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sabato 31 marzo 2018

Il poliedro di Meglepett Egér

Il capitolo XXXIX de La vita: istruzioni per l’uso di Georges Perec (1978, in Italia Rizzoli, 1984) è dedicato alla descrizione dell’appartamento del vecchio critico d’arte e bibliovoro Léon Marcia. Tra le pubblicazioni in varie lingue che vi si trovano, una rivista jugoslava (“Arte”) riporta in copertina l’illustrazione di un’opera dello scultore ungherese Megeplett Egér:
“Sulla copertina di Umetnost, che nasconde quasi del tutto quella del Barlington, è fotografata un’opera dello scultore ungherese Megeplett Eger: placche di metallo rettangolari fissate una all’altra in modo da formare un solido con undici facce”.
Invano il lettore cercherebbe notizie di questo artista, che è completamente inventato. In ungherese, l’aggettivo meglepett significa “sorpreso”, o “stupito” e il sostantivo egér significa “sorcio”. Un “topo sorpreso”, dunque, che in francese dà origine all’allitterazione tutta perecchiana souris surprise. Invano si cercherebbe anche una riproduzione della scultura, perché, semplicemente, un solido del genere non può esistere.

Sappiamo che il capolavoro di Perec si basa su una complessa geometria di contraintes, cioè di costrizioni auto-imposte (contrassegno e precetto della letteratura potenziale degli oulipiani) che in qualche modo “guidano” la scrittura. Ognuno dei 99 capitoli dell’opera dello scrittore francese rispetta un catalogo di ben 42 di questi vincoli, che riguardano colori, forme, quadri, stili dei mobili, figure, materiali, ecc., che devono comparire più o meno esplicitamente. In ciascuna di queste liste figurano almeno due oggetti geometrici, una “superficie” (triangolo, rettangolo, ecc.) e un “volume” (piramide, cono, cubo, ecc.).

Nel capitolo di cui ci occupiamo, ad esempio, dovevano comparire, tra le altre cose, un poliedro e un rettangolo. Anzi, 11 rettangoli, secondo un’ossessione per questo numero che si riscontra in molte opere di Perec. Non sorprende che la lista di contraintes comprendeva in questo caso anche un metallo, un topo e la sensazione dello stupore!

Quanto al solido, esso non può esistere, sulla base di semplici considerazioni geometriche. Si possono accostare tre rettangoli, come nei vertici di un parallelepipedo rettangolo, o di un cubo. In un poliedro i rettangoli si uniscono per forza a gruppi di tre: quattro rettangoli (quattro angoli retti) formerebbero un piano, mentre cinque o più non darebbero niente di convesso

Con 11 rettangoli (aventi ciascuno quattro vertici), riuniti in gruppi di tre, il poliedro avrebbe 44/3 vertici! Un poliedro le cui facce sono dei rettangoli deve avere per forza un numero di facce divisibile per tre.



Il poliedro rappresentato nella figura rappresenta quanto di più vicino si può trovare alla scultura di Meglepett Egér. Esso ha dodici facce, e tutte sono dei quadrilateri. Queste facce, tuttavia, non possono essere tutte dei rettangoli: ci sono quattro vertici nei quali si raggruppano quattro facce, senza che si formi un piano. Dalla formula di Eulero per i poliedri, sappiamo che, in un poliedro convesso, se F, S e V rappresentano i numeri rispettivamente di facce, spigoli e vertici, deve essere:

F + V – S = 2

Il poliedro ha dodici facce, 24 spigoli e 14 vertici. Si possono utilizzare al massimo sei rettangoli (i tre quadrilateri in alto di fronte a noi e, simmetricamente, i tre in basso in fondo). Il solido rappresentato mostra solo undici delle dodici facce del poliedro, di cui sei sono dei rettangoli (due in realtà sono dei quadrati) e sei sono dei rombi, una è un parallelogrammo; la faccia mancante sarà anch'essa un parallelogramma, e apparirà come un buco se si volesse costruire il poliedro.

Questo poliedro può essere costruito invece con dei quadrilateri a forma di rombo. Si tratta allora di un dodecaedro rombico (o rombododecaedro). Si possono impilare dei dodecaedri rombici per riempire lo spazio, così come degli esagoni regolari possono tassellare il piano. Questa struttura geometrica si trova nei cristalli di granato. Non sembra un caso che Perec si fosse informato anche sulla cristallografia, poiché il cristallo di granato compare in La vita: istruzioni per l’uso nel capitolo XCVI, dove si può leggere:
(…) sul comò, un’opera voluminosa rilegata in cuoio bianco, il Grande Dizionario della Cucina, di Alexandre Dumas, e, in una coppa di vetro, dei modelli di cristallografia, pezzi di legno minuziosamente intagliati che riproducono qualche forma oloedrica ed emiedrica dei sistemi cristallini: il prisma retto a base esagonale, il prisma obliquo base romboidale, il cubo spuntato, il cubo ottaedro, il cubo dodecaedro, il dodecaedro romboidale, il prisma esagono-piramidale”.

Il capitolo descrive l’appartamento del dottor Dinteville, il cui bagno è pavimentato proprio da piastrelle esagonali.

giovedì 23 marzo 2017

Queneau tra letteratura e matematica


Raymond Queneau (1903-1976) è stato uno dei più prolifici ed eclettici scrittori francesi del secolo scorso. La sua vivacità intellettuale ha dato luogo a un’opera molteplice, con una produzione originale, talvolta giocosa e, per certi versi, inclassificabile. Una delle costanti che è possibile ravvisare nella sua opera è l’interesse per la scienza e, più in particolare, per la matematica. In molti hanno commentato l’aspetto combinatorio dei Cent mille milliards de poèmes (1961), libro singolare composto da dieci sonetti in cui ognuno dei rispettivi 14 versi, aventi le stesse rime e la stessa costruzione sintattica, è ritagliato su una striscia di carta. Facendole scorrere in modo casuale, I versi possono essere combinati fino ad offrire 1014 sonetti, appunto centomila miliardi.



Nel 1960 Queneau, attratto dalle possibilità offerte dalla combinatoria e dalla matematica in genere alla genesi letteraria, con un gruppo di scrittori e matematici tra i quali François Le Lionnais e Claude Berge, aveva fondato l’Oulipo (Ouvroir de littérature potentielle). Il termine “potenziale” si riferisce a qualcosa che esiste in potenza nella letteratura, cioè che si trova all'interno del linguaggio e che non è stato necessariamente esplorato. 

Strumento prediletto per lo studio e la produzione è la contrainte, una restrizione formale arbitraria che si aggiunge a quelle già esistenti (la rima, la metrica, la successione temporale, ecc.) e può creare nuovi procedimenti, nuove forme e strutture letterarie suscettibili di generare poesie, romanzi, testi. Nel corso degli anni sono state esplorate decine di contraintes diverse, da quelle in qualche modo legate all’enigmistica, come il palindromo, l’acrostico, il lipogramma, a forme più direttamente legate alla matematica, come, oltre alla combinatoria, la teoria degli insiemi o la teoria dei grafi. Fra le numerose definizioni dell'Oulipo fornite dagli stessi membri, una, dello stesso Queneau, è assai elegante e significativa: “Un Oulipiano è un topo che costruisce il labirinto da cui si propone di uscire più tardi”. La “filosofia” di questo gruppo tuttora attivo e ramificato in diversi paesi, tra cui l’Italia, è che l’uso delle contraintes conduce l’autore a un maggiore sforzo immaginativo e può generare opere di assoluto interesse e qualità. 

La libertà compositiva del testo, lungi dall'essere mortificata, viene invece esaltata, come spiega lo stesso Queneau fin dal 1938 in aperta polemica con la scrittura automatica dei surrealisti: 
“Un'altra falsissima idea che pure ha corso attualmente è l'equivalenza che si stabilisce tra ispirazione, esplorazione del subconscio e liberazione; tra caso, automatismo e libertà. Ora, questa ispirazione che consiste nell'ubbidire ciecamente a ogni impulso è in realtà una schiavitù. Il classico che scrive la sua tragedia osservando un certo numero di regole che conosce è più libero del poeta che scrive quel che gli passa per la testa ed è schiavo di altre regole che ignora”. 
I procedimenti combinatori utilizzati da Queneau sono tuttavia squilibrati verso l’immediatamente percepibile applicazione dell’artificio: essi non si tramutano nelle misure letterarie fondamentali (romanzo, racconto, o testo teatrale), ma si ritagliano un campo di sperimentazione limitato (il sonetto, appunto, o il frammento), in cui realizzare una sintesi tra i valori delle matematiche e quelli letterari, ad essi subordinati. La letteratura potenziale, in cui si attua la sua combinatoria, è cioè ancora una microcombinatoria, un fenomeno solo propedeutico alla combinatoria vera e propria in letteratura, di cui un maestro contemporaneo è stato ad esempio l’altro oulipiano Georges Perec con La vita: istruzioni per l’uso

La fascinazione di Queneau per i numeri fu precoce: alcune pagine del suo diario di adolescente già lo dimostrano chiaramente. A 17 anni annota: “Sono andato con Leroux al Museo. Studio con furore la matematica”. Alcuni dei suoi saggi, pubblicati in Bords (1963) e in Bâtons, chiffres et lettres (1965, in italiano “Segni, cifre e lettere e altri saggi”, Einaudi, 1981) contengono talvolta considerazioni sulle serie di Fourier, su Hilbert, su Bourbaki, e sulle “congetture errate nella teoria dei numeri”

Dal punto di vista più strettamente narrativo, nelle opere di Queneau la matematica compare, oltre che come struttura, con i limiti sopra esposti, anche in qualità di oggetto di letteratura, come ad esempio in Odile (1937, pubblicato in italiano da Einaudi nel 1989). 

Odile non è un romanzo matematico, anche se il suo protagonista, Roland Travy, è un matematico dilettante fallito. Si tratta invece della duplice storia di una vicenda amorosa e di un’infatuazione intellettuale. La prima, quella tra Travy e Odile, l’eroina nascosta che dà titolo all’opera, termina bene. La seconda, quella di Travy per il cenacolo surrealista il cui capo Anglarès è la parodia di André Breton, termina male (e si tratta di una vicenda autobiografica perché Queneau era stato surrealista alla fine degli anni ’20, abbandonando il movimento con disprezzo per i suoi deliri onirici). 


La matematica ricopre un ruolo portante nella narrazione, un ruolo che è “ambientale” e mai didascalico (diversamente da opere come Il teorema del pappagallo di Hans Guedj o Il mago dei numeri di Hans Magnus Enzensberger). Tanto meno Queneau fa uso della matematica per creare metafore. 

In Odile la matematica è utilizzata per dipingere l’identità del protagonista, che in essa cerca rifugio, e come ambiente narrativo. Quando Travy parla di matematica, riporta con precisione alcuni teoremi come si potrebbero trovare in un manuale. Ecco il suo sfogo durante un colloquio con Odile: 
“Gettai uno sguardo inutile su un foglio di carta che si attardava sul mio tavolo: dati due rami regolari semplici a diramazioni alterne, trovare il numero dei loro punti di intersezione in funzione di dodici quantità da cui dipende la loro rappresentazione simbolica in rapporto a due assi di coordinate. Ci volevano sei quantità per rappresentare senza ambiguità una tale figura geometrica, era là, pretendevo una delle mie scoperte, in effetti una semplice constatazione che fino a quel momento io non sapevo dedurre nulla. Presi un quaderno; vi erano dei calcoli su una nuova classe di numeri di cui mi credevo il padre, numeri formati di due elementi estremi di una doppia ineguaglianza. Essi presentavano rispetto alle tre operazioni diverse dall’addizione delle proprietà estremamente curiose che non arrivavo a spiegarmi chiaramente; delle ricerche su ciò che chiamavo l’induzione di serie infinite e l’integrale di Parseval, su ciò che definivo l’addizione a destra e quella a sinistra dei numeri complessi e l’importanza di queste operazioni per l’analisi combinatoria. Numeri, numeri, numeri...”
Significativa è la catena di incomprensioni tra Travy e il surrealista Anglarès quando il protagonista fa visita al suo salotto-cenacolo. Travy rappresenta quei giovani intellettuali che seguono i processi della recente matematica e sanno come questa sia andata ben oltre il mero rigore logico e il calcolo efficiente, ma non cade nella trappola della suggestione metaforica esercitata dalle geometrie non euclidee, dagli oggetti topologici, o dai paradossi della logica, come l’indecidibilità di Gödel, o dalle autoreferenze, come l’insieme di tutti gli insiemi o il barbiere di Russell. Al contrario, Anglarès, sostiene che le nuove matematiche rappresentano per i movimenti d’avanguardia la liberazione di nuove facoltà dell’immaginazione: gli oggetti e le strutture della matematica moderna come “bagaglio di metafore”, come investimento estetico, ma senza reale comprensione. Egli rappresenta il prototipo di tutta quella serie di intellettuali non specialisti affascinati e confusi che saranno ridicolizzati alla fine del secolo dalla burla intellettuale di Sokal e Bricmont
– Non esiste un solo mondo, – gli dissi, – quello che lei vede o che crede di vedere o che immagina di vedere o che vuole vedere, quel mondo che toccano i ciechi, sentono i mutilati e annusano i sordi, quel mondo di cose e di forze, di solidità e di illusioni, di vita e di morte, di nascite e di distruzioni, il mondo in cui viviamo, in mezzo al quale siamo soliti addormentarci. Per quel che ne so io ne esiste almeno un altro quello dei numeri e delle figure, delle identità e delle funzioni, delle operazioni e dei gruppi, degli insiemi e degli spazi. C'è gente, come sa, che pretende si tratti solo di astrazioni, costruzioni, combinazioni. Vogliono far credere a una specie di architettura; si prendono degli elementi della natura, si affinano, si puliscono, si prosciugano e lo spirito umano costruisce con questi mattoni una casa splendida, magistrale testimonianza della potenza della sua ragione... ma in realtà le cose non vanno così; non all'architettura, all'edilizia bisogna paragonare la geometria o l'analisi, ma alla botanica, alla geografia, alle scienze fisiche. Si tratta di descrivere un mondo, di scoprirlo e non di costruirlo o inventarlo perché esiste al di fuori dello spirito umano e indipendentemente da esso. Dobbiamo esplorare questo universo e dire poi agli uomini quel che ci abbiamo visto, dico proprio: visto. Ma per esprimerlo, occorre un linguaggio: quello dei segni e delle formule, quello che si considera comunemente l'essenza stessa della scienza e non ne è che il modo di espressione. Questo linguaggio si rivela ancor più impotente a descrivere le ricchezze del mondo matematico che non la lingua francese a formulare la molteplicità delle cose, poiché esse non si situano allo stesso livello di esistenza. C'è peraltro una specie di filologia matematica che si chiama logistica. Ma forse l'annoio? 
(...)
– È impossibile risolvere algebricamente le equazioni di grado superiore al quarto, eccetto in particolarissimi casi. In generale non si può. 
– Il fatto è che non ci si sa fare. 
– Si può dimostrarlo. 
– Ma è scandaloso. 
– Proprio così. È scandaloso perché esiste una realtà ribelle al linguaggio algebrico-logico, una realtà che ci supera e che non si può esprimere con un linguaggio inventato dalla nostra ragione, perché tiene in scacco il meccanismo di ricostruzione razionale di quel mondo. (...) Ma non creda che le cose si fermino qui e che l'intelligenza rinunci a proseguire l'esplorazione di quel campo. Si scontra con un ostacolo, cerca di superarlo, e tramite una nuova teoria, la teoria dei gruppi, scoprirà nuove meraviglie. Certamente uno spirito potente concepirebbe questo reale in un sol lampo; la nostra debolezza ci obbliga a dei sacrifici. 
– È maledettamente idealista, continui, quel che mi racconta. 
– Vuole dire realista: i numeri sono delle realtà. Esistono i numeri! Esistono come questo tavolo, più di questo tavolo eterno esempio dei filosofi, infinitamente più di questo tavolo bang!


Travy esprime qui l’opinione platonista di Queneau, e che si trova tra molti matematici moderni (e in scrittori interessati alle scienze esatte come Borges), che la matematica esiste al di fuori dell’uomo, non è una sua invenzione, non è la mera manipolazione di simboli inventati di cui era invece convinto Hilbert. Essa è invece un mondo che l’uomo esplora. I matematici non inventano gli oggetti matematici, bensì li scoprono. 

Nel suo rapporto con i numeri, Queneau considerò sempre se stesso un dilettante (nel vero senso della parola), un “buongustaio di cifre”. Ciò non gli impedì di essere aggiornato su suoi sviluppi attraverso letture specifiche, una pratica costante, e la partecipazione ai seminari dei maggiori matematici operanti a Parigi. 

Nel 1948 entrò nella Société mathématique de France e, dal 1963, fu membro dell’American Mathematical Society. Da quell’anno partecipò ai seminari di ricerca operazionale e di calcolo dei grafi. Dal suo diario sappiamo che negli anni Cinquanta era in contatto con i principali esponenti del gruppo di Bourbaki e che incontrava regolarmente a cena il logico matematico austriaco Georg Kreisel (1923), che allora insegnava a Parigi, con il quale discuteva delle principali innovazioni matematiche. 

Nella vasta bibliografia di Queneau, a dimostrazione del radicamento del suo interesse e della competenza acquisita, è presente persino una vera e propria pubblicazione matematica. Si intitola Sur les suites S-additives (e il lettore accorto avrà notato l’allitterazione…), che fu presentato da André Lichnerowicz come nota all’Accademia delle Scienze francese durante la seduta del 6 maggio 1968 e in seguito fu pubblicato (in francese!) sul Journal of Combinatorial Theory (12, p. 31, 1972) con la presentazione di Giancarlo Rota. In 41 pagine si succedono definizioni, teoremi con le loro dimostrazioni e un certo numero di congetture, tutti frutto dell’elaborazione di Queneau nel campo della teoria dei numeri. Altro che “due culture!” 

Queneau ha rappresentato la ricerca più significativa realizzata nel Novecento di una sintesi tra scienza e umanesimo, di cui possiamo leggere le basi teoriche in questo brano nel quale Queneau individua negli ambiti della Scienza e dell'Arte un'identica costituzione genetica: 
“L'ideale che si sono costruiti gli scienziati nel corso di tutto questo inizio di secolo è stato una presentazione della scienza non come conoscenza ma come regola e metodo. Si dànno delle nozioni (indefinibili), degli assiomi e delle convenzioni. Ma questo non è forse un gioco che non ha nulla di diverso dagli scacchi o dal bridge? Prima di procedere nell'esame di questo aspetto della scienza, ci dobbiamo fermare su questo punto: la scienza è una conoscenza, serve a conoscere? [...] che cosa si conosce in matematica? Precisamente: niente. E non c'è niente da conoscere. Non conosciamo il punto, il numero, il gruppo, l'insieme, la funzione più di quanto "conosciamo" la Realtà Concreta Terrestre e Quotidiana. Tutto ciò che conosciamo è un metodo accettato (consentito) come vero dalla comunità degli scienziati, metodo che ha anche il vantaggio di connettersi alle tecniche di fabbricazione. Ma questo metodo è anche un gioco, più esattamente quello che si chiama un jeu d'esprit. Perciò l'intera scienza, nella sua forma compiuta, si presenta e come tecnica e come gioco. Cioè né più né meno di come si presenta l'altra attività umana: l'Arte”. (1)
1) In La matematica nella classificazione delle scienze (1938), ora in Segni, cifre e lettere e altri saggi, cit.

mercoledì 31 agosto 2016

Sulle proprietà aerodinamiche dell’addizione


In tutti i tentativi di dimostrare che 2 + 2 = 4 non si é mai tenuto conto della velocità del vento.

L’addizione di interi è in effetti possibile solo in condizioni meteorologiche sufficientemente stabili, in modo che il primo 2, una volta che è stato collocato, resti al suo posto fino a quando sia collocata la crocetta, poi il secondo 2, poi il piccolo muro sul quale sedersi e contemplare e, finalmente, il risultato. Fatto ciò, il vento può soffiare, ma due e due sono diventati quattro. 

Ma, non appena il vento si alza, il primo numero cade a terra. E, si provi a osservare, lo stesso succede al secondo. Qual è allora il risultato di:


La matematica attuale non è in grado di fornire una risposta. 

Ora, se il vento infuriava, il primo numero sarebbe volato via, poi la crocetta, e così via. Ma supponiamo che sia calato dopo la crocetta, allora ci troveremmo di fronte all’assurdità 2 = 4. Il vento non soffia solo fino a un certo punto, esso soffia dappertutto. Il numero uno, un numero particolarmente leggero, per il quale un refolo è già abbastanza per spostarlo, può allora capitare in un calcolo al quale non appartiene, anche contro il volere della persona che sta facendo l’operazione. Ciò fu previsto dal matematico russo Dostoievski quando osò dire di avere una debolezza per 2 + 2 = 5. 

Le regole della notazione decimale provano anche che gli Indiani devono aver affrontato il nostro assioma più o meno coscientemente. Lo zero rotola via abbastanza facilmente, è sensibile al soffio più leggero. Ecco perché non viene preso in considerazione quando si trova a sinistra di un numero: 02 = 2, poiché lo zero vola via sempre prima della fine del calcolo. Ha senso solo sulla destra. Perché lì i numeri precedenti possono tenerlo al suo posto e impedire che voli via. Così 20 = 2, almeno finché il vento non superi la velocità di diversi metri al secondo. 

Trarremo ora da queste osservazioni alcune conclusioni pratiche: non appena si sappia in anticipo che il tempo peggiora, è buona cosa dare alla propria addizione una forma aerodinamica. È altresì consigliato scriverla da destra a sinistra, così come il iniziare il più possibile vicino al centro del pezzo di carta. Quando il vento fa slittare un calcolo in esecuzione, si può quasi sempre afferrarlo prima che raggiunga il margine. Utilizzando questo metodo sarà sempre possibile, anche durante una tempesta equinoziale, ottenere risultati come il seguente:



Raymond Queneau 
Membro del Corpo dei Satrapi del Collège de 'Pataphysique 
Membro della Société Mathématique de France

(da Contes et propos, 1981, miscellanea pubblicata dopo la morte di Queneau (in it. Racconti e ragionamenti, Il melangolo, 1993), ma contenente testi, come questo, anteriori alla fondazione dell'Oulipo nel 1960).

sabato 2 agosto 2014

Non voler più niente, Perec

1967: hai trentun anni e pubblichi il tuo terzo libro. Lo intitoli Un uomo che dorme e, come spesso ti succede, parli molto di te. Racconti la storia di un tentativo non riuscito di raggiungere l’indifferenza totale da parte di uno studente, di cui non dici neanche il nome e al quale ti rivolgi per tutto il libro in un originale e straniante monologo in seconda persona singolare. La tua non è un’opera oulipiana o, se lo è, è molto sui generis. La contrainte non è stilistica, non è enigmistica, semmai è filosofica. Il tuo protagonista, che il giorno dell’esame decide di non muoversi dal letto, inizia una personale, assurda battaglia: 

«Non voler più niente. Aspettare finché non ci sia più nulla da aspettare. Vagare, dormire. Lasciarsi portare dalla folla, dalle vie. Seguire i canaletti di scolo, le inferriate, l'acqua lungo le sponde. Camminare lungo il fiume, rasente ai muri. Perdere tempo. Tenersi lontano da ogni progetto, da ogni smania. Essere senza desideri, senza risentimenti, senza ribellione (…) Un minuto dopo l'altro, un'ora dopo l'altra, un giorno dopo l'altro, una stagione dopo l'altra, qualcosa comincerà che non avrà mai fine: la tua vita vegetale, la tua vita azzerata». 

Lo studente, che forse sei tu stesso, non cerca un’atarassia che è saggezza, no, non si tratta di diventare il mistico (il greco myo significa «chiudere» e dalla radice my provengono sia il greco mysterion, sia il latino mutus), il filosofo stoico, il maestro zen: si tratta piuttosto di annullare ogni forma di partecipazione, di syn–pathia. Il tuo studente è, fondamentalmente, un nichilista che cammina: 

«Sei solo. Impari a camminare da uomo solo, ad andare a zonzo, a tirar tardi, a vedere senza guardare e a guardare senza vedere. Impari la trasparenza, l'immobilità, l'inesistenza. Impari a essere un'ombra e a guardare gli uomini come se fossero pietre. Impari a restare seduto, a restare coricato, a restare in piedi. Impari a masticare ogni boccone, a trovare in ogni briciola di cibo che porti alla bocca lo stesso identico neutro sapore. Impari a guardare i quadri esposti nelle gallerie come se fossero pezzi di muro, di soffitto, e i muri e i soffitti come se fossero tele di cui segui senza sforzo i dieci, mille sentieri, sempre ricominciati, labirinti inesorabili, testi che nessuno mai potrebbe decifrare, volti in decomposizione»

«Non chiedi niente, non esigi niente, non imponi niente. Senti senza mai ascoltare, vedi senza mai guardare: le crepe nei soffitti, i listelli del parquet, il disegno delle mattonelle, le rughe intorno agli occhi, gli alberi, l'acqua, le pietre, le automobili che passano, le nuvole che disegnano in ciclo le loro forme di nuvole». 

E, per quanto il tuo studente, che forse sei tu stesso, non voglia che il mondo entri dentro di sè, per quanto viva in un abbaino soffocante sotto i tetti, molto provinciale e molto bohemien, non è agorafobico: non ci può essere fobia di sorta, perché anche la paura è un sentimento che può dare vita al diagramma della sua esistenza, che deve invece restare immobile: 

«La tua indifferenza è piatta: uomo grigio per cui il grigio non evoca nessun grigiore. Non tanto insensibile, quanto piuttosto neutro. L'acqua ti attira, così come la pietra, l'oscurità al pari della luce, il caldo al pari del freddo. C'è solo la tua camminata, il tuo sguardo che si posa e scivola via, ignorando il bello e il brutto, il famigliare e il sorprendente, non recependo che le combinazioni di forme e luci, che continuamente si fanno e disfano dovunque, nell'occhio, sul soffitto, ai tuoi piedi, nel ciclo, nello specchio incrinato, nell'acqua, nella pietra, nella folla. Piazze, strade, giardinetti e viali, alberi e inferriate, uomini e donne, cani e bambini, attese, ressa, veicoli e vetrine, edifici, facciate, colonne, capitelli, marciapiedi, canaletti di scolo, lastricati di arenaria resa lucida dalla pioggia sottile, grigi, o quasi rossi, o quasi bianchi, o quasi neri, o quasi blu, silenzi, clamori, frastuoni, folla nelle stazioni, nei negozi, nei viali, strade brulicanti di gente, lungofiume brulicanti di gente, vie deserte delle domeniche d'agosto, mattine, sere, notti, albe e crepuscoli». 

«Non spezzerai il cerchio magico della tua solitudine. Sei solo e non conosci nessuno; non conosci nessuno e sei solo. Vedi gli altri accalcarsi, stringersi, proteggersi, abbracciarsi. Tu invece, lo sguardo vitreo, non sei che un fantasma trasparente, un cinereo lebbroso, una sagoma già restituita alla polvere, un posto occupato cui nessuno M avvicina. (…) Sei solo, nonostante il fumo che si appesantisce, nonostante Lester Young o Coltrane, sei solo nel calore ovattato dei bar, nelle strade deserte in cui risuonano i tuoi passi, nella complicità mezzo addormentata degli unici pochi bar rimasti aperti». 

I passi dello studente, che forse sei tu stesso, risuonano nelle notti interminabili e nei giorni caotici per le vie di una Parigi senza la quale il tuo racconto non avrebbe senso, una metropoli già allora affollata di ogni sorta di umanità, dai miserabili ai borghesi, e che presto, meno di un anno, avrebbe visto tanti giovani manifestare condividendo il tuo giudizio morale: 

«Li segui, li spii, li odi: mostri rintanati nelle loro stanze di servizio sotto i tetti, mostri in pantofole che strascicano i piedi vicino a putridi mercati, mostri con occhi glauchi da lampreda, mostri dai gesti meccanici, mostri farneticanti. 
Gli passi accanto, li accompagni, ti fai strada tra di loro: i sonnambuli, i bruti, i vecchi, gli idioti, i sordomuti col berretto tirato sugli occhi, gli ubriaconi, i rimbambiti che si raschiano la gola e cercano di trattenere il tremolio intermittente delle guance, delle palpebre; i provinciali persi nella grande città, le vedove, i furbastri, i vecchi decrepiti, i ficcanaso». 

«Ti vengono incontro, a piccoli passi, con quei loro sorrisi da buoni, i loro volantini, i loro giornali, le loro bandiere, i miserabili combattenti delle grandi cause imbecilli, le maschere ossute che partono in guerra contro la poliomielite, il cancro, i tuguri, la miseria, l'emiplegia e la cecità, i canzonieri tristi che chiedono l'elemosina per i loro compagni, gli orfani maltrattati che vendono centrini, le vedove rinsecchite che proteggono gli animali domestici. Tutti quelli che ti si accostano, ti trattengono, ti manipolano, ti sputano in faccia le loro meschine verità, le loro eterne domande, le loro opere buone, il loro cammino autentico. Gli uomini sandwich della fede autentica che salverà il mondo. Venite a Lui, voi che soffrite. Gesù ha detto Voi che non vedete pensale a coloro che vedono». 

«E poi tutti gli altri, i peggiori, i sempliciotti, i furbi, i contenti di sé, quelli che credono di sapere e sorridono con l'aria di chi se ne intende, gli obesi, i rimasti giovani, i formaggiai, i decorati; i festaioli un po' alticci, gli impomatati di periferia, i benestanti, i coglioni. I mostri forti del loro buon diritto, che ti prendono a testimone, ti squadrano, t'interpellano. I mostri con famiglia numerosa, con i loro bambini mostri, i loro cani mostri; le migliaia di mostri bloccati ai semafori; le stridule femmine mostro; i mostri coi baffi, col panciotto, con le bretelle, i turisti mostri rovesciati a mucchi davanti agli orridi monumenti, i mostri della domenica, la folla mostruosa». 

Il tuo giovane eroe alla fine si rende conto che la sua scelta è inutile, che è impossibile voler essere indifferenti alla vita che scorre e al tempo che la scandisce. Il romanzo si chiude con una sconfitta, ma forse è solo un passaggio necessario: 

«Non hai imparato niente, tranne che la solitudine non insegna niente, che l'indifferenza non insegna niente: era un'impostura, una fascinosa e ingannevole illusione. Eri solo, tutto qui, e volevi proteggerti; volevi tagliare per sempre i ponti tra te e il mondo. Ma tu sei così poca cosa, e il mondo un tal parolone: alla fine, il tuo non è stato altro che un errare in una grande città, e costeggiare chilometri di facciate, vetrine, parchi e lungofiume». 

 «L'indifferenza è inutile. Puoi volere o non volere, che importanza ha? (…) La tua neutralità non significa niente. La tua inerzia è altrettanto vana della tua rabbia». 

«Ogni giorno sgranato non ha fatto che erodere la tua pazienza, che mettere a nudo l'ipocrisia dei tuoi ridicoli sforzi. Bisognava che il tempo si fermasse completamente, ma niente e nessuno è così forte da poter lottare contro il tempo. Hai potuto barare, guadagnare qualche briciola, qualche secondo: ma le campane di Saint-Roch, l'alternarsi dei semafori all'incrocio tra la rue des Pyramides e la rue Saint-Honoré, l'immancabile caduta della goccia dal rubinetto dell'acquaio nel pianerottolo non hanno mai smesso di misurare le ore, i minuti, i giorni e le stagioni. Sei riuscito a far finta di dimenticartene, a camminare di notte e a dormire di giorno. Non l'hai mai ingannato del tutto». 


Georges Perec 
Un uomo che dorme 
Quodlibet, Macerata, 2009 
170 pp. 
ISBN 9788874622429.

martedì 24 settembre 2013

I numeri nella Piccola cosmogonia portatile

Pubblicata nel 1950, la Petite cosmogonie portative di Raymond Queneau fu un ambizioso tentativo di risvegliare il genere da lungo tempo assopito della cosmogonia in versi, introducendo le più recenti scoperte scientifiche del tempo e impiegando uno stile ludico e surreale caratterizzato da numerosi giochi di parole, calembour, argot, bisticci verbali e fonetici. 

Come dichiara il titolo, l’opera è una cosmogonia, cioè un racconto delle origini dell’universo e della sua storia, dalle origini secondo le teorie cosmogoniche più recenti, fino all'invenzione dei computer. L’ossimoro è evidente: il nome cosmogonia implica un intento totalizzante che è contraddetto dagli aggettivi piccola e portatile. Si tratta in effetti di un’ironica presa di distanze, in quanto il poeta si mostra piuttosto scettico sulla sua impresa: nell'epoca della specializzazione delle ricerche e della frammentazione dei saperi, ogni velleità di spiegazione universale deve essere interpretata in modo parodistico e beffardo. Inoltre, per quanto l’opera non sia breve per gli standard contemporanei, i suoi 1388 versi non raggiungono la lunghezza di un singolo canto del suo grande precursore, il De Rerum Natura di Lucrezio. L’opera del poeta latino è presente in tutto il poema di Queneau, che la indica costantemente come fonte d’ispirazione, sia in forma esplicita, sia in forma implicita e irriverente, come nella parodia che fa dell’invocazione a Venere, dove l’incipit lucreziano “Aeneadum genetrix, hominum divumque voluptas” diventa “Aimable banditrix des hommes volupté”. Ma Lucrezio non è il solo riferimento, in quanto Queneau dichiarava di rifarsi a quella corrente minoritaria e tuttavia antichissima di poesia scientifica che, partendo dai presocratici come Senofane ed Empedocle, ha lasciato traccia di sé in tutte le letterature europee, seppure con alterna fortuna. 

La struttura scelta da Queneau è quella dell’hexameron, poema cosmogonico di antica tradizione suddiviso in sei canti, ciascuno dei quali preceduto da una presentazione sinottica in prosa, con l’indice delle materie e l’indicazione dei versi corrispondenti, secondo lo schema adottato dai commentatori di Lucrezio. 

In questa struttura antica è tuttavia inserito un testo di evidente, persino impetuosa, modernità, che infrange continuamente le regole della pronuncia, della grammatica e del lessico, per non parlare del decoro poetico (molte metafore sono volutamente volgari). I versi alessandrini di Queneau utilizzano le più recenti scoperte, le teorie scientifiche e le invenzioni dell’epoca in cui furono scritti, come ad esempio la tettonica a zolle o l’idea di Georges Lemaître dell’atomo primordiale (che anticipò la teoria del big-bang). 

La combinazione di licenze linguistiche e di riferimenti a largo spettro al sapere scientifico moderno rendono la Cosmogonie un’opera piuttosto ostica, quasi certamente la meno letta tra quelle di Queneau, di sicuro la meno tradotta. La maggior parte dei lettori che la affrontano sono ben presto colpiti dalla scoraggiante abbondanza di parole strane e inusitate. Alcune sono pure invenzioni, altre sono termini scientifici specialistici, altre sono prese dal gergo della strada, con l’intento manifesto di accostare lessici diversi in un divertito, e solo a tratti divertente, guazzabuglio linguistico. Ma il rovescio della medaglia è che finalmente la terminologia scientifica trova diritto di cittadinanza nella poesia. Allontanandosi risolutamente dai canoni del lirismo, Queneau si impegna a estendere il campo lessicale della sua opera a termini che in precedenza non erano mai stati utilizzati in un simile contesto. 

Un tale obiettivo non ha alcuna finalità didattica, come Queneau fa dire a un certo punto a Mercurio-Ermete: per il poeta, che ringrazia, “le parole hanno un sapore volatile”, la violetta e l’osmosi hanno lo stessa profondità, anima (âme) e volframio (wolfram) sono suoni che fanno combutta, “sofferente e solforoso sono solo due aggettivi”. Si tratta di un’opera poetica dove l’autore si prende la libertà dell’accostamento, dell’allitterazione, del neologismo secondo la sua ispirazione, dove il gioco di parole, il calembour, può rivelare legami e vicinanze inaspettati. Una dichiarazione che sembra esprimere una retorica di tipo surrealista, un’apologia della “scrittura automatica”, tutt'altro che scientifica. Ma il flusso di coscienza del poeta, a guardare bene, non è affatto l’abbandono di ogni forma di controllo razionale sulla scrittura. Al contrario, egli pone molta cura a dotare il testo di un sistema di lettura particolare ed esclusivo, quasi iniziatico. Un jeu savant, dunque, in cui il lettore è invitato a decifrare metafore e crittografie per scoprire informazioni di una correttezza scientifica incontestabile, nascoste sotto una sorta di deformante lente linguistica. 

La narrazione, se di essa si può parlare in un’opera così congegnata, inizia con la nascita della Terra e segue all'incirca la scala dei tempi geologici, anche se numerosi sono i salti in avanti o all'indietro: l’anacronismo nel poema è speculare alle discontinuità del processo di evoluzione della materia e della vita. François Naudin ha fatto notare come il numero totale di versi dedicato alle diverse ere geologiche (Archeano, Paleozoico, ecc.) corrisponde esattamente alla loro durata, così l’uomo compare direttamente in pochi, a significare la presa di distanza di Queneau da ogni forma di antropocentrismo e la sua conoscenza di quanto poco la storia umana sia cronologicamente rilevante rispetto alla durata dell’universo. Non c’è progressione lineare, né qualsiasi forma di quieto finalismo: nella Petite cosmogonie portative lo sviluppo dall'esplosione iniziale dell’atomo primordiale attraverso le successive organizzazioni dell’inorganico e dell’organico è dominato, nella forma, nello stile e nei contenuti, dal caos e dal caso. L’uomo compare solo alla fine di un lungo processo naturale e culturale, e la sua asserita discendenza dalla scimmia che compare nella prima edizione (1950) sarà emendata nella seconda (1969), a ulteriore dimostrazione dell’attenzione di Queneau alla correttezza scientifica: 

[La singe sans effort le singe devint l’homme (1950)] 
La singe (ou son cousin) le singe devint l’homme (1969) 
lequel un peu plus tard désagrégea l’atome. 

che Italo Calvino così tradusse nel 1971: 

La scimmia (o suo cugino) la scimmia si fa uomo 
il quale un po’ più tardi disgregherà l’atomo. 

Lo spazio ridotto di un articolo per un blog non consente un’analisi completa dell’opera, sulla quale avrò comunque l’opportunità di ritornare. In questa occasione mi limito alla trattazione di un solo argomento, che spero riesca a dare un’idea dell’umore dell’intero poema. Si tratta della nascita dei numeri, che sono una presenza quasi costante in Queneau, matematico competente per diletto e amico di matematici importanti. I numeri e le operazioni compaiono a metà del primo canto, ai versi 99-129, generati dall'esplosione dell’atomo primitivo e dall'espandersi della nebulosa primordiale. E' evidente in questa scelta la posizione platonista dell'autore: la matematica esiste indipendentemente dall'uomo. Nella postfazione all'edizione italiana, uscita presso Einaudi nel 1982 (nella traduzione di Sergio Solmi), Italo Calvino ha scritto che 

 “Nell'atomo primitivo sono contenuti già i numeri (le cifre viste come ami che pescano gli zeri), quei numeri che si dispiegheranno nel calcolo dell’età della terra. L’esplosione dei numeri, dopo l’esplosione dei vulcani (o prima?) diventa un inno trionfale in cui la matematica e la biologia si sovrappongono, dando forma a tutte le operazioni dell’aritmetica e alle molteplicità del mondo”. 

In questo registro biologico, Calvino cita lo stesso Queneau, “Il 4 [è] paragonato a uno spermatozoo che va a unirsi (accostarsi) all’ovulo aritmoide (lo zero)”

Fornisco qui una mia traduzione letterale, e senza alcuna velleità artistica, dei versi indicati: ho preferito non utilizzare la pur meritoria versione di Sergio Solmi, resa in endecasillabi liberi, “sul registro illustre della tradizione poetica italiana” (sempre Calvino), perché non sono pienamente convinto dell’efficacia di questa scelta per rendere l’atmosfera e il “contenuto teorico” dell’opera originale. Lo stesso Calvino, in una lettera al traduttore Franco Quadri nel 1965 aveva ipotizzato per questo motivo una traduzione letterale e, quando nel 1971 intraprese la traduzione della prima parte del sesto canto, scelse un metro assai più simile all’alessandrino francese di quello che avrebbe poi utilizzato Solmi. Ciò perché l’endecasillabo è troppo “corto” e costringe il traduttore a spezzare ogni verso originale, che corrisponde anche a una unità di contenuto (per questo in francese non sono presenti segni di punteggiatura). Ne soffre soprattutto la cadenza, e, spesso, la resa del contenuto. Sergio Capello (che ha scritto un lungo saggio sugli anni parigini di Calvino) ha sostenuto che “La frase è ritmata dal verso e dal suono delle parole. Chiaramente si tratta di poesia scritta per essere letta a voce alta”. Una metrica più fedele all'originale sarebbe senza dubbio più consona “al carattere declamatorio della scrittura poetica di Queneau”. Per la traduzione mi sono avvalso del testo della prima versione, quello utilizzato da Solmi nell’edizione pubblicata da Einaudi. 


La nascita dei numeri 

                 (…) Una volta le cifre, ami di zeri 
infinitamente diversi, lentamente bollivano nell'atomo, 
indefinitamente nude, indefinitamente insulse, 
ma il loro conto era buono, ed eccole valorose 
a cavalcare l’esplosione. Oh gioventù, oh gioventù, 
quando il grafo era un bel solco tra le tue chiappe, 
nebulosa ostinata, e il tuo scoppio erompeva 
da un punto primevo della possibilità dei mondi, 
tutti ancora implumi, tutti ancora fanciulli, 
e i numeri si azzuffavano nella loro solitudine; 
ed eccoli vincitori a cavallo dell’ampiezza 
del bubbone forato del germe che sgorga 
dalla crosta sconnessa, e dal fuoco magistrale 
della piaga spurgata e del seme verticale, 
ed eccoli coglioni nella loro soddisfazione 
unirsi babbei nelle loro addizioni 
e ritirarsi stupidi nelle loro sottrazioni 
e riprodursi nelle moltiplicazioni 
e ben sprofondarsi in ogni divisione 
e ingrandirsi molto nell'elevamento a potenza 
e gingillarsi in semplici logaritmi 
e ben compiacersi in cumuli di algoritmi. 
Gioventù, oh gioventù, oh quando l’uno corteggiava il due 
senza sapere che il suo fottere ne avrebbe estratto il terzo, 
quando i segni dell’algebra addolcivano i loro giochi, 
quando le uguaglianze riposavano nel fegato 
allora analcolico dell’atomo adiposo 
e che l’informe quattro, piccolo spermatozoo, 
tentava di accostare l’ovulo aritmoide, 
quando il pus degli errori non gocciolava 
dalla prova del nove o dall'orgoglio contabile.

giovedì 3 gennaio 2013

Gruppi matematici e giochi con testi e parole

Che cosa è un gruppo?

Consideriamo un insieme di elementi, che indicheremo con X. Chiameremo permutazione di questo insieme una funzione f: X→X che opera sugli elementi di questo insieme in modo da ordinarli in successione, come nell'anagramma di una parola. Ad esempio, è possibile permutare gli elementi dell’insieme X formato dalle tre lettere A, B e C, ottenendo sei possibili configurazioni: ABC, ACB, BAC, BCA, CAB, CBA.

Quando abbiamo una permutazione f, abbiamo anche una permutazione inversa f−1 che riporta allo stato iniziale: se f(x)=y allora f−1(y)=x. Se ad esempio esiste la funzione f che trasforma ABC in BCA facendo slittare le lettere di un posto verso destra, esiste anche la funzione inversa f−1 che riporta BCA ad ABC facendo slittare le lettere di un posto verso sinistra. La funzione g che invece scambia di posto due lettere consecutive (da ABC a BAC) è diversa sia da f sia da f−1. La permutazione banale, vale a dire quella che non cambia niente, si chiama identità e viene indicata con Id.

Quando si hanno due permutazioni f e g dello stesso insieme, si può applicare prima f e poi g: si avrà così definita una permutazione composta che si indicherà gf (o più semplicemente gf, partendo da destra), poiché gf(x)=g(f(x)). Si noti che comporre con l’identità è un’operazione neutra, perciò si dice che l’identità è l’elemento neutro.

Ora, seguendo Arthur Cayley, si può dare la seguente definizione:

Un gruppo è l’insieme di tutte le permutazioni d’uno stesso insieme X che si possono ottenere per composizione a partire da certe permutazioni preferite, chiamate generatori, o dalle loro inverse.

Ad esempio il gruppo generato dalla sola applicazione f è composto da tre permutazioni: f , f= f2 e Id = f3. In questo caso si riscontra che l’inverso di f è f2. Così come accade nella teoria degli insiemi, la cardinalità di un gruppo si definisce in base al numero dei suoi elementi: in questo la cardinalità del gruppo generato da f è 3. 

Le permutazioni viste sopra, operate sull'insieme X = {A, B, C}, costituiscono quindi un gruppo

Il concetto di gruppo consente di lavorare in maniera flessibile con oggetti matematici di natura e origine molto diverse tra loro, identificandone alcuni importanti aspetti strutturali comuni. Con i gruppi è possibile trattare con le stesse modalità le soluzioni di un'equazione polinomiale, le simmetrie di un ente geometrico (ad esempio il gruppo di simmetria di un poligono regolare con n lati, detto gruppo diedrale), oppure gli insiemi numerici, o ancora le matrici. I gruppi giocano un ruolo chiave anche in topologia e in aree esterne alla matematica, come ad esempio nella fisica quantistica, dove queste rappresentazioni spesso permettono di discriminare le teorie "possibili", o nella chimica e nella mineralogia, in cui sono utilizzati per classificare strutture cristalline, poliedri regolari e simmetrie delle molecole. 

Un gioco di caselle 

Ecco uno schema formato da tre righe e tre colonne, nel quale ogni casella è associata a una cifra da 1 a 9: 


Ora permutiamo gli elementi dello schema, facendo slittare le righe o le colonne. Ad esempio, indichiamo con R2 l’operazione che consiste nel far slittare la seconda riga verso destra di un posto e portare l’ultimo elemento della riga in prima posizione, come mostrato nello schema: 


Qui sotto rappresentiamo invece lo slittamento di un posto verso il basso della prima colonna, operazione che indichiamo con C1


Che cosa succede se combiniamo queste due operazioni ? Ecco il risultato dell’azione di R2 seguita da quella di C1 (la prima azione si indica più a destra): 


Ecco invece che cosa succede se invertiamo l’ordine delle due operazioni, eseguendo prima quella di C1 e poi quella di R2


Si può constatare che l’ordine in cui vengono eseguite le operazioni influisce sul risultato, che non è lo stesso. Si dice a questo proposito che le azioni non commutano: C1 R2 ≠ R2 C1

Come già accennato, indichiamo con l’esponente –1 l’operazione inversa. Così C1–1 è l’operazione che fa slittare verso l’alto di un posto la colonna 1, e R2–1 quella che fa slittare la riga 2 di un posto verso sinistra

Le traslazioni intere 

Consideriamo ora come insieme X tutti i punti di una retta. Indichiamo con t la traslazione di lunghezza l verso destra : t(x) = x + l se si pensa la retta come l’insieme dei numeri reali. La permutazione inversa è la traslazione verso sinistra di identica lunghezza. Più in generale, la potenza n–esima di t opera sulla retta X come indicato da tn(x) = x + nl


Il gruppo generato da t:

…,t–2, t–1, Id, t, t2,… 

può essere indicato con Z, con lo stesso simbolo utilizzato per l’insieme degli numeri relativi, con il quale è in corrispondenza biunivoca (si tratta infatti di un numero infinito di traslazioni intere, con l’identità, elemento neutro, che funge da zero). 

Come è facile verificare, in questo caso una traslazione t corrisponde a un’operazione di somma algebrica e gode delle sue stesse proprietà. Quindi l’ordine delle operazioni effettuate su X non influisce sul risultato: si tratta di un gruppo commutativo, o gruppo abeliano.

I commutatori 

All'interno di un gruppo G è possibile calcolare come commutano due suoi elementi a e b, calcolando il loro commutatore, dato dalla relazione:

[a,b] = aba–1b–1.

Un commutatore è diverso da zero quando la composizione di due operazioni non soddisfa la proprietà commutativa.

Tornando alle operazioni C1 e R2 viste in precedenza, possiamo ad esempio calcolare il commutatore di C1 e R2 , cioè [C1, R2] = C1R2 C1–1R2–1, ovvero l’azione inversa di R2 seguita dall'azione inversa di C1 seguita dall'azione di R2 poi da quella di C1, nell'ordine indicato dalla formula da destra verso sinistra. Troviamo allora:


Ci sono solo tre cifre permutate: (5,7,4). 

Un gioco di versi 

Un esperimento di utilizzo combinatorio dei gruppi consiste nell'associare ai quadrati di nove caselle i versi di una celeberrima poesia di Eugenio Montale, Spesso il male di vivere ho incontrato, tratta da Ossi di seppia (1925), con lo scopo di verificare l’effetto straniante dell’applicazione al testo di una permutazione composta non commutativa. Incominciamo con l’associare i versi (compresa la pausa tra le due quartine) con le caselle: 

1. Spesso il male di vivere ho incontrato: 
2. era il rivo strozzato che gorgoglia, 
3. era l’incartocciarsi della foglia 
4. riarsa, era il cavallo stramazzato. 
5. – 
6. Bene non seppi, fuori del prodigio 
7. che schiude la divina Indifferenza: 
8. era la statua della sonnolenza 
9. del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato. 

Ora applicheremo al testo così organizzato prima l’operazione R3–1, che consiste nel far slittare la terza riga verso sinistra di un posto, poi l’operazione C2, che provoca lo slittamento di un posto verso il basso della seconda colonna. Ecco il risultato: 


Che modifica il testo in questo modo: 

Spesso il male di vivere ho incontrato: 
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato, 
era l’incartocciarsi della foglia 
riarsa, era il cavallo stramazzato, 
era il rivo strozzato che gorgoglia. 
Bene non seppi, fuori del prodigio 
era la statua della sonnolenza. 
– 
Che schiude la divina Indifferenza. 

Ora invertiamo l’ordine delle due permutazioni: 


Con il seguente risultato: 

Spesso il male di vivere ho incontrato: 
era la statua della sonnolenza, 
era l’incartocciarsi della foglia 
 riarsa, era il cavallo stramazzato, 
era il rivo strozzato che gorgoglia. 
Bene non seppi, fuori del prodigio. 
– 
Del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato 
che schiude la divina Indifferenza. 

Calcoliamo infine il commutatore di R3–1 e C2, cioè [R3–1, C2] = C2–1R3 C2 R3–1, ovvero l’azione inversa di R3 seguita dall’azione di C2 seguita dall’azione di R3 poi da quella inversa di C2, nell’ordine indicato dalla formula da destra verso sinistra.


Con tre cifre permutate: (5, 8, 9).

Come la teoria degli insiemi e quella dei grafi, anche quella dei gruppi può esplorare le enormi possibilità della combinatoria applicata a un testo. La matematica può essere utilizzata per giocare a scombinare la struttura di un testo esistente, come ho fatto in questo caso, ma può anche servire per guidare e costruire la struttura di un testo da creare. La cosa più sorprendente è osservare come l’applicazione di regole auto–imposte (le contraintes dell’Oulipo), lungi da limitare la creatività di un autore, può essere un potente strumento per la sua manifestazione.

giovedì 27 dicembre 2012

La quadratura del quadrato (con poesia oulipiana)

La quadratura del quadrato consiste nel tassellare un quadrato il cui lato è un numero intero con altri quadrati di lato intero. Il nome al problema fu dato da William Tutte (1917-2002) per analogia scherzosa con quello della quadratura del cerchio. Senza altre condizioni, la quadratura del quadrato è un compito relativamente semplice. Se tuttavia si richiede che la quadratura sia perfetta, allora le dimensioni dei quadrati più piccoli devono essere tutte diverse e il problema è assai più complicato. Solo nel 1982 si è potuto dimostrare che il quadrato di lato 112 della figura è il più piccolo quadrato quadrato perfetto. 


Il primo riferimento alla dissezione di quadrati in quadrati fu fatto dall’inglese Henry Dudeney, uno dei primi grandi esperti di matematica ricreativa. Nella rivista Strand del gennaio 1902 comparve infatti il rompicapo Lady Isabel's Casket (Lo scrigno di Lady Isabel), che riguardava la dissezione di un quadrato in quadrati di diversa dimensione e in un rettangolo. Il quesito fu poi pubblicato in volume da Dudeney in The Canterbury Puzzles (1907, al n. 40): 


La giovane parente e pupilla di Sir Hugh, Lady Isabel de Fitzarnulph, possiede uno scrigno il cui coperchio è perfettamente quadrato. Esso è intarsiato con tessere di legno e una striscia d’oro, lunga 10 pollici e larga un quarto di pollice. Tutti i giovani che si recano da Sir Hugh per chiedere la mano di Lady Isabel devono risolvere il problema di suddividere il quadrato, a parte la striscia d’oro, in un certo numero di quadrati perfetti, tutti di dimensioni diverse. Solo un giovane riesce dove in molti hanno fallito prima di lui. Ecco la soluzione: 


Il topologo e geometra tedesco Max Dehn si era invece occupato del problema della quadratura del rettangolo, in un articolo pubblicato sui Mathematische Annalen del settembre 1903. Dehn dimostrò che: 
- Un rettangolo può essere suddiviso in quadrati se e solo se i suoi lati sono commensurabili. 
- Se un rettangolo può essere suddiviso in quadrati, allora esistono infiniti modi perfetti (con quadrati di dimensioni tutte diverse). 
Il termine commensurabile significa in proporzione razionale, con entrambi i numeri interi che hanno un sottomultiplo comune. 


Un altro grande matematico ricreativo, Sam Loyd, fu il primo a proporre un quesito di quadratura del quadrato, The Darktown Patch Quilt Puzzle (Il rompicapo della trapunta a pezze di Darktown), che fu pubblicato su Cyclopedia of Puzzles nel 1914 dal figlio dopo la sua morte. Una trapunta quadrata fatta da 12 x 12 pezze quadrate della stessa dimensione deve essere divisa nel più piccolo numero possibile di in 11 pezze quadrate tagliando lungo i lati dei quadrati esistenti. Esistono due possibili soluzioni con 11 quadrati, ma  la quadratura non è semplice né perfetta. 


Nel 1925 il problema della quadratura fu affrontato dal polacco Zbigniew Moroń nell’articolo O Rozkladach Prostokatow Na Kwadraty (Sulla dissezione di un rettangolo in quadrati), nel quale fornì i primi esempi di rettangoli divisi in quadrati diversi, senza tuttavia fornire la procedura di costruzione. Il rettangolo I, di dimensioni 33 x 32 è suddiviso in 9 quadrati, mentre il rettangolo II, di lati 65 x 47, è diviso in 10 quadrati. Più tardi avrebbe raccontato che in quel periodo trovò altri risultati su questo argomento, provando che è impossibile costruire un rettangolo con meno di 9 quadrati diversi. Sostenne anche di essere riuscito a ottenere la prima quadratura perfetta di un quadrato, anni prima che fosse nota la prima soluzione “ufficiale”.


Moroń notò che aggiungendo un quadrato con lo stesso lato a ciascun lato del rettangolo, esso può essere ingrandito indefinitamente. Il matematico americano Pasquale Joseph Federico in seguito avrebbe scoperto che, continuando la procedura per lati alterni, i quadrati corrispondono alla sequenza di Fibonacci e pertanto il rapporto dei lati in questa sequenza infinita si avvicina a phi, il numero aureo. 


Un posto a parte nella vicenda è occupato dal giapponese Michio Abe. Pur lavorando da solo, egli conosceva la scarsa letteratura pubblicata sull'argomento e riuscì nel 1930 a tassellare più di 600 rettangoli perfetti. In un articolo in inglese del 1931 egli dimostrò che si può costruire una serie infinita di rettangoli perfetti composti partendo da un singolo rettangolo perfetto nel quale il rapporto tra i lati si avvicina al limite di 1, ad esempio di dimensioni 191 x 195. Dopo questa pubblicazione, Abe sparì nel nulla. 

Il problema fu affrontato infine da un gruppo di dottorandi in matematica all'Università di Cambridge nel triennio 1936-39. I quattro, Rowland Leonard Brooks, Cedric Smith, Arthur Stone e William Tutte, adottarono un metodo assai originale per i tempi, trasformando la tassellatura quadrata in un circuito elettrico equivalente (che chiamarono diagramma di Smith), considerando i quadrati come resistenze collegate a quelle vicine ad entrambe le estremità, quindi applicarono al circuito le leggi di Kirkhoff e le tecniche di decomposizione circuitale. 

L’analogia con le reti circuitali merita un piccolo approfondimento, per il quale mi avvalgo della testimonianza di William Tutte, che si trova nel dettagliato articolo Squaring the Square pubblicato da Martin Gardner in More Mathematical Puzzles and Diversions (1961). Dopo aver adottato un metodo algebrico, che consentiva di costruire un numero considerevole di rettangoli perfetti, Brooks, Smith, Stone e Tutte abbandonarono questo approccio un po’ empirico in favore di uno più teorico. Smith propose allora un diagramma per rappresentare i rettangoli perfetti come circuiti elettrici. La figura mostra un rettangolo perfetto con a fianco il suo diagramma di Smith. Ogni segmento orizzontale nel disegno è rappresentato nel diagramma da un punto, o “nodo“. Nel diagramma di Smith ogni nodo giace su una proiezione (a destra) del segmento orizzontale corrispondente nel rettangolo. 


Ogni quadrato componente del rettangolo è delimitato sopra e sotto da due dei segmenti orizzontali. Di conseguenza esso è rappresentato da una linea o “filo” che unisce i due nodi corrispondenti. Immaginiamo che una corrente fluisca in ciascun filo. L’intensità della corrente è numericamente uguale al lato del quadrato corrispondente, e il suo verso va dal nodo che rappresenta il valore più basso a quello più alto. Si può immaginare che i due lati orizzontali del rettangolo corrispondano ai poli negativo e positivo di una corrente fatta fluire nel circuito. 

Così concepito, il circuito rappresentato dal diagramma di Smith rispetta le leggi di Kirkhoff per il flusso in una rete circuitale, purché si consideri ogni filo un’unità di resistenza. La prima legge di Kirkhoff afferma che, eccetto che ai poli, la somma algebrica delle correnti che fluiscono verso ogni nodo è zero (la somma delle correnti in entrata è uguale alla somma delle correnti in uscita). Ciò corrisponde al fatto che la somma dei lati dei quadrati posti al di sotto di un dato segmento orizzontale è uguale alla somma dei lati dei quadrati posti al di sopra dello stesso segmento, naturalmente con l’esclusione dei due lati orizzontali del rettangolo. La seconda legge dice che la somma algebrica delle tensioni lungo una linea chiusa (con il segno appropriato in funzione del verso di percorrenza della maglia stessa) è pari a zero. La corrente totale che entra nella rete al polo positivo e esce a quello negativo corrisponde al lato orizzontale del rettangolo, mentre la differenza di potenziale tra i due poli è uguale al lato verticale. 

La scoperta di questa analogia elettrica fu importante perché consentì di collegare il problema della quadratura a una teoria fisico-matematica ben stabilita. Era possibile ottenere e prendere a prestito dalla teoria delle reti elettriche delle formule per le correnti in un diagramma di Smith, e per le dimensioni dei corrispondenti quadrati componenti. Il principale risultato di questa operazione fu la possibilità di calcolare un valore dalla struttura del sistema senza alcun riferimento a quali particolari nodi erano scelti come poli. I quattro chiamarono questo valore complessità della rete. Se si scelgono le unità di misura per il rettangolo corrispondente in modo che il lato orizzontale sia uguale alla complessità, allora i lati dei quadrati componenti sono tutti numeri interi. Inoltre il lato verticale è uguale alla complessità di un’altra rete ottenuta dalla prima identificando i due poli. 


Il diagramma di Smith semplificò la procedura per produrre e classificare i rettangoli con quadratura perfetta. I quattro matematici avevano classificato i rettangoli secondo il loro “ordine”, vale a dire il numero di quadrati che li componevano. Si scoprì così che non esistono rettangoli perfetti fino all'ottavo ordine, e solo due del nono. Ce ne erano 6 del decimo ordine e 22 dell’undicesimo. Si scoprì anche che esistevano rettangoli con lati uguali che davano origine a due diverse scomposizioni, che potevano essere ridotte a una applicando opportune simmetrie. La ricerca proseguì e finalmente il gruppo di Cambridge riuscì a ottenere la quadratura di un quadrato, prima di sessantanovesimo, poi di trentanovesimo e infine di ventiseiesimo ordine, come risultato della fusione di due rettangoli perfetti. Alla fine del 1939 la teoria della quadratura del quadrato era finalmente stabilita e avrebbe dato notevoli frutti nei decenni successivi. 

L’articolo che firmarono alla fine della loro ricerca, The Dissection of Rectangles into Squares (Duke Mathematical Journal, dicembre 1940), coinvolgeva una vasta gamma di discipline matematiche, dalla teoria delle reti elettriche ai grafi planari, dalla teoria dei numeri a quella delle matrici, dalla funzione determinante agli operatori rotore e divergenza, ecc. I loro principali risultati possono essere così sintetizzati:
- Ogni rettangolo quadrato possiede lati ed elementi commensurabili; 
- Ogni rettangolo con lati commensurabili è perfettibile in infiniti modi diversi; 
- Non esistono rettangoli perfetti di ordine inferiore a 9; 
- Scoperta del quadrato perfetto semplice di ordine 39 e del quadrato perfetto composto di ordine 26; 
- Generalizzazioni del problema: rettangoli rettangolati, cilindri e tori quadrati, triangoli equitriangolati e la prova che non è possibile cubare i cubi. 

Nel frattempo, procedendo con metodi prettamente empirici, il tedesco Roland Sprague (1894-1967). aveva trovato la prima soluzione del problema della quadratura del quadrato, pubblicandola su Mathematische Zeitschrift (1939), qualche mese prima di Brooks, Smith, Stone e Tutte. Sprague aveva costruito la soluzione utilizzando diverse copie di varie grandezze dei rettangoli I e II di Moroń, di un terzo rettangolo perfetto di dodicesimo ordine e di altri cinque rettangoli di base, creando un quadrato composto di ordine 55, con il lato di 4205 unità. 


A questo punto l’articolo sarebbe finito, se i meriti di Tutte (e compagni, e anche del rompicapo di Henry Dudeney) non fossero stati riconosciuti dal matematico e scrittore dell’Oulipo Jacques Roubaud, che, nel gennaio di quest’anno, ha pubblicato sul meritorio sito francese Images des Mathématiques del CNRS una sestina lirica (che egli chiama mongine in onore di Gaspard Monge) dal titolo Tutte. La struttura della poesia, molto di fantasia, si basa sulla permutazione di sei parole-rima che si scambiano di posto nelle sei strofe dell’opera. Sfortunatamente, l’opera, il cui originale si trova al link qui sopra, è intraducibile, perché contiene omofonie e giochi di parole tipici del francese. La mia traduzione, assai zoppicante, è un tentativo di far conoscere al lettore italiano questa ennesima contaminazione matematico-letteraria. 

Tutte

Lady Isabel de Fitzarnulph era bella 
Così bella che sua padre la voleva sistemare 
Egli fece battere il tamburo e da ogni lato 
Annunciare che colui che riusciva con quadrati 
Tutti diversi a coprire il suo scrigno d’oro (perfetto 
Quadrato) aveva sua figlia. Tale fu il problema 

II 
Posto ai pretendenti; terribile problema 
Diciamolo; tanto più che ciascuno dei quadrati 
Che sulla superficie si dovevano sistemare 
Avevano (allora la soluzione era bella) 
Un numero intero di pollici per misura del lato, 
Lo scrigno contandone sei cento otto. Perfetto 

III 
Rompicapo. Forse insolubile. Perfetto, 
Troppo? Sir Hugh voleva la sua graziosa e bella 
Bambina serbare per sempre? Quadrati 
Piani ipocriti, allora. La scelta di questo problema 
Lo assicurava che non l’avrebbe dovuta sistemare 
E che lei sarebbe rimasta per sempre al suo lato? 

IV 
Dall’Irlanda, Galles, Scozia e da ogni lato 
D’Inghilterra essi giungono, affrontano il problema 
Giovani, vecchi, grandi, piccoli, per aver la bella, 
Si spremono le meningi, Invano. Fiasco perfetto. 
Ne resta uno. “E tu, Tutte?” “Tutti i miei quadrati 
Vanno bene, my Lord!” Non resta che lor sistemare. 

Tutte viveva con sua mamma, e doversi sistemare 
Non cambiava nulla per lui. Con un accordo perfetto 
Vissero tutti tre (senza alcun problema). 
La sera contemplava sua moglie, a suo lato 
L’ineguale armonia della soluzione bella 
Posta sulla scrivania con i tutti i suoi quadrati. 

VI 
Un giorno, uscito Tutte, sua madre, i quadrati
(Erano ventisei, di differente lato) 
Spostò, facendo le pulizie. Eppure l’ordine perfetto 
Regnava quando rientrò, perché, per poterli sistemare,
Lei aveva risolto in altro modo il problema!
È vera la storia? Non lo so, però è bella!