu seguito a Parigi da Irène Curie e Frédéric Joliot. 



Irène Curie (1896-1957) era la figlia primogenita di Pierre e Marie Curie, Durante la Prima Guerra mondiale, insieme con la madre Marie, prestò servizio presso gli ospedali da campo istituiti dalla madre, assistendola nell'esecuzione di lastre ai raggi X per i feriti. La tecnologia ancora immatura le espose però a grandi dosi di radiazioni. Terminata la guerra, Irène tornò a Parigi a studiare all'Istituto del Radio (Istituto Curie), fondato dai suoi genitori, ottenendo il dottorato in scienze nel 1925. Lì conobbe il fisico Frédéric Joliot (1900-1958) che sposò nell’ottobre 1926, dal quale ebbe due figli, divenuti anche loro scienziati, Hélène Langevin-Joliot (1927), fisica nucleare, e Pierre Joliot (1932), biochimico. 

Irène Curie, studiando l'assorbimento della radiazione secondaria da berillio e litio, scoprì essa che attraversava i materiali ancora più facilmente di quanto stimato inizialmente da Bothe, in quanto passava oltre uno strato di piombo tre volte più spesso di quello in grado di assorbire i raggi più penetranti emessi dagli elementi radioattivi. Frédéric Joliot studiò contemporaneamente la radiazione emessa dal boro bombardato da particelle α del polonio, arrivando a una conclusione analoga. Per spiegare questo effetto, entrambi ipotizzarono energie molto elevate di tali raggi γ.

Due anni dopo, i Joliot-Curie osservarono, misurando insieme la ionizzazione prodotta da tale "radiazione del berillio" secondaria in una camera con una sottile finestra di alluminio, che la ionizzazione nella camera aumentava quando mettevano materia contenente idrogeno (ad esempio paraffina) davanti alla fenditura. L'effetto sembrava essere dovuto all'espulsione di protoni con velocità fino a un massimo di quasi il 10% della velocità della luce. 

Curie e Joliot pensarono che i protoni con alta energia potessero produrre una sorta di trasmutazione: per cercare una risposta, allora, idearono un esperimento in cui posero sottili strati di vari materiali in contatto con la parte alta della camera di ionizzazione, consistente in un foglio di alluminio. Infatti, l’energia, quindi la velocità, dei protoni poteva essere dedotta determinando lo spessore di un foglio di metallo posto davanti all’apparato e quanto veniva penetrato dai protoni prima di fermarsi, oppure misurando quante coppie di ioni si creavano in un contatore Geiger. 

La strumentazione sperimentale usata dai coniugi consisteva in un recipiente contenente il polonio che emetteva le particelle α, una camera di ionizzazione come rivelatore, collegata ad un voltametro di Hoffmann. I due trovarono così che l’energia dei supposti raggi γ emessi era di 0.6 MeV per il litio, 15-20 MeV per il berillio e 11 MeV per il boro. 

Questi ultimi due valori erano più elevati rispetto a quelli trovati da Bothe e Becker. Joliot e Curie sostennero allora che il processo responsabile dell’emissione dei raggi γ di seconda radiazione non poteva essere una diffusione anelastica (un urto in cui le particelle vengono diffuse con una frequenza più alta o più bassa di quella originaria) a così alte energie, per cui il processo doveva essere il decadimento ipotizzato precedentemente. L’11 gennaio del 1932 Jean-Baptiste Perrin presentò all’Académie des Sciences l’articolo dei coniugi, in cui essi riportavano la possibilità che i raggi y ad alte energie potessero forse produrre qualche trasmutazione: infatti videro che con certi materiali (C, Al, Cu, Ag, Pb) non erano visibili cambiamenti, mentre con sostanze idrogenate, come la paraffina, si notava un incremento nella corrente di ionizzazione di un fattore due a causa dell’espulsione di protoni ad alte energie. Questi protoni vennero chiamati “terza radiazione”. Grazie a questo risultato calcolarono l’energia che dovevano avere i raggi gamma sui vari elementi per poter causare la radiazione, attraverso l’esperimento con il foglio di alluminio. Trovarono che il processo non poteva essere, definitivamente, uno scattering anelastico (un urto), ma proprio un processo di assorbimento della particella α. Secondo Curie e Joliot, doveva avvenire una sorta di trasmutazione con le sostanze idrogenate. Notarono che i protoni venivano emessi anche dall’acqua utilizzata come sostanza idrogenata nell’esperimento.



Per conoscere la natura di questa “terza radiazione” emessa dalle sostanze idrogenate tentarono inizialmente di defletterla con un campo magnetico, senza risultati apprezzabili. Successivamente misurarono l’assorbimento di essa nell’argento e nell’alluminio e conclusero che questa ulteriore radiazione era un’espulsione di protoni la cui energia, determinata approssimativamente, era di 4.5 MeV per il berillio e di 2 MeV per il boro. Per spiegare la produzione di protoni dai raggi γ, osservarono che l’effetto assomigliava all’effetto Compton (urto tra un fotone e un elettrone). Ipotizzando che essi venissero espulsi a causa dei raggi γ sulla paraffina, applicarono ai protoni le relazioni dell’effetto Compton per risalire all’energia minima necessaria per produrre protoni. Trovarono che i raggi γ emessi dal Be (e dal B) dovevano aver energia almeno di 50 (e di 35) MeV. Tale calcolo dell’energia minima risultava in contrasto sia con il valore misurato direttamente da Bothe, sia con la energia delle onde α emesse dal polonio da cui si originava il tutto (circa 5.25 MeV). Tutto ciò spinse i coniugi Joliot a ipotizzare di avere scoperto una nuova forma di interazione tra la radiazione e la materia, diversa dall’effetto Compton. Infatti, pensavano di aver trovato una radiazione in grado di espellere protoni dalla paraffina, ma che energeticamente non era giustificabile con l’effetto ipotizzato: se quella radiazione fosse stata costituita da raggi γ, questi non avrebbero mai avuto l’energia in grado di espellere protoni dalla materia. Con i raggi γ sono possibili effetti Compton, ma questo effetto riguarda gli elettroni, mentre un protone è circa 2000 volte più pesante, per cui l’energia dei raggi γ e la sezione d’urto sono totalmente inefficaci. Secondo Leonardo Sciascia, quando Ettore Majorana venne a conoscenza degli esperimenti dei Joliot-Curie, disse a Segré e Amaldi: “Che sciocchi, hanno scoperto il protone neutro [neutrone] e non se ne sono accorti”.


Provaci ancora, James!

Dall’altra parte della Manica, Chadwick venne a conoscenza dei risultati di Joliot e Curie, e pensò che anche in questo caso si trovasse la prova che nell’emissione del berillio erano presenti particelle neutre. Ripeté allora gli esperimenti dei due coniugi francesi. Concentrandosi sullo studio del carattere dell’emissione ad alta energia del berillio, diresse questa radiazione verso altri materiali: idrogeno, azoto, argo, aria. In ognuna di queste sostanze la radiazione del berillio provocava l’espulsione di protoni dal nucleo.

Ora, se la radiazione del berillio fosse stata una forma di emissione di raggi y, l’energia di questi protoni sarebbe stata facilmente calcolabile per mezzo dell’effetto Compton. I calcoli teorici ottenuti da Chadwick erano però in completo disaccordo con la misura dell’energia dei protoni ricavata sperimentalmente. I suoi esperimenti al Cavendish Laboratory si basavano su una camera di ionizzazione collegata a un amplificatore, che a sua volta era collegato a un oscilloscopio. Si trattava di un semplice apparato, che consisteva in un cilindro contenente una sorgente di polonio e un bersaglio di berillio. Le particelle ionizzanti, entrando nella camera, avrebbero fatto fluttuare la traccia luminosa dell’oscilloscopio, che era registrata in continuazione su carta fotografica. La sorgente delle radiazioni era costituita da un disco di metallo placcato con del polonio e da un disco di berillio puro, entrambi posti in un recipiente sottovuoto; le particelle spostate finivano in una piccola camera di ionizzazione dove potevano essere rilevate l’oscilloscopio. 

Chadwick notò che, quando la sorgente era posta a grande distanza dalla camera, la media delle oscillazioni era di sette all’ora. Quando la sorgente veniva posta a pochi centimetri, la media aumentava a più di 200 oscillazioni all’ora (le oscillazioni erano provocate dagli atomi dell’aria presente nella camera, messi in movimento dalla radiazione). 

La frapposizione di alcuni fogli di piombo tra la camera e la sorgente non aveva alcun effetto sulla media delle oscillazioni, fatto che dimostrava la natura ad alta penetrazione della radiazione. Sostituendo i fogli di piombo con dei fogli di paraffina la media delle oscillazioni raddoppiava. Chadwick constatò che questo raddoppio era dovuto all’espulsione di protoni dalla paraffina, proprio come nell’esperimento dei Joliot-Curie. 


Dopo aver ripetuto e migliorato gli esperimenti, nel febbraio 1932, dopo solo circa due settimane di sperimentazione, Chadwick inviò una lettera a Nature intitolata Possible Existence of a Neutron (Possibile esistenza di un neutrone). Comunicò le sue scoperte in dettaglio in un articolo inviato a maggio ai Proceedings of the Royal Society, intitolato meno dubbiosamente The Existence of a Neutron. Chadwick suppose che esistesse una particella materiale neutra di massa molto vicina a quella del protone e prese in considerazione urti elastici tra particelle con stesso ordine di grandezza di energia e massa, facendo quindi collisioni classiche frontali tra particelle. Così scriveva. “Sono state esaminate le proprietà della radiazione penetrante emessa dal berillio (e dal boro) quando è bombardato dalle particelle α di polonio. Si è concluso che la radiazione non consiste in una radiazione gamma, come si è supposto finora, ma di neutroni, particelle di massa 1, e carica 0. Si sono fornite prove che la massa sia tra 1.005 e 1.008 [volte quella del protone, considerata uguale a 1]. Questo suggerisce che il neutrone consista di un protone e un elettrone in stretta combinazione; l’energia di legame è di circa da 1 a 2 ×106 eV. Da esperimenti sul passaggio dei neutroni attraverso la materia, viene discussa la frequenza delle loro collisioni con gli elettroni”.

Uno dei suoi argomenti era il seguente: se il berillio emette raggi γ, allora la reazione osservata sarebbe:

Chadwick osservò “che il difetto di massa del 13C è noto con sufficiente accuratezza da mostrare che l'energia emessa dal fotone in questo processo non può essere maggiore di circa 14×106 volt”.

"È difficile rendere un tale quanto responsabile degli effetti osservati". Chadwick concludeva: “Le difficoltà scompaiono, tuttavia, se si assume che la radiazione sia costituita da particelle di massa 1 e carica 0, o neutroni. Infatti, se la reazione è

c'è molta energia rimasta per il neutrone (n)”, dove n era il simbolo della nuova particella, con carica neutra (0). Nella sua interpretazione considerò che fosse prodotto 12C e non 13C.


“The new frontiers of the nouvelle vague”

Gli Joliot-Curie non si convinsero subito. Fecero ulteriori esperimenti, ma conclusero piuttosto rapidamente che questi esperimenti "forniscono un nuovo supporto per l'ipotesi del neutrone". In particolare, studiarono un'altra reazione nucleare che produce azoto (N):

e scoprirono che l'energia massima dei neutroni calcolata secondo questo schema di reazione concordava con l'energia misurata dei protoni espulsi quando erano colpiti dai neutroni. Inoltre, anche l'emissione di elettroni secondari di alta energia osservata era coerente con l'ipotesi del neutrone. Aggiunsero, tuttavia, che la radiazione era complessa e che oltre ai neutroni erano presenti raggi γ.

In effetti, le interpretazioni dei primissimi esperimenti erano complesse poiché l'elenco delle incognite era lungo. Sappiamo che neutroni, quanti e protoni di diversa energia, quindi con proprietà diverse, potrebbero essere trovati contemporaneamente in tali esperimenti. Inoltre, diversi tipi di rivelatori utilizzati negli esperimenti di Bothe, dei Curie di Chadwick e di altri che seguirono (compreso quello eseguito dall’italiano Franco Rasetti subito dopo il primo articolo di Chadwick) sembravano essere selettivamente sensibili a diversi tipi di radiazioni.

Nel 1934 Irène e Frédéric Joliot-Curie fecero la scoperta che li avrebbe portati entrambi al Nobel per la chimica l’anno successivo: isolarono alcuni elementi radioattivi naturali, e riuscirono a effettuare la trasmutazione di alcuni elementi (quali boro, alluminio e magnesio) in isotopi radioattivi sintetici. Questa scoperta era successivamente destinata a spianare la strada allo sviluppo della sintesi di radioisotopi, che sarebbero risultati di importante applicazione in ambiti quale quello medico.

Nel 1935 Joliot lasciò l'Istituto Curie per insegnare al Collège de France lavorando sulle reazioni a catena e sulla costruzione di un reattore nucleare basato sulla fissione per generare energia attraverso l'uso di uranio e acqua pesante. Joliot fu uno degli scienziati menzionati nella lettera Einstein-Szilárd inviata a Franklin Roosevelt come uno dei maggiori studiosi delle reazioni a catena. 

Nel periodo dell'invasione nazista della Francia nel 1940, Joliot nascose tutta la documentazione del lavoro svolto consegnandola facendola pervenire in Inghilterra. Durante l'occupazione, prese attivamente parte alla resistenza. Dopo la Liberazione, Frédéric Joliot divenne il primo Alto Commissario per l'Energia Atomica della Francia. Nel 1948 sovrintese la costruzione del primo reattore nucleare francese. Convinto comunista, venne sollevato dai suoi incarichi nel 1950 per ragioni politiche. Pur mantenendo la sua cattedra al Collège de France, alla morte di sua moglie nel 1956 ne rilevò il ruolo di direttore di Fisica Nucleare alla Sorbona. 

Irène morì di leucemia, causata dalla forte e prolungata esposizione a radiazioni ionizzanti dovuta al suo lavoro, il 17 marzo 1956 a Parigi. Due anni dopo per le stesse cause morì anche suo marito.

Niels Bohr e Werner Heisenberg si chiesero se il neutrone potesse essere una particella nucleare fondamentale come il protone e l'elettrone, piuttosto che una coppia protone-elettrone. Heisenberg dimostrò che il neutrone era meglio descritto come una nuova particella nucleare, ma la sua esatta natura rimaneva poco chiara. Alla fine, lo stesso Chadwick e Goldhaber provarono che la massa del neutrone era troppo grande per essere una coppia protone-elettrone.

Diversi scienziati rivedettero completamente l'intero panorama della ricerca nel campo della fisica nucleare. Pertanto, diversi autori, incluso Chadwick, presumevano che i neutroni fossero costituenti del nucleo. Il fisico e accademico sovietico Dmitry Yvanenko suggerì che i nuclei atomici consistessero solo di protoni e neutroni, non di protoni ed elettroni come nel precedente modello suggerito da Rutherford, che coinvolgeva elettroni “intranucleari”. Quasi contemporaneamente a Yvanenko, Werner Heisenberg e, l'anno successivo, Ettore Majorana ed Eugene Wigner applicarono la meccanica quantistica al nucleo e conclusero che questa scoperta semplificava enormemente la teoria del nucleo atomico; la forte interazione tra protoni e neutroni assicura la struttura nucleare e la stabilità. In breve, rimodellarono la teoria nucleare. 

Per la sua scoperta del neutrone, Chadwick ricevette il Premio Nobel per la Fisica nel 1935. Lasciò il Cavendish Laboratory nel 1935 per diventare professore di fisica all'Università di Liverpool, dove ristrutturò un laboratorio antiquato e, installando un ciclotrone, ne fece un importante centro per lo studio della fisica nucleare. Durante la Seconda Guerra mondiale entrò a far parte della Missione britannica presso il progetto Manhattan, e lavorò al Los Alamos Laboratory e a Washington. Per i suoi successi, Chadwick ricevette il titolo di cavaliere il 1° gennaio 1945. Nel luglio 1945, assistette al test nucleare Trinity. Successivamente, fu consulente scientifico britannico presso la Commissione per l'energia atomica delle Nazioni Unite. Si ritirò nel 1959. Morì nel sonno il 24 luglio 1974.

La sua scoperta ha permesso di produrre elementi più pesanti dell'uranio in laboratorio mediante la cattura di neutroni lenti seguita dal decadimento beta. A differenza delle particelle alfa cariche positivamente, che vengono respinte dalle forze elettriche presenti nei nuclei di altri atomi, i neutroni non hanno bisogno di superare alcuna barriera di Coulomb, e possono quindi penetrare ed entrare nei nuclei anche degli elementi più pesanti, come l'uranio. Ciò ispirò Enrico Fermi a studiare le reazioni nucleari provocate dalle collisioni di nuclei con neutroni lenti, lavoro per il quale avrebbe ricevuto il Premio Nobel nel 1938, ma questa è un’altra storia, e la racconterò un’altra volta.