Visualizzazione post con etichetta Novecento. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Novecento. Mostra tutti i post

giovedì 19 agosto 2021

Poesia del ‘900 e scienza (5): “Siamo parte di un'interazione”

 


La realtà come processo

Forse l'esposizione più influente della modernità scientifica è stata Science and the Modern World (1925) del filosofo, logico e matematico Alfred North Whitehead (1861-1947), che concepiva la realtà come un processo nel quale non è possibile operare una distinzione tra soggetto e oggetto; e ciò in rapporto all'insieme di collegamenti dati dagli oggetti esterni che costituiscono il campo del possibile e dell'esistente. 

“Il progresso della scienza ha ora raggiunto un punto di svolta. Le fondamenta stabili della fisica sono andate in pezzi: così per la prima volta la fisiologia si sta affermando come un effettivo corpo di conoscenza, distinto da un cumulo di rottami. I vecchi fondamenti del pensiero scientifico stanno diventando incomprensibili. Tempo, spazio, materia, materiale, etere, elettricità, meccanismo, organismo, configurazione, struttura, schema, funzione, tutti richiedono una reinterpretazione. Che senso ha parlare di una spiegazione meccanica quando non si sa che cosa voglia dire meccanica?

Nella stessa opera, Whitehead parlava della necessità di “ampliare lo schema scientifico in un modo che sia utile alla scienza stessa”:

“Il punto di fronte al quale ci troviamo è che il campo del pensiero scientifico è ora, nel ventesimo secolo, troppo ristretto per analizzare i fatti concreti che gli stanno davanti. Questo è vero anche in fisica, ed è particolarmente urgente nelle scienze biologiche. Quindi, per comprendere le difficoltà del pensiero scientifico moderno e anche i suoi riflessi sul mondo moderno, dovremmo avere in mente un’idea di campo di astrazione più ampio, un'analisi più concreta, che si avvicini di più alla completa concretezza della nostra esperienza intuitiva”.

Whitehead sosteneva che la realtà consiste di processi piuttosto che di oggetti materiali, e che i processi sono meglio definiti dalle loro relazioni con altri processi, rifiutando così la teoria secondo cui la realtà è fondamentalmente costituita da pezzi di materia che esistono indipendentemente l'uno dall'altro. 

Per la filosofia del processo di Whitehead, sviluppata in Process and reality (1929) "è urgente vedere il mondo come una rete di processi interconnessi di cui siamo parti integranti, in modo che tutte le nostre scelte e azioni abbiano conseguenze per il mondo che ci circonda".

Il suo pensiero (per molti aspetti influenzato dal suo amore per i Romantici, in particolare per The Prelude di Wordsworth) fu da molti poeti interpretato come legittimazione di una poesia di processo, che riflette un nuovo mondo quasi caotico, di difficile interpretazione.


"La rosa nella polvere d'acciaio", l’immagine prodotta dalle forze elettromagnetiche che Ezra Pound (1885-1972) descrisse nei suoi primi, controversi, saggi, sembrava incarnare il misterioso flusso di energie verso un disegno che egli vedeva nell'arte primitiva; e fornire un modello per l'immagine come "nodo o cluster radiante". Poco dopo tale modello divenne il “vortice”, che Pound derivò sia da una lettura dei presocratici sia dalle scienze moderne (in particolare, dall’opera di Helmholtz sui vortici in idrodinamica, sviluppata da Lord Kelvin per la sua teoria degli atomi-vortice). Ciò che il vocabolo consentiva era un'idea di stile dettato dalle energie dei materiali coinvolti, producendo la poesia come un campo di attività in cui gli elementi esistono in relazione dinamica e organica tra loro. A Pound è attribuita la coniazione del termine Vorticismo. Nel suo saggio "Vortex", pubblicato nel 1914, sottolinea la relazione del vorticismo con il movimento, notando: "Il vortice è il punto di massima energia. Rappresenta, in meccanica, la massima efficienza. Usiamo le parole 'massima efficienza' nel senso preciso, come sarebbero usate in un libro di testo di Meccanica”.

Anche il matematico, filosofo, semiologo, logico e scienziato statunitense Charles Sanders Peirce (1839-1914), uno dei padri del pragmatismo, fu un punto di riferimento. Secondo Peirce, nel mondo non esiste alcuna necessità, e anzi esso è immerso nel dominio del caso (del clinamen epicureo e lucreziano). Solamente il metodo scientifico può accogliere la correzione e perciò accetta la sua fallibilità. Il fallibilismo fu un elemento prioritario del pensiero di Peirce, anticipando quello di Karl Popper, allo stesso modo del concetto dell'evoluzione, tipico della sua epoca. Non solo argomentò contro il determinismo in The Doctrine of Necessity Examined (1892), ma per scrittori successivi, come la poetessa, attivista, femminista americana Muriel Rukeyser (1913-1980), funse da pensatore fondamentale in relazione alla nozione di un campo interpretativo in cui il poeta, la poesia e il lettore interagiscono tutti insieme. Nel saggio The Life of Poetry (1949), vero e proprio inno d’amore per la poesia, Rukeyser illustrò questa poetica della connessione, affermando che il poeta, lo scienziato e il matematico cercano "un sistema di relazioni" e che lo scambio di energie è centrale sia per la poesia che per la scienza (Secondo Henri Poincaré, i matematici non studiano oggetti, ma relazioni fra oggetti; per loro, dunque, è indifferente sostituire alcuni oggetti con altri, a condizione che le relazioni non cambino. A loro non importa la materia, importa solo la forma).


Poesia come campo d’azione

Nell'opera di altri poeti questa idea diventa una teoria della poesia completamente elaborata. William Carlos William (1883-1963) riteneva che la fisica einsteiniana avesse aperto la strada a una nuova concezione della forma poetica, oltre che dello spazio-tempo. Nella conferenza The Poem as a Field of Action tenuta all’Università di Washington nel 1948, ne formalizzò il fondamento teorico: anche se i poeti hanno aperto l'immaginario del loro lavoro per includere i paesaggi industriali e altri nuovi soggetti, sostiene Williams, è lo stesso modo di far poesia che deve essere rivoluzionato. 

“Come possiamo accettare la teoria della relatività di Einstein, che influenza la nostra stessa concezione dei cieli intorno a noi di cui i poeti scrivono così tanto, senza incorporare il suo fatto essenziale – la relatività delle misurazioni – nella nostra categoria di attività: il poema. Pensiamo di stare al di fuori dell'universo? O che fa la Chiesa d'Inghilterra? La relatività vale per tutto, come l'amore, se vale per qualunque cosa al mondo”. (...)

Applicando la teoria della relatività di Einstein alla "relatività delle misurazioni", Williams sostiene che "le nostre poesie non sono realizzate in modo abbastanza sottile, la struttura, il modo posato della poesia non è in grado di far passare i nostri sentimenti"

Spring and All, "La primavera e tutto il resto" (1923) composta più di vent'anni prima di questa conferenza, è stata vista dalla critica come la prima raccolta di Williams a illustrare la sua idea del poema come campo d'azione. La raccolta è la precoce testimonianza di una fra le più inesauste e febbrili esperienze di poesia del Novecento, e mostra quanto l'esperienza di destrutturazione dell'arte cubista e la violenza inaudita della grande guerra appena conclusa avessero destrutturato la parola poetica, rendendo necessaria l'apertura di un inedito, incognito approccio. Cosi in By the road to the contagious hospital (Sulla strada per l’ospedale infettivologico):

Lifeless in appearance, sluggish
dazed spring approaches—

They enter the new world naked,
cold, uncertain of all
save that they enter. All about them
the cold, familiar wind—

Now the grass, tomorrow
the stiff curl of wild carrot leaf
One by one objects are defined—
It quickens: clarity, outline of leaf

But now the stark dignity of
entrance—Still, the profound change
has come upon them: rooted, they
grip down and begin to awaken


In apparenza senza vita, pigra
la primavera stordita si avvicina—


Entrano nudi nel nuovo mondo,
freddo, incerti di tutto
salvo che arrivare. Tutto intorno a loro
il vento freddo e familiare —

Ora l'erba, domani
il rigido ricciolo della foglia di carota selvatica
Uno per uno gli oggetti sono definiti —
Si anima: chiarezza, contorno di foglia

Ma ora la cruda dignità
dell’arrivo. Eppure, il profondo cambiamento
è giunto su di loro: radicati, essi
intuiscono e iniziano a svegliarsi.

La teoria di Williams è stata successivamente sviluppata da Charles Olson (1910-1970) come composition by field (composizione per campo), che si concentra sul movimento tra gli elementi in una poesia o tra più testi poetici, dove la poesia è concepita come un insieme di forze, uno spazio discorsivo con le proprie relazioni interne tra gli elementi. Ad esempio, la prima strofa di In Cold Hell, in Thicket (Nel freddo inferno, nel folto) recita:

In cold hell, in thicket, how
abstract (as high mind, as not lust, as love is) how
strong (as strut or wing, as polytope, as things
are constellated)
how strung, how cold
can a man stay (can men) confronted
thus?

All things are made bitter, words even
are made to taste like paper, wars get tossed up
like lead soldiers used to be
(in a child’s attic) lined up
to be knocked down, as I am,
by firings from a spit-hardened fort, fronted
as we are, here, from where we must go

God, that man, as his acts must, as there is always
a thing he can do, he can raise himself, he raises
on a reed he raises his

Or, if it is me,
what he has to say

 

Nel freddo inferno, nel folto, quanto
astratto (come le grandi menti, non come la libidine, come l’amore) quanto
forte (come pilastro o ala, come politopo, come
una costellazione di cose)
quanto teso, quanto freddo
può̀ restare un uomo (gli uomini) messo così
a confronto?

Ogni cosa si fa ostile, persino le parole
prendono un sapore di carta, si dispongono guerre
come soldatini di piombo erano
(nel solaio di un bimbo) allineati
per essere poi abbattuti, come me,
dai colpi di un fortino indurito di saliva, contrapposti
come siamo, qui, da dove dobbiamo andare

Dio, quell’uomo, poiché́ i suoi atti urgono, poiché́ c’è sempre
qualcosa che lui può̀ fare, può̀ sollevarsi, può̀ levarsi
su una cannuccia può̀ levare il suo

Oppure, se sono io,
quello che ha da dire

Come Williams, Olson vide lo spazio non euclideo della scienza moderna come una giustificazione delle sue procedure, suggerendo che il reale può in effetti essere una questione di forma: una disposizione dinamica di forze o percorsi. Il suo saggio del 1957, Equal, That Is, to the Real Itself, spiega l'implicazione di questa visione della poesia in termini di un campo metrico "riemanniano" in cui lo spazio testuale si piega intorno alla realtà.


Grovigli infiniti

In Italia queste idee sono giunte con considerevole ritardo, con una sola eccezione, rappresentata non da un poeta (casomai occasionale e non proprio modernista), ma da un saggista, prosatore e filosofo laureato in ingegneria. Pur essendosi nutrito di una solida cultura positivistica, Carlo Emilio Gadda (1893-1973) non accettava la purezza denotativa della lingua, inadeguata a rappresentare i sistemi complessi e il pluralismo delle concause destinate a tessere continue trame relazionali. All’immagine deterministica della «catena crudamente obbiettivante» egli contrappone «quella di una maglia o rete: ma non di una maglia a due dimensioni […] o a tre dimensioni […], sì di una maglia o rete a dimensioni infinite. Ogni anello o grumo o groviglio di relazioni è legato da infiniti filamenti a grumi o grovigli infiniti» (in Meditazione milanese, scritta alla fine degli ‘20 ma pubblicata solo nel 1974). Secondo Gadda, nessun oggetto esiste isolatamente, ma solo come punto nodale ove confluisce il complesso infinito delle relazioni di detto oggetto con innumerevoli altri:

Non è possibile pensare un grumo di relazioni come finito, come un gnocco distaccato da altri nella pentola. I filamenti di questo grumo ci portano ad altro, ad altro, infinitamente ad altro. 

L’oggetto non è un'isola inaccessibile in una realtà composta di tanti elementi contigui, bensì «un nucleo o groviglio di relazioni attuali». Non può essere pensato indipendentemente dalle relazioni in cui è coinvolto, poiché non si può sceverare il nocciolo duro del suo essere, la parte immutabile che potesse entrare o meno in relazione con il mondo, e ne restasse comunque incolume. Non ci sono gli oggetti da un lato, le relazioni fra gli oggetti dall’altro. Le apparenze ottiche e la pigrizia mentale – «i grossi e bovini occhî imbambolati dalla luce del giorno e dalla sua falsa dialettica», – ci fanno vedere l’oggetto come se fosse definito nel recinto dei propri contorni, mentre esso è raggiunto ininterrottamente da altri oggetti, anzi da tutti gli altri oggetti, così come viceversa esso raggiunge loro: sicché l’essere reale dell’oggetto sta nella totalità di tutte le sue implicazioni. Discendono da queste premesse i principi più saldi della poetica gaddiana: la tensione enciclopedica del «pasticcio», espressione di una realtà caotica, ovvero della «baroccaggine» del mondo, e l’ostinata avversione alla tesi dell’unicità dell’io, «il più lurido dei pronomi», ancora in vita nonostante che la scienza abbia chiarito che «il cosiddetto ‘uomo normale’ è un groppo, o gomitolo o groviglio o garbuglio, di indecifrate (da lui medesimo) nevrosi» (I viaggi la morte, 1958).

La continuità, o addirittura l’equivalenza fra dentro e fuori è un pilastro centrale della poetica di molti artisti del Novecento. Si pensi all’errabondo e schizofrenico Dino Campana (1885-1932) di Pampa, per il quale la confusione fra oggettivo e soggettivo, la nevrosi, non fu una mera formula stilistica, bensì una intuizione vissuta sulla propria pelle.

(...) Dov’ero? Io ero in piedi: Io ero in piedi: sulla pampa nella corsa dei venti, in piedi sulla pampa che mi volava incontro: per prendermi nel suo mistero!
Un nuovo sole mi avrebbe salutato al mattino! Io correvo tra le tribù indiane?
Od era la morte? Od era la vita? E mai, mi parve che mai quel treno non avrebbe dovuto arrestarsi: nel mentre che il rumore lugubre delle ferramenta ne commentava incomprensibilmente il destino.
Poi la stanchezza nel gelo della notte, la calma. Lo stendersi sul piatto di ferro, il concentrarsi nelle strane costellazioni fuggenti tra lievi veli argentei: e tutta la mia vita tanto simile a quella corsa cieca fantastica infrenabile che mi tornava alla mente in flutti amari e veementi.
La luna illuminava ora tutta la Pampa deserta e uguale in un silenzio profondo.
Solo a tratti nuvole scherzanti un po’ colla luna, ombre improvvise correnti
per la prateria e ancora una chiarità immensa e strana nel gran silenzio.

La luce delle stelle ora impassibili era più misteriosa sulla terra infinitamente deserta: una più vasta patria il destino ci aveva dato: un più dolce calor naturale era nel mistero della terra selvaggia e buona.
Ora assopito io seguivo degli echi di un’emozione meravigliosa, echi di vibrazioni sempre più lontane: fin che pure cogli echi l’emozione meravigliosa si spense.
E allora fu che nel mio intorpidimento finale io sentii con delizia l’uomo nuovo nascere: l’uomo nascere riconciliato colla natura ineffabilmente dolce e terribile: deliziosamente
e orgogliosamente succhi vitali nascere alle profondità dell’essere: fluire dalle profondità della terra:
il cielo come la terra in alto, misterioso, puro, deserto dall’ombra, infinito.
Mi ero alzato.
Sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa, dalla sua tenda l’uomo libero tendeva le braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio.


Relazioni intertestuali

Un risultato della teoria dei campi applicata alla poesia è un senso accresciuto delle relazioni intertestuali. Da Pound in poi, i poeti hanno prodotto testi in cui sono disseminate le parole di altri, lasciando al lettore una relazione dinamica tra i frammenti così dispersi, come nelle molteplici fonti di Pound nei Cantos, legate insieme nel vortice della storia o nei testi sparsi di Melville in Melville's Marginalia della poetessa visuale e pittrice americana Susan Howe (n, 1937). In Italia, la stessa tecnica sarà adottata da Balestrini, Sanguineti e Pagliarani. Una pratica così diffusa solleva domande fondamentali sui limiti dell'originalità nell'arte (e come non ricordare le considerazioni di Walter Benjamin sulla sua riproducibilità tecnica?).

Il californiano Robert Edward Duncan (1919-1988) fu, per educazione familiare, un esponente della tradizione esoterica occidentale. Sebbene associato a diverse scuole letterarie, Duncan fu influenzato soprattutto dalla tradizione modernista di Pound, Williams e Lawrence. Omosessuale dichiarato e precursore della cultura hippy, fu una figura chiave nel cosiddetto Rinascimento di San Francisco dei primi anni ‘50 che anticipò la Beat Generation e la controcultura del decennio successivo. 

Duncan ottenne un notevole successo artistico e critico soprattutto con la raccolta The Opening of the Field (L'apertura del campo, 1960). La sua poesia è modernista nella sua preferenza per l'impersonale, mitico e ieratico, ma romantica nel privilegiare l'organico, l'irrazionale e il primordiale, il non ancora articolato che si fa strada nel linguaggio come un salmone che risale la corrente:

Neither our vices nor our virtues
further the poem. "They came up
and died
just like they do every year
on the rocks.

The poem
feeds upon thought, feeling, impulse,
to breed itself,
a spiritual urgency at the dark ladders leaping.

Né i nostri vizi né le nostre virtù portano
avanti il ​​poema. Sono cresciuti
e sono morti
proprio come fanno ogni anno
sulle rocce.

La poesia
si nutre di pensiero, sentimento, impulso,
per riprodursi,
un'urgenza spirituale che risale le scale oscure.

Il volume include brevi poesie liriche, una sequenza di poesie in prosa chiamata The Structure of Rime e il poema Poem Beginning with a Line by Pindar, che attinge materiali da Pindaro, Francisco Goya, Walt Whitman, Ezra Pound, Charles Olson e dal mito di Amore e Psiche in una fuga visionaria ed estatica alla maniera dei Canti pisani di Pound.

Il pittore, poeta, performer e editore londinese Allen Fisher (n. 1944), che ha lavorato come direttore di una fabbrica chimica, è più sistematicamente e materialmente interessato alla costruzione scientifica del mondo; egli legge la scienza moderna in senso lucreziano come una chiave per il flusso dell'esistenza, per connessioni e interazioni che nella sua astrazione non ha mai completamente umanizzato. È anche attento al modo in cui la tecnologia minaccia l’umano. Nei suoi primi lavori ha sperimentato tecniche di "randomizzazione", elaborando testi esistenti per allentare il significato e focalizzare l'attenzione sulla procedura; il suo lavoro successivo esplora l'ottica, i frattali, la gravitazione, la biologia, la genetica, la tecnologia, ordinando accuratamente questi campi (e dettagliando le sue fonti in elenchi di libri alla fine di ogni volume). In una certa misura eredita la teoria dei campi degli scrittori precedenti. In Place, XXXV scrive:

we are part of an interaction
ununified
electromagnetic and gravitational
fields contradict
birds sensitive to axis not polarity
fish
thru sea water see
through a moving conductor
flowing
past the lines of force
thru the magnetics
setting up a perpendicular current
a direction
of flow and field
contradicting reason

siamo parte di un'interazione
non unificata
elettromagnetica e gravitazionale
i campi contraddicono
uccelli sensibili all'asse non alla polarità
pesci
attraverso l'acqua di mare vedono
attraverso un conduttore in movimento
scorrere
oltre le linee di forza
attraverso il magnetismo
impostando una corrente perpendicolare
una direzione
di flusso e campo
che contraddice la ragione

Altrove Fisher impiega anche la teoria delle catastrofi e il "cambiamento di fase". Il risultato è un'estetica della frammentazione e del disordine che non cerca né un ordine superiore implicito che potrebbe organizzare il testo, né semplicemente rimane disperso. In Winging Step, il “Passo alato”, scrive con competenza di capillarità e della parte dell’ippocampo cerebrale connessa con la memoria del sé. 

Surface tension of droplets electric
pulse-pushed through perforations
generates liquid-bridge adhesive,
the shape of clouds, precisely recalled,
a clarity of directional signals in the right
entorhinal cortex correlated with the
performance of autobiographical memory, with
a specific neural representation in a network of regions
in support of spacetime cognition, where landscape
roughness and apparent quantum coherence
result in slow folding
unfolding and lucid harvesting of light.
How observations of leaves in rainfall and the structure of clouds
shape the memory that patterns knowing.

Tensione superficiale delle goccioline elettrica
pulsazione spinta attraverso perforazioni
genera adesione a ponte liquido,
la forma delle nuvole, ricordata con precisione,
una chiarezza di segnali direzionali nella corteccia
entorinale destra correlata con la
performance di memoria autobiografica, con
una specifica rappresentazione neurale in una rete di regioni
a sostegno della cognizione spaziotemporale, dove rugosità
e coerenza quantistica del paesaggio apparente
risultano in una piegatura lenta
dispiegamento e raccolta lucida della luce.
Come le osservazioni delle foglie sotto la pioggia e la struttura delle nuvole
modellano la memoria che modella la conoscenza.


Opera aperta

Ma in questa epoca di indeterminatezza, che senso ha l’opera di un autore, se è possibile darle mille interpretazioni diverse? Forse la domanda non è posta correttamente, come scrisse Umberto Eco in Opera Aperta (1962):

“Si potrebbe benissimo pensare che questa fuga dalla necessità sicura e solida e questa tendenza all'ambiguo e all'indeterminato, riflettano una condizione di crisi del nostro tempo; oppure, all'opposto, che queste poetiche, in armonia con la scienza di oggi, esprimano le possibilità̀ positive di un uomo aperto ad un rinnovamento continuo dei propri schemi di vita e conoscenza, produttivamente impegnato in un progresso delle proprie facoltà̀ e dei propri orizzonti. Ci sia permesso di sottrarci a questa contrapposizione così facile e manichea (...)

Avviene ad esempio che mentre apertura e dinamicità di un'opera richiamano le nozioni di indeterminazione e discontinuità, proprie della fisica quantistica, al tempo stesso i medesimi fenomeni appaiono come immagini suggestive di alcune situazioni della fisica einsteiniana. Il mondo multipolare di una composizione (...) in cui non esistano punti privilegiati ma tutte le prospettive sono egualmen­te valide e ricche di possibilità̀ appare molto vicino all'universo spazio-temporale immaginato da Einstein, in cui " tutto ciò̀ che per ciascuno di noi costituisce il passato, il presente, il futuro, è dato in blocco, e tutto l'insieme degli eventi successivi (dal nostro punto di vi­sta) che costituisce l'esistenza di una particella materiale è rappresentato da una linea, la linea d'universo della particella (...) Ciascun osservatore col passare del suo tempo scopre, per così dire, nuove porzioni dello spazio-tempo, che gli appaiono come aspetti successivi del mondo materiale, sebbene in realtà̀ l'insieme degli eventi che costituiscono lo spaziotempo esistesse già̀ prima di es­sere conosciuto” [De Broglie].

Quello che differenzia la visione einsteiniana dalla epistemologia quantistica è in fondo proprio questa fiducia nella totalità̀ dell'universo, un universo in cui discontinuità̀ ed indeterminatezza possono in fondo sconcertarci con la loro improvvisa apparizione, ma che in realtà, per usare le parole di Einstein, non presuppongono un Dio che gioca a dadi, ma il Dio di Spinoza, che regge il mon­do con leggi perfette. In questo universo la relatività è costituita dalla infinita variabilità̀ dell'esperienza, dalla infinità̀ delle misurazioni e. delle prospettive possibili, ma l’oggettività̀ del tutto risiede nell’invarianza delle de­scrizioni semplici formali (delle equazioni differenziali) che stabiliscono appunto la relatività̀ delle misurazioni empiriche. (...) Il Dio di Spinoza che nella metafisica einsteiniana è soltanto un dato di fiducia extra sperimentale, per l'opera d'arte di­viene una realtà di fatto e coincide con l'opera. ordinatrice dell'autore. Questi, in una poetica dell'opera in movimento, può̀ benissimo produrre in vista di un invito alla libertà interpretativa, alla felice indeterminazione de­gli esiti (...), ma questa possibilità̀ cui l'opera si apre è tale nell'ambito di un campo di relazioni. Come nell'universo einsteiniano, nell'opera in movimento il ne­gare che vi sia una sola esperienza privilegiata non im­plica il caos delle relazioni, ma la regola che permette l'organizzarsi delle relazioni. L'opera in movimento, in­somma, è possibilità̀ di una molteplicità̀ di interventi personali ma non è invito amorfo all'intervento indiscrimi­nato: è l'invito (...) ad inserirci liberamente in un mondo che tut­tavia è sempre quello voluto dall'autore. L'autore offre insomma al fruitore un'opera da finire, non sa esattamente in qual modo l'opera potrà̀ essere portata a termine, ma sa che l'opera portata a termine sarà̀ pur sempre la sua opera, non un'altra, e che alla fine del dialogo interpretativo si sarà̀ concretata una forma che è la sua forma, anche se organizzata da un altro in un modo che egli non poteva completamente prevedere: poiché egli in sostanza aveva proposto delle possibilità̀ già̀ razionalmente organizzate, orientate e dotate di esigenze organiche di sviluppo”.


lunedì 26 luglio 2021

Poesia del ‘900 e scienza (3): “Ardenti di elettricità”

 


La città 

Secondo lo scrittore e critico inglese Malcolm Bradbury, “la letteratura del modernismo sperimentale emersa negli ultimi anni del XIX secolo era un'arte delle città, specialmente delle città poliglotte che, per varie ragioni storiche, avevano acquisito alta attività e grande reputazione come centri di scambio intellettuale e culturale”. Le grandi città come Berlino, Vienna, Parigi, Londra e New York, capitali culturali affermate, avevano al loro interno tutte le tensioni prodotte dal nuovo ambiente della vita metropolitana moderna. Esse concentravano le forze del cambiamento che dilagavano nel mondo, erano fermento di attriti, anzi di "caos culturale", focolai della dissoluzione di vecchi legami e identità; centri di migrazione, riunivano uomini di situazioni e condizioni ampiamente contrastanti. Impossibile da definire o trasmettere in forme tradizionali, la città moderna sembrava richiedere una rivoluzione nella sensibilità artistica e nell'espressione estetica.


Sintomi di questa esigenza, secondo il geografo, antropologo, sociologo e politologo britannico David Harvey, furono l'accelerazione del tempo e la compressione dello spazio che sono caratteristiche della città moderna. Per quanto riguarda la dimensione dello spazio, si può citare l'interazione sempre più complessa che risulta dalla giustapposizione di comunità diverse, di classe, etniche o religiose, i cui percorsi si intersecano nelle affollate strade cittadine. Inoltre, i mutevoli confini della città moderna, man mano che nuove popolazioni vi giungono, provocano uno spaesamento tale che il suolo “cambia sotto i piedi” degli abitanti. Così la mobilità geografica e sociale (inclusa l'esclusione sociale) può verificarsi anche se gli abitanti restano fermi, così che potrebbero non sentirsi più "a casa", anche se non si sono trasferiti. Alfred Döblin, in Berlin Alexanderplatz (1929) descrive lo spaesamento del protagonista Franz Biberkopf, che ha scontato una pena di quattro anni e che vive in una realtà sottoproletaria. La Berlino di Weimar è cambiata, e lui non trova più il suo posto. È diventato un escluso. Il romanzo, con tecniche espressive espressioniste, montaggi di tipo cinematografico, mescolanze e accostamenti di forme e stili diversi, descrive la sua lotta per il riscatto sociale tra mille peripezie in un contesto in cui la tecnologia, che aveva portato una notevole crescita della produzione industriale meccanizzata, viene vista come la fonte principale dell'alienazione dell'uomo. 


Riguardo all'altra dimensione, quella del tempo, sono la rapidità e l'attesa del cambiamento che inevitabilmente trasformano la concezione di passato, presente e futuro. Il rapporto città-campagna non è solo spaziale, ma ancor più temporale: il ritorno in campagna dello scrittore è anche un viaggio nel passato; Cultura e Natura sembrano appartenere a scale temporali diverse piuttosto che coesistere nello stesso mondo. Eppure, sono legati nello spazio dalle innovazioni tecnologiche: le ferrovie, le poste e i fili del telegrafo, la radio, il cinema e la fotografia trasformano i ritmi della vita quotidiana e la natura dell'interazione sociale.


La città moderna installa così il movimento nel cuore della vita e in questo vortice fa precipitare l'artista, affascinato e inorridito dalla sua promessa e dal suo pericolo. Da qui la fondamentale ambivalenza dell'atteggiamento degli artisti nei confronti della città: da un lato, può essere vista come liberatoria e ispiratrice, vibrante di movimento, colore e immagine, una ricca fonte di metafore e narrativa. La città, la metropoli, diviene il nuovo palcoscenico della vita culturale; le sue strade sommerse di gente ed automobili, le sue vetrine ricche e attraenti, le sue luminarie accecanti, divengono un modello estetico plausibile: la strada diviene l’odierno e dinamico «museo del presente». Un tema significativo della letteratura modernista è quello dell'emancipazione artistica dentro e attraverso la città: il viaggio di scoperta e di scoperta di sé che termina "ai margini di una ridefinizione urbana di sé stessi - come se la ricerca di sé e dell'arte allo stesso modo potesse essere solo realizzata nel bagliore e nell'esposizione esistenziale della città” (Harvey).



D'altra parte, l'esperienza predominante può essere quella della disconnessione, del distacco, persino dell'alienazione, magari venata di nostalgia per la comunità che si è persa. E su tutto incombe l’intimità e vicinanza della folla sempre presente che, con i suoi gusti banali, rischia di fagocitare l'unicità della coscienza artistica. Questo sentimento è espresso da una breve poesia imagista simile agli haiku, forse la sua più famosa, che Ezra Pound pubblicò nel 1913, In a Station of the Metro:


The apparition of these faces in the crowd;
Petals on a wet, black bough.

L’apparire di questi volti nella folla,
petali su un umido, nero ramo.

Non è necessario parlare di disumanizzazione delle masse da parte degli scrittori modernisti per riconoscere nella letteratura dei primi decenni del secolo l’attrazione mista con il risentimento e la paura verso la folla. L’ammirazione e diffidenza di William Carlos Williams così si esprimono riguardo a The Crowd At The Ball Game, la folla allo stadio del baseball (1939):


The crowd at the ball game
is moved uniformly

by a spirit of uselessness
which delights them —

all the exciting detail
of the chase

and the escape, the error
the flash of genius —

all to no end save beauty
the eternal —

So in detail they, the crowd,
are beautiful

for this
to be warned against

saluted and defied —
It is alive, venomous

it smiles grimly
its words cut —

The flashy female with her
mother, gets it —

The Jew gets it straight— it
is deadly, terrifying —

It is the Inquisition, the
Revolution

It is beauty itself
that lives

day by day in them
idly —

This is
the power of their faces

It is summer, it is the solstice
the crowd is

cheering, the crowd is laughing
in detail

permanently, seriously
without thought


La folla al gioco della palla
è mossa uniformemente

da uno spirito di inutilità
che li delizia —

tutto il dettaglio emozionante
della caccia

e la fuga, l'errore
il lampo di genio —

tutto senza scopo tranne la bellezza
l'eterno —

Quindi in dettaglio loro, la folla,
sono belli

per questo
da essere messi in guardia

salutati e sfidati —
È viva, velenosa

sorride cupamente
le sue parole feriscono —

La donna appariscente con sua
madre, capisce —

L'ebreo lo capisce bene...
è mortale, terrificante —

È l'Inquisizione, la
Rivoluzione

È la bellezza stessa
che vive

giorno per giorno in loro,
pigramente —

Questo è
il potere dei loro volti

È estate, è il solstizio
la folla sta

esultando, la folla sta ridendo
in dettaglio

permanentemente, seriamente
senza pensare


Le città industriali, con i loro mali, ma anche con le loro grandezze, sono descritte anche da Gabriele D'Annunzio, il quale coglie l'orrore quotidiano delle metropoli, ma anche un aspetto glorioso (orrida gloria, gloria delle città terribili) ed eleva la città a nuovo mito. In Maia. Laus Vitae, un lungo poema autobiografico pubblicato nel 1903, D’Annunzio (che in quanto a maschilismo nulla aveva da imparare da Marinetti) esalta un superomistico ardore di sperimentazioni e di avventura, non senza informarci delle sue numerose conquiste femminili, dee o mortali. Al ritorno da un lungo viaggio in nave nell’Egeo, il poeta si trova di fronte a una città orribile, industrializzata tanto che la definisce come il livello peggiore di decadimento dell'uomo, dove tutto è ridotto alla produzione e al mercato. 


Uomini fetidi e robusti,
altri smorti e scarni
e curvi, combusti
dal calore dei forni
e delle caldaie infernali,
inverditi dai sali
del rame, inazzurrati
dall’indaco, arrossati
dalle conce delle pelli,
inviscati dai grumi
e dai carnicci dei macelli,
corrosi dagli acidi, morsi
dal fosforo, fatti ciechi
dalle polveri e dai fumi,
fatti sordi dai fischi
del vapore dilaceranti
o dai tuoni iterati
dei martelli giganti,
dai fragori e dagli stridori
di tutto il ferro attrito,
venian del lavoro fornito.


Per D’Annunzio la bellezza non abita nelle città, dove domina invece la corsa, l'energia. Alla sera, la luce che prevale è quella artificiale dei lampioni, che appaiono come lune penzolanti e i cavalli sono quelli di acciaio delle macchine, che lavorano tutto il giorno senza mai stancarsi.


Rappresentare qualcosa di così grande e amorfo come la città moderna, in continua e rapida trasformazione, richiede un'innovazione consapevole nella forma, nel tema e nei generi, una sperimentazione che rischia di lasciare perplesso il grande pubblico. Come fa lo scrittore a competere con il richiamo delle sirene dei mass media con la loro offerta di facile fruizione e sensazioni forti? Una risposta può essere quella del flâneur, che ogni scrittore adatta la figura alla propria particolare esperienza storica e tradizione letteraria. Baudelaire, già nel 1850, sosteneva che i cambiamenti sociali ed economici portati dall'industrializzazione richiedevano che l'artista si immergesse nella metropoli e diventasse, per usare le sue parole, "un botanico del marciapiede", un conoscitore analitico del tessuto urbano. Egli coniò il termine riferendosi ai parigini, ma questa figura è stata adottata in tutto il mondo per descrivere il borghese curioso e senza fretta che bighellona nella città osservandone gli aspetti sociali, urbanistici, estetici. 


Guillaume Apollinaire seguì da vicino l'ingiunzione di Baudelaire di essere il "poeta della vita moderna": catturare l'epica nel mondano. Celebrando nella sua poesia le macchine e la tecnologia della Belle Époque, le routine della vita urbana, le trasformazioni del paesaggio urbano parigino, le sue innovazioni, sia nel contenuto che nella forma, lo hanno reso uno dei poeti francesi più influenti. La dialettica dell'immersione e della distanza dalla folla, dell'apertura al nuovo venata di nostalgia per il perduto, che caratterizzano i suoi scritti sulla città, rivelano inoltre tutta la complessità e l'ambiguità dell'impegno dell'artista con la modernità.


Composta nel 1903-1904, con successive modifiche, pubblicata per la prima volta sul Mercure de France il 1° maggio 1909, la poesia La chanson du mal-aime è la più lunga della raccolta Alcools (1913). La fine di questo lungo poema contrappone, in un contrasto simultaneo, un racconto, quello della morte di Ludovico II di Baviera, alla flânerie peregrina per Parigi.


Juin ton soleil ardente lyre
Brûle mes doigts endoloris
Triste et mélodieux délire
J’erre à travers mon beau Paris
Sans avoir le cœur d’y mourir

Les dimanches s’y éternisent
Et les orgues de Barbarie
Y sanglotent dans les cours grises
Les fleurs aux balcons de Paris
Penchent comme la tour de Pise

Soirs de Paris ivres du gin
Flambant de l’électricité
Les tramways feux verts sur l’échine
Musiquent au long des portées
De rails leur folie de machine

Les cafés gonflés de fumée
Crient tout l’amour de leurs tziganes
De tous leurs siphons enrhumés
De leurs garçons vêtus d’un pagne
Vers toi toi que j’ai tant aimée


Giugno la tua lira solare infuocata
Brucia le mie dita doloranti
Delirio triste e melodioso
Vago per la mia bella Parigi
Senza avere il coraggio di morirci.

Le domeniche durano per sempre
E gli organetti di Barberia
Vi singhiozzano nei cortili grigi
I fiori sui balconi di Parigi
Pendono come la Torre di Pisa

Serate parigine ubriache di gin
Ardenti di elettricità
I tram semafori verdi sulla schiena
Musicano lungo i pentagrammi
Delle rotaie la loro follia di macchina

I caffè gonfi di fumo
Gridano tutto l'amore dei loro zingari
Di tutti i loro sifoni raffreddati
Dei loro ragazzi vestiti d’un pareo
Per te, te che ho tanto amato


Zone è la poesia di apertura della raccolta. Cambiando il titolo della raccolta da Eau de vie in Alcools e decidendo di togliere ogni punteggiatura, l'autore aggiunse all’inizio la poesia, ultima scritta. Colpisce l'aspetto del poema: alcuni versi sono staccati, altri raggruppati in strofe; non c'è una vera regolarità. Si tratta di versi liberi, le leggi della versificazione non sono rispettate. In questa lassa si trova un'evocazione modernista della capitale:


Tu lis les prospectus les catalogues les affiches qui chantent tout haut
Voilà la poésie ce matin et pour la prose il y a les journaux
Il y a les livraisons à 25 centimes pleines d’aventures policières
Portraits des grands hommes et mille titres divers

J’ai vu ce matin une jolie rue dont j’ai oublié le nom
Neuve et propre du soleil elle était le clairon
Les directeurs les ouvriers les belles sténo-dactylographes
Du lundi matin au samedi soir quatre fois par jour y passent
Le matin par trois fois la sirène y gémit
Une cloche rageuse y aboie vers midi
Les inscriptions des enseignes et des murailles
Les plaques les avis à la façon des perroquets criaillent
J’aime la grâce de cette rue industrielle
Située à Paris entre la rue Aumont-Thiéville et l’avenue des Ternes

Leggi i volantini i cataloghi i manifesti che cantano ad alta voce
Ecco la poesia stamattina e per la prosa ci sono i giornali
Ci sono pubblicazioni da 25 centesimi piene di avventure della polizia
Ritratti di grandi uomini e mille titoli diversi

Ho visto questa mattina una bella strada di cui ho dimenticato il nome
Nuova e pulita dal sole essa era la tromba
I dirigenti gli operai le belle stenodattilografe
Dal lunedì mattina al sabato sera quattro volte al giorno vi passano
Al mattino tre volte la sirena vi geme
Una campana arrabbiata vi abbaia intorno a mezzogiorno
Le iscrizioni delle insegne e dei muri
Le targhe gli avvisi urlano come pappagalli
Amo la grazia di questa strada industriale
Situata a Parigi tra la rue Aumont-Thiéville e l'avenue des Ternes



Il poeta si aggira per le strade di Parigi "questa mattina", che è il tempo del rinnovamento poetico; sorprendentemente canta un inno all'edicola. Il poeta non appare qui al suo scrittoio durante le lunghe veglie, ma, dialogando in seconda persona con sé stesso, si guarda leggere "i prospetti i cataloghi i manifesti" - l'assenza di punteggiatura accelera ulteriormente la giustapposizione di questi testi apparentemente irrisori. La città moderna offre al poeta come modelli questi schizzi di una nuova poesia: il flâneur parigino vede nel loro afflusso una felice moltiplicazione di testi: "Ecco la poesia stamattina e per la prosa ci sono i giornali".