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giovedì 28 febbraio 2019

L’assiomatizzazione della geometria e il problema dei fondamenti


Nel sesto libro dell’Etica Nicomachea, Aristotele distingue l’opinione, doxa, da cui può nascere l’errore, dalle disposizioni (arte, scienza, saggezza, sapienza e intelletto) con le quali l’anima dice il vero, affermando o negando. In questo contesto affronta il tema della episteme, la conoscenza scientifica. Essa è la disposizione dimostrativa che opera per deduzione e presuppone la conoscenza dei principi, che vengono colti per intuizione. In virtù della struttura formale della dimostrazione, dalle sue premesse si estraggono, deduttivamente, le conclusioni implicite in tali premesse. Queste dovranno perciò essere vere, prime e immediate cioè indimostrabili o derivate da premesse indimostrabili, più note, anteriori e cause della conclusione.

Nel proporre questa struttura formale del sapere scientifico, Aristotele era profondamente influenzato dal modello matematico. La più diretta esemplificazione di tali premesse è offerta proprio dalla geometria euclidea, la cui formalizzazione è di poco posteriore alla riflessione aristotelica: i teoremi (dimostrazioni) derivano dalla assunzione di certi oggetti (figure) e dalla loro definizione. Le dimostrazioni non faranno altro che sviluppare le proprietà universali e necessarie che appartengono per sé agli oggetti cui si riferiscono i principi.

Per oltre due millenni si è generalmente ritenuto che l'ideale di Aristotele fosse effettivamente realizzato negli Elementi di Euclide. Solo negli ultimi vent’anni dell’800, tuttavia, rinacque l’interesse per i “principi primi” della matematica e della geometria, inaugurando quell’epoca cinquantennale della storia di queste discipline che avrebbe preso il nome di “crisi dei fondamenti”. Un primo esempio veramente interessante di assiomatizzazione della geometria fu disponibile in stampa nel 1882, quando il geometra tedesco Moritz Pasch (1843-1930) pubblicò le sue Conferenze sulla geometria moderna, anticipando di due anni un analogo, più noto e più controverso tentativo del connazionale Gottlob Frege riguardante l’aritmetica.

Lo scopo di Pasch era dare una sistemazione assiomatica della geometria proiettiva e, nell’introduzione alla sua opera, sosteneva che il ragionamento matematico non dovrebbe invocare l'interpretazione fisica dei termini primitivi, ma dovrebbe invece basarsi esclusivamente su manipolazioni formali giustificate da assiomi. L’organizzazione assiomatica della geometria e il procedimento deduttivo dovevano essere:
“assolutamente indipendenti dal significato dei concetti geometrici e altrettanto indipendenti dalle figure; solo le relazioni tra concetti geometrici stabilite nelle definizioni e nei teoremi usati possono essere prese in considerazione”
Anch’egli, tuttavia, considerava la geometria come una scienza naturale, il cui utilizzo con successo da parte di altre scienze e nella vita pratica si basa "esclusivamente sul fatto che i concetti geometrici originariamente concordano esattamente con gli oggetti empirici" e “servono a descrivere il mondo esterno”. La geometria si distingue però dalle altre scienze naturali perché prende solo pochissimi concetti e leggi direttamente dall'esperienza, poi se ne allontana e mira a ottenere da essi le leggi di fenomeni più complessi con mezzi puramente deduttivi. Il fondamento empirico della geometria fu racchiuso da Pasch in un nucleo di concetti di base e affermazioni o assiomi di base. I concetti di base si riferiscono alla forma e alla dimensione dei corpi e delle loro posizioni l'uno rispetto all'altro. Si tratta dei punti (“quei corpi la cui suddivisione ulteriore non è possibile entro i limiti dell’osservazione”), del segmento e della parte di piano. Sono definiti solo vagamente, poiché nessuna definizione potrebbe sostituire il "catalogo di oggetti naturali appropriati", che è l'unica strada per comprendere nozioni così semplici e irriducibili. Tutti gli altri concetti geometrici devono essere fondamentalmente definiti in termini di quelli di base. I concetti di base sono collegati l'un l'altro dagli assiomi, che "affermano ciò che è stato osservato in alcuni schemi molto semplici"; essi riguardano la retta e il piano. Tutte le altre affermazioni geometriche devono essere provate dagli assiomi con i metodi deduttivi più rigorosi. Tutto ciò che è necessario per dimostrarli deve essere registrato, senza eccezioni, negli assiomi. Questi devono quindi incarnare l'intero materiale empirico elaborato dalla geometria, in modo che "dopo che sono stati stabiliti non è più necessario ricorrere alle percezioni sensoriali". Pasch comprese chiaramente le implicazioni del suo metodo. Scriveva:
“Se la geometria deve essere veramente deduttiva, il processo di inferenza dev’essere indipendente in tutte le sue parti dal significato dei concetti geometrici, così come deve essere indipendente dagli schemi. Tutto ciò che occorre considerare sono le relazioni tra i concetti geometrici, catalogate nelle dichiarazioni e nelle definizioni. Nel corso della deduzione è sia permesso sia utile tenere a mente il significato dei concetti geometrici che si verificano in essa, ma non è affatto necessario. In effetti, quando è veramente necessario, ciò dimostra che c'è una lacuna nella dimostrazione e, se il divario non può essere eliminato modificando l'argomento, che le premesse sono troppo deboli per sostenerlo”.
Dagli assiomi, Pasch deduceva poi i teoremi, che costruivano l’intero edificio della geometria proiettiva e, attraverso una definizione rigorosa della teoria della congruenza e del continuo geometrico, otteneva gli stessi risultati di Klein sulle geometrie euclidea e non euclidee.

Le idee di Pasch ebbero una vasta risonanza tra i geometri contemporanei, particolarmente in Germania e in Italia. Giuseppe Peano (1858-1932), contemporaneamente ai contributi sui fondamenti dell’aritmetica, sul concetto di numero e alla proposizione dei suoi noti assiomi, pubblicò Principii di geometria logicamente esposti (1889), un opuscolo di 40 pagine in cui proponeva di fondare su base logica la geometria elementare. Così esordiva nella premessa:
“Quali fra gli enti geometrici si possono definire, e quali occorre assumere senza definizione? E fra le proprietà, sperimentalmente vere, di questi enti, quali bisogna assumere senza dimostrazione, e quali si possono dedurre in conseguenza'? L'analisi di queste questioni, appartenenti ad un tempo alla Logica e alla Geometria, forma l'oggetto del presente scritto. Onde non far lavoro vano in queste ricerche, già oggetto di molti studii, bisogna attenerci rigorosamente alle regole: usare nelle nostre proposizioni solo termini di valore pienamente determinato; ben precisare cosa si intenda per definizione e per dimostrazione”.
Servendosi degli studi sulla logica algebrica di Boole, Peano, come aveva fatto negli Arithmetices principia pubblicati poco prima, sosteneva che, attraverso un apparato di “segni aventi significato determinato, o mediante definizione, o mediante le loro proprietà”, “con un numero limitatissimo di convenzioni, si possano esprimere tutte le relazioni logiche di cui abbiamo bisogno”. Si aveva così il mezzo di “esprimere le proposizioni di geometria sotto una forma rigorosa, (…) e la soluzione delle questioni proposte riesce di molto agevolata”.

Limitando il suo studio alla geometria di posizione, Peano, citando Pasch e talvolta perfezionandolo, partendo dai concetti non definiti di punto e retta limitati, definiva la retta illimitata, il piano e le sue parti, come anche le parti dello spazio. Distingueva inoltre, tra le proposizioni, quelle (assiomi) che esprimono le più semplici proprietà degli enti considerati, e quelle (teoremi) che si possono dedurre da altre più semplici. Tutte le proposizioni erano espresse in linguaggio simbolico, chiarito da un apparato di note che occupava metà del testo. Peano non dava alcuna prova dell’indipendenza degli assiomi, e dichiarava:
“Da quest'ordine nelle proposizioni risulta chiaro il valore degli assiomi, e si e moralmente certi della loro indipendenza. Si avrebbe ancora potuto segnare accanto ad ogni proposizione gli assiomi da cui dipende. Invece per scopo didattico converrebbe ordinare le proposizioni a seconda del soggetto; p. e. prima quelle che trattano dei segmenti, poi quelle sui raggi, sulla retta indefinita, sul triangolo, ecc. Se nel presente saggio la soluzione delle questioni proposte ha raggiunto l'assoluto rigore, non può dirsi che essa abbia pure raggiunta la semplicità”. 
In realtà una certezza morale è alquanto in contrasto con “l’assoluto rigore” invocato dall’autore.

Sull’esempio di Peano, altri geometri italiani si occuparono del problema dei fondamenti della geometria. Il giovane Gino Fano (1871 – 1952), studente di Corrado Segre e dello stesso Peano all’Università di Torino, si laureò in matematica nel 1892 con una tesi, poi divenuta il suo primo articolo, Sui postulati fondamentali della geometria proiettiva in uno spazio lineare a un numero qualunque di dimensioni. Nell’opera introduceva una assiomatizzazione della geometria proiettiva degli iperspazi, negando l’origine empirica dei principi: “A base del nostro studio noi mettiamo una varietà qualsiasi di enti di qualunque natura; enti che chiameremo per brevità punti, indipendentemente però, ben inteso, dalla loro stessa natura”. Fano sarebbe diventato uno tra i maggiori rappresentanti della Scuola italiana di geometria algebrica.

Le stesse inclinazioni animavano il lucchese Mario Pieri (1860-1913), che aveva ottenuto il dottorato a Pisa nel 1884 con una tesi sulla geometria differenziale, e, nel 1891, era diventato libero docente di geometria proiettiva a Torino, dove subì l'influenza di Giuseppe Peano all'Università e di Cesare Burali-Forti, che fu suo collega all'Accademia militare. Il loro prestigio portò Pieri a studiare i fondamenti della geometria. A partire dal 1895, in tre note Sui principi che reggono la geometria di posizione, istituì un sistema assiomatico per la geometria proiettiva con tre termini indefiniti, cioè punti, linee e segmenti. Anch’egli dichiarava di seguire un indirizzo “puramente descrittivo e astratto”, che prescindeva da “ogni interpretazione fisica delle premesse”. Queste memorie, raccolte poi in volume nel 1899, impressionarono Bertrand Russell, il quale, nei suoi Principia, avrebbe scritto che “Questo è, a mio parere, il miglior lavoro sul tema attuale”. Pieri si affrancava da ogni discendenza empirica degli enti primitivi, ai quali “si può attribuire qualsivoglia significato”, purché “sia in armonia con i postulati che saranno man mano introdotti”. Nella sua monografia, intitolata Della geometria elementare come sistema ipotetico deduttivo, che organizzava la teoria utilizzando il simbolismo di Peano, egli definiva come sistema ipotetico deduttivo “qualunque dottrina puramente deduttiva (…) la quale non solo distingua organicamente (…) gli assiomi e postulati dai teoremi”, ma anche le idee primitive dalle loro “derivazioni formali”.

Pieri era stato invitato a partecipare al Congresso di Filosofia e al Congresso Internazionale dei Matematici a Parigi nel 1900. Non partecipò a queste conferenze, ma presentò un documento alla prima di queste, sulla Geometria considerata come un sistema puramente logico, che impressionò i partecipanti. In quest’opera, redatta in francese, ribadiva di considerare la geometria come “un certo ordine di relazioni logiche”, liberato da qualsiasi legame con l’intuizione empirica dello spazio, una “scienza ideale puramente deduttiva e astratta come l’aritmetica”.

La più nota e autorevole assiomatizzazione della geometria euclidea conforme agli standard di Pasch, i Fondamenti della Geometria di David Hilbert (1862-1943), fu pubblicata nel 1899 e notevolmente ampliata nelle dieci edizioni successive. L’opera, considerata oggi un classico, esercitò un'enorme influenza sulla matematica e la filosofia del XX secolo e molti considerano il suo lascito al pari degli stessi Elementi di Euclide. Hilbert invitava il lettore a considerare tre raccolte arbitrarie di oggetti, che chiamava "punti", "linee rette" e "piani", e cinque relazioni indefinite tra (a) un punto e una linea retta, (b) una linea retta e un piano, (c) tre punti, (d) due coppie di punti ('segmenti') e (e) due classi di equivalenza di tripli punti ('angoli'). Le condizioni prescritte nei 20 assiomi di Hilbert, incluso l'Assioma di Completezza, aggiunto nella seconda edizione, sostituite ai termini, ai postulati e alle nozioni comuni degli Elementi di Euclide, permettevano di rifondare in modo rigoroso e formale la geometria euclidea, ed erano sufficienti a caratterizzare i suddetti oggetti e le loro relazioni fino all'isomorfismo.

Negli assiomi di Hilbert non vi era alcun tentativo, a differenza di quanto accade negli Elementi, di descrivere direttamente e in base alla “evidenza intuitiva” gli enti primitivi quali punto, retta e piano. Mentre, per Euclide, ad esempio, “punto è ciò che non ha parti”, nell’assiomatica hilbertiana il punto non è in alcun modo descritto e può essere qualsiasi oggetto, purché esso, formalmente, soddisfi determinati assiomi. Oltre a una definizione implicita degli enti geometrici, un’altra caratteristica importante dell’assiomatica di Hilbert è che in essa tutte le assunzioni fatte senza dimostrazione sono indistintamente chiamate assiomi, senza distinguere tra postulati e nozioni comuni.

L'isomorfismo, vale a dire l'equivalenza strutturale, può valere tra sistemi di oggetti diversi, intuitivamente distinti. Hilbert sfruttò questa caratteristica delle teorie assiomatiche per studiare l'indipendenza di alcuni assiomi dal resto. Per dimostrarlo. propose casi reali (modelli) della struttura, determinati da tutti gli assiomi tranne uno, più la negazione di quello omesso. Frege lamentò che gli assiomi geometrici contenuti in questi esercizi potevano essere applicati agli inverosimili modelli di Hilbert solo manomettendo il significato naturale delle parole. Viene in mente la conversazione in cui Humpty Dumpty rivela ad Alice il suo approccio all'uso delle parole:
“Quando io uso una parola, - disse Humpty Dumpty in tono alquanto sprezzante, - essa significa esattamente ciò che io voglio che significhi... né più né meno. - Qui sta il problema, - disse Alice - se voi potete fare sì che le parole significhino cose differenti. - Il problema è, - disse Humpty Dumpty, - chi deve essere il padrone... ecco tutto. (...) 
Hilbert rispose a Frege il 29 dicembre 1899:
“Ogni teoria è solo un'impalcatura o uno schema di concetti, insieme con le loro relazioni reciproche necessarie, e gli elementi di base possono essere concepiti in qualsiasi modo si desidera. Se prendo per i miei punti qualsiasi sistema di cose, ad esempio il sistema amore, legge, spazzacamino, [...] e assumo tutti i miei assiomi come relazioni tra queste cose, i miei teoremi, per esempio il teorema di Pitagora, valgono anche per queste cose. [...] Questa caratteristica delle teorie non può mai essere un difetto ed è in ogni caso inevitabile”.
Tutto questo derivava, naturalmente, dalla natura stessa dell'assiomatica per come si era evoluta a partire da Pasch. In realtà, tali permutazioni semantiche che preservavano la verità non erano nuove in geometria, dopo che Gergonne (1771-1859) aveva attirato l'attenzione nel 1825 sul principio di dualità: ogni affermazione vera della geometria del piano proiettivo dà origine ad un'altra affermazione duale, altrettanto vera, ottenuta sostituendo "punto" a "linea", "collineare" a "concorrente", "incontrare" a "unire" e viceversa, ovunque queste parole si trovino nel primo. (Nella geometria dello spazio proiettivo, la dualità vale per punti e piani.) Lo stesso risultato è assicurato, naturalmente, scambiando non le parole, ma i loro significati.

Così, le geometrie non-euclidee e il nuovo metodo assiomatico avevano portato all'abbandono del sogno cartesiano e kantiano dell'autoevidenza degli assiomi posti alla base della matematica, che diventava scienza di relazioni sintattiche fra simboli del suo linguaggio: la validità della deduzione matematica non dipende dal particolare significato che può essere associato ai termini o alle espressioni contenute nei postulati.

In parole povere: non è fondamentale che esista davvero uno snark, ma che un quadrato con tre snark per lato contenga davvero nove snark (quadrati). Ciò che importa è la struttura delle affermazioni piuttosto che la natura particolare del loro contenuto: il matematico puro non si preoccupa (molto) se i postulati che ammette o le conclusioni che trae dai primi sono veri, ma se le conclusioni avanzate siano le conclusioni logiche necessarie delle ipotesi da cui è partito.

Una volta che non si suppone più la verità dei postulati, nasce il problema di come provare almeno la coerenza dei sistemi attraverso i quali facciamo le nostre deduzioni. Tutti i grandi matematici che, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, provarono a rifondare le matematiche su basi diverse (gli insiemi, la logica, le classi) si imbatterono però nel grande problema delle antinomie, cioè delle contraddizioni interne: il fatto di arrivare, partendo dalle stesse premesse, a conclusioni logiche opposte.

Si arrivò almeno a concordare su che cosa sia un sistema formale, cioè un sistema simbolico senza interpretazione (non importa se uno snark esiste davvero), con una sintassi (le regole di combinazione dei simboli) definita in un modo rigoroso, sul quale è definita una relazione di deducibilità in termini puramente sintattici (deve essere possibile ricavare delle conclusioni facendo ricorso esclusivamente alle regole sintattiche interne al sistema). Le principali proprietà di un sistema formale sono:

a) la consistenza, o coerenza: un linguaggio formale è consistente se non contiene formule contraddittorie, cioè non capita che una delle sue formule e la sua negazione siano costruibili o dimostrabili al suo interno;
b) la completezza: è la proprietà per cui tale sistema è sufficiente per decidere di ogni proposizione correttamente costruita e/o formulata a partire dalle proposizioni-base di quel linguaggio. Detto in altro modo, un sistema è completo quando è possibile dimostrare al suo interno ogni formula dimostrabile, oppure la sua negazione;
c) la decidibilità: un enunciato formulabile in un dato sistema formale è decidibile se è dimostrabile come vero o falso all'interno di tale sistema.

Hilbert, in modo ancor più radicale di Pasch, era convinto che la matematica non possiede alcun significato fisico: essa è pura forma, pura manipolazione di simboli o, come avrebbe scritto Hermann Hesse in Il gioco delle perle di vetro (1943): 
“Noi invece cercheremo di conchiudere l’abbozzo di una storia del Giuoco delle perle di vetro e osserviamo che, passato dai seminari musicali a quelli matematici (mutamento che in Francia e in Inghilterra si compì quasi più rapidamente che in Germania), esso era arrivato a un grado di sviluppo tale da poter esprimere fatti matematici con segni e abbreviazioni particolari; i giocatori si porgevano l’un l’altro quelle formule astratte sviluppandole reciprocamente e si presentavano a vicenda gli sviluppi e le possibilità della loro scienza. Questo Giuoco matematico-astronomico richiedeva molta attenzione e concentrazione, e già allora la fama di buon giocatore di perle era molto considerata fra i matematici ed equivaleva alla fama di ottimo matematico”. (…)
Secondo Hilbert non si scopre, ma piuttosto si crea. Il suo proposito, esposto nei famosi 23 problemi al Secondo Congresso Internazionale di Matematica tenutosi a Parigi nell'agosto del 1900, era quello di armonizzare la logica e la matematica in una collezione di sistemi formali. Sappiamo che il sogno positivista di assiomatizzazione della matematica, condiviso da talenti quali Frege o Russell, era destinato a fallire con la dimostrazione che nel 1931 Kurt Gödel diede di come un sistema formale non contraddittorio, che comprenda almeno l'aritmetica, non può dimostrare la propria completezza dall'interno dei suoi assiomi. La questione dei fondamenti della matematica tornò così alla sua origine e riprese vigore la voce dei realisti, portatori dell’idea quasi platonica per la quale la matematica esiste indipendentemente da noi e aspetta solo di essere scoperta. I numeri e gli enti geometrici (e tutta la costruzione delle matematiche) sarebbero degli a–priori, indipendenti dalla creazione umana.

Tra i matematici, molti sono stati realisti, come Paul Erdös e Kurt Gödel. Un’importante argomentazione a favore del realismo matematico consiste in ciò che il fisico Eugene Wigner ha definito della “irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali”. L’universo fisico può essere conosciuto nella sua struttura più profonda grazie alla matematica per il semplice fatto che esso è matematico. Questa straordinaria efficacia ha sempre stupito i fisici, a partire da Galileo, che ne deduceva che la natura è un libro scritto “in lingua matematica, e i caratteri sono triangoli, cerchi ed altre figure geometriche”. La natura di questi caratteri, dopo la nascita delle geometrie non euclidee e i progressi della ricerca del XIX e XX secolo, è cambiata, e Dio sembra uscito dal discorso scientifico, tuttavia un altro fisico, Paul Dirac, era ugualmente affascinato dall’idea di un universo matematico quando scriveva:
“Il matematico fa un gioco di cui è lui stesso a inventare le regole, mentre il fisico fa un gioco le cui regole sono fornite dalla Natura; col passare del tempo diventa sempre più evidente che le regole che il matematico trova interessanti sono quelle stesse che ha scelto la Natura”.
Così diventa arduo, secondo i realisti, spiegare diversamente come, ad esempio, nella teoria della relatività le geometrie non euclidee sono così importanti per spiegare lo spaziotempo, oppure come mai le teorie dei gruppi riescano a collocare in un catalogo ordinato e persino a prevedere le particelle quantistiche.

Già prima dei cruciali teoremi di Gödel, si incominciò a parlare di metamatematica, cioè di teorie che studino il funzionamento della matematica superandola, trascendendola. Fu proprio David Hilbert il primo a utilizzare il termine “metamatematica” con regolarità. Così, la metamatematica è lo studio della matematica mediante metodi matematici: questo studio produce metateorie, che sono teorie matematiche su altre teorie matematiche. Un'immagine significativa di tutti questi meta- è il simbolo dell’ouroburos, il serpente che si morde la coda (invece non sappiamo se esiste tra gli snark una simile abitudine).

Come ha dimostrato Alfred Tarski con il teorema di indefinibilità (1936), la verità in un sistema formale sufficientemente potente non può essere definita all'interno del sistema stesso. Pertanto ogni metalinguaggio capace di esprimere la semantica di un linguaggio formale deve avere una potenza espressiva maggiore. In un metalinguaggio, infatti, devono essere presenti nozioni primitive, assiomi e regole che sono assenti nel linguaggio formale e, per questo motivo, ci sono teoremi dimostrabili nel metalinguaggio che non sono dimostrabili nel linguaggio formale. Dovendo fondare una teoria, dunque, è sempre necessaria una metateoria che a sua volta non può essere convalidata se non da una meta-metateoria, e così via. Pertanto non esiste una "teoria ultima" capace di fondare compiutamente un ramo della matematica, né a maggior ragione la matematica nella sua interezza.

Oggi si può dire che l’intero programma di Hilbert sia stato quasi completato (o dimostrando o provando che non si può dimostrare), così che la crisi è sostanzialmente risolta, accontentandoci di requisiti inferiori rispetto alle ambizioni originali, che erano espresse in un momento in cui era massima la fiducia nel potere conoscitivo della scienza (“In matematica non esistono ignorabimus”). In pratica, la maggior parte dei matematici non lavora su sistemi assiomatici: nella matematica, così come è praticata, l'incompletezza e i paradossi delle teorie formali sottostanti non hanno un ruolo importante, e in quei rami in cui essi corrono il rischio di formare teorie inconsistenti si procede con molta cautela, altrimenti arrivano due tizi come Banach e Tarski a mostrare come una si possa suddividere in 5 parti una palla nello spazio tridimensionale, in modo che sia possibile ricomporre con questi pezzi due sfere entrambe perfettamente identiche a quella iniziale. Il concetto di verità dei fondamenti è scomparso dal linguaggio matematico e geometrico, e il sogno enciclopedico dell’assiomatizzazione delle matematiche è tramontato. In ogni caso, si continua a far matematica e geometria anche se esistono opinioni diverse sulla loro natura ontologica più profonda.



Questo articolo è comparso sul numero 4/2018 della rivista Archimede. Rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate alle pagg. 224-231. 

lunedì 12 novembre 2018

Vita logica e morte illogica di George Boole


George Boole è famoso per i suoi lavori sulla logica matematica, che aprirono la strada allo sviluppo dell’informatica e al mondo contemporaneo. In realtà fu un genio versatile, uno di quelli che nel mondo anglosassone chiamano polymath, termine riservato alle poche persone in grado di eccellere in quasi tutti campi del sapere. 

Era nato, primo di quattro figli, il 2 novembre 1815 a Lincoln, in Inghilterra, in una famiglia di mezzi modesti, con un padre che era sicuramente più un buon compagno che un buon capofamiglia. Il padre John era infatti un calzolaio che non dedicava molto impegno alla sua attività, perché nutriva una grande passione per la scienza e la tecnologia, in particolare per l'applicazione della matematica agli strumenti scientifici. Questo amore per il sapere fu chiaramente ereditato da George. John fu infatti il primo insegnante di matematica del figlio, e ne incoraggiò la passione per il sapere. Insieme costruirono macchine fotografiche, caleidoscopi, microscopi, telescopi e una meridiana. 

Dopo aver studiato il latino da un insegnante privato, George Boole imparò da solo il greco. A 14 anni era diventato così abile da provocare una piccola polemica. Tradusse un’opera del poeta greco Meleagro, che suo padre orgogliosamente fece pubblicare, suscitando la reazione di un insegnante locale, che dubitò che un quattordicenne avesse potuto scrivere con tanta profondità. A quel tempo George frequentava l'Accademia commerciale di Bainbridge a Lincoln, dove era entrato nel 1828. Questa scuola non forniva il tipo di educazione linguistica e scientifica che avrebbe desiderato, ma era ciò che i suoi genitori potevano permettersi. George fu tuttavia in grado di imparare il francese, l’italiano e il tedesco, studiando da solo anche le materie scientifiche che una scuola commerciale non trattava. La sua capacità di leggere le lingue straniere lo favorì negli studi matematici da quando, a 16 anni, lesse il Calcul Différentiel di Lacroix, ricevuto in regalo da un amico. 

Alla stessa età George dovette trovarsi un impiego retribuito per sostenere i genitori e i fratelli, poiché suo padre non era più in grado di provvedere alla famiglia, in quanto la sua attività era fallita. Dopo aver lavorato per tre anni come insegnante nelle scuole private, decise, nel 1834, di aprire una sua piccola scuola a Lincoln. Sarebbe stato un insegnante privato di lingue e matematica per i successivi 15 anni. Con pesanti responsabilità verso la famiglia, è notevole che abbia comunque trovato il tempo di continuare la propria istruzione. John Boole frequentava spesso la Lincoln Mechanics Institution, che era essenzialmente un’associazione culturale che promuoveva la lettura, le discussioni e le lezioni sulla scienza. Era stata fondata nel 1833 dal matematico Sir Edward Bromhead, membro della Royal Society, che viveva a poche miglia da Lincoln. Nel 1834 John Boole divenne il curatore della biblioteca. Senza il beneficio di una scuola d'élite, ma con una famiglia unita e l'accesso a libri eccellenti, in particolare quelli prestati da Bromhead, George mostrò presto le sue doti. Mantenne il suo interesse per le lingue, iniziò a studiare seriamente la matematica, principalmente le equazioni differenziali e il calcolo delle variazioni legate ai lavori di Lacroix, Laplace e Lagrange, perfezionando scrupolosamente le sue abilità con letture ripetute, finché non comprese il loro uso del calcolo differenziale e integrale. Lesse e con profitto anche i Principia di Newton. 

La motivazione iniziale di George Boole di studiare matematica era di approfondire la sua comprensione della scienza pratica, in particolare meccanica, ottica e astronomia. Con l'avanzare della sua padronanza dell'argomento, riconobbe che la matematica è estremamente eccitante e creativa a pieno titolo. Nel 1838, scrisse il suo primo articolo matematico (sebbene non il primo ad essere pubblicato), Su alcuni teoremi nel calcolo delle variazioni, concentrandosi a migliorare i risultati della Méchanique Analytique di Lagrange. 

All'inizio del 1839 Boole si recò a Cambridge dove conobbe il giovane matematico Duncan F. Gregory (1813-1844), editore del Cambridge Mathematical Journal (CMJ). Gregory aveva fondato questo giornale nel 1837 e lo curò fino a quando la sua salute peggiorò nel 1843 (morì all'inizio del 1844, a soli 30 anni). Gregory divenne un importante mentore per Boole. Con il sostegno di Gregory, che gli insegnò come scrivere un articolo matematico, Boole entrò nel mondo delle pubblicazioni nel 1841. 

Nei suoi primi anni di carriera, Boole pubblicò una trentina di articoli, tutti tranne due nel CMJ e, dal 1846, nel The Cambridge and Dublin Mathematical Journal, che ne aveva preso l’eredità. Si occupò di argomenti matematici standard, principalmente equazioni differenziali, integrazione e calcolo delle variazioni. L’articolo del 1841 Sull'integrazione di equazioni differenziali lineari con coefficienti costanti fornì un miglioramento significativo al metodo di Gregory per risolvere tali equazioni differenziali, basato su uno strumento standard in algebra, lo sviluppo in frazioni parziali. 

Nel 1841 uscì anche il suo primo articolo sugli invarianti, un’opera che avrebbe persuaso Eisenstein, Cayley e Sylvester a sviluppare l'argomento. Arthur Cayley (1821-1895), futuro professore a Cambridge e uno dei più prolifici matematici della storia, scrisse la sua prima lettera a Boole nel 1844, complimentandosi con lui per l’eccellente lavoro. Diventò un caro amico, che sarebbe andato a Lincoln a trovare Boole e stare con lui negli anni prima che Boole si trasferisse a Cork, in Irlanda. Nel 1842 Boole iniziò una corrispondenza con Augustus De Morgan (1806-1871) che diede inizio ad un'altra costante amicizia.

Nel 1843 Boole concluse un lungo lavoro sulle equazioni differenziali, combinando una sostituzione esponenziale e una variazione dei parametri con il metodo della separazione dei simboli. L’articolo era troppo lungo per il CMJ. Gregory, e più tardi De Morgan, lo incoraggiarono allora a presentarlo come memoria alla Royal Society. Il primo referee respinse il lavoro di Boole, ma il secondo lo raccomandò per la medaglia d'oro per la migliore opera matematica scritta negli anni 1841-1844: questa raccomandazione fu accettata. Nel 1844, la Royal Society pubblicò l’opera di Boole e gli assegnò la medaglia d'oro, la prima attribuita a un matematico. L'anno seguente, nel giugno 1845, Boole tenne una conferenza alla riunione annuale della British Association for the Advancement of Science a Cambridge. Ciò portò a nuovi contatti e amici, in particolare William Thomson (1824-1907), il futuro Lord Kelvin, che era professore di filosofia naturale presso l'Università di Glasgow.

Non molto tempo dopo aver iniziato a pubblicare articoli, Boole era ansioso di trovare un modo per ottenere un titolo in un’istituzione prestigiosa. Valutò l’ipotesi di frequentare l'Università di Cambridge per ottenere una laurea, ma gli fu consigliato che soddisfare i vari requisiti richiesti avrebbe probabilmente interferito seriamente con il suo programma di ricerca, per non parlare dei problemi di ottenere finanziamenti. Alla fine, nel 1849, ottenne la nomina alla cattedra di matematica al Queen's College di Cork, in Irlanda. In questa sede egli insegnò per il resto della sua vita. Boole si inserì nella vita accademica, godendo di un certo grado di indipendenza finanziaria e di un nuovo senso di libertà. A marzo dell'anno successivo scrisse al suo amico e corrispondente William Thomson: 
"Posso dire in tutta onestà che provo un piacere sempre maggiore nei miei nuovi compiti".

Nel 1847 pubblicò la sua prima opera di logica, Mathematical Analysis of Logic, seguita da Laws of Thought del 1854. Inoltre, durante questo periodo, Boole pubblicò decine articoli di matematica tradizionale, e solo un articolo di logica. Nel 1851 gli fu conferita la laurea ad honorem presso l'Università di Dublino. 

Per capire come Boole abbia sviluppato, in così poco tempo, la sua straordinaria algebra della logica, è utile ripercorrere le linee generali del dibattito sui fondamenti dell'algebra che era stato iniziato dai matematici affiliati all'Università di Cambridge nell'Ottocento prima dell’inizio della sua carriera matematica. 

Il XIX secolo si aprì in Inghilterra con una stasi della matematica. I matematici inglesi erano in lotta con i matematici continentali sulla priorità nello sviluppo del calcolo infinitesimale, che portò gli inglesi a seguire la notazione di Newton, e i continentali quella di Leibniz. Uno degli ostacoli da superare nell'aggiornamento della matematica inglese era il fatto che i grandi sviluppi dell'algebra e dell'analisi erano stati costruiti su basi dubbie, e c'erano matematici inglesi che erano piuttosto espliciti riguardo a queste carenze. Nell'algebra ordinaria, a preoccupare era l'uso di numeri negativi e dei numeri immaginari. 

Il primo grande tentativo tra gli inglesi di chiarire i problemi fondamentali dell'algebra fu il Treatise on Algebra, 1830, di George Peacock (1791-1858). Una seconda edizione apparve in due volumi, negli anni 1842-1845. Egli divise l’argomento in due parti: la prima era l'algebra aritmetica, vale a dire l'algebra dei numeri positivi (che non consentiva operazioni come la sottrazione nei casi in cui il risultato non era un numero positivo), la seconda era l'algebra simbolica, che non era governata da una specifica interpretazione, come nel caso dell'algebra aritmetica, ma solo da leggi formali. Nell'algebra simbolica non c'erano restrizioni all'uso della sottrazione, ecc. 

La terminologia dell'algebra era alquanto diversa nel diciannovesimo secolo rispetto a quanto si usa oggi. In particolare, non si usava la parola "variabile"; la lettera x era chiamata simbolo, da cui il nome "algebra simbolica".

Peacock riteneva che, affinché l'algebra simbolica fosse un metodo utile, le sue leggi dovevano essere strettamente correlate a quelle dell'algebra aritmetica. A questo proposito, introdusse il principio della permanenza delle forme equivalenti, che collegava i risultati dell'algebra aritmetica a quelli dell'algebra simbolica. Questo principio consisteva di due parti:
1. I risultati generali nell'algebra aritmetica appartengono alle leggi dell'algebra simbolica.
2. Ogni volta che un'interpretazione di un risultato di algebra simbolica ha senso nell'impostazione dell'algebra aritmetica, il risultato dà un risultato corretto in aritmetica.

Un interessante uso dell'algebra fu introdotto nel 1814 da François-Joseph Servois (1776-1847), che affrontò le equazioni differenziali separando la parte dell'operatore differenziale dalla parte della funzione algebrica. Con questo nuovo metodo simbolico considerava un'equazione differenziale, per esempio:


 e la scriveva nella forma Operatore (y) = cos(x). Ciò si otteneva (formalmente) ammettendo:

Portando a un’espressione dell’equazione differenziale come:


A questo punto entrava in gioco l'algebra simbolica, semplicemente trattando l'operatore D2 come se fosse un polinomio algebrico ordinario. Questa applicazione dell'algebra catturò l'interesse di Gregory, che pubblicò sul suo giornale diversi articoli sul metodo della separazione dei simboli, cioè la separazione tra operatori e oggetti. Egli si occupò anche dei fondamenti dell'algebra, dando un’interpretazione che Boole condivise quasi alla lettera. Gregory aveva abbandonato il principio di Peacock sulla permanenza delle forme equivalenti a favore di tre semplici leggi, una delle quali Boole considerava semplicemente una convenzione di notazione. Sfortunatamente, queste leggi non erano sufficienti a giustificare neanche i risultati più elementari dell'algebra, come quelli che implicano la sottrazione. 

In On the foundation of algebra (1839), il primo di quattro articoli di De Morgan su questo argomento apparsi sulle Transactions of the Cambridge Philosophical Society, si trova un tributo alla separazione dei simboli in algebra, e l'affermazione che i moderni algebristi di solito considerano i simboli come denotanti operatori (ad esempio, l'operazione derivativa) invece di oggetti come numeri. La nota in calce: 
"Il professor Peacock è il primo, credo, che ha distinto chiaramente la differenza tra ciò che ho chiamato i rami tecnico [sintattico] e logico [semantico] dell'algebra" 
riconosceva a Peacock il merito di essere stato il primo a separare quelli che vengono ora chiamati gli aspetti sintattici e semantici dell'algebra. Nel secondo documento di fondazione (nel 1841) egli propose quello che considerava un insieme completo di otto regole per operare con l'algebra simbolica. 

La strada verso la fama logica di Boole cominciò in modo curioso. All'inizio del 1847 fu stimolato a iniziare le sue indagini sulla logica da una disputa banale ma pubblica tra De Morgan e il filosofo scozzese Sir William Hamilton (1788-1856) – da non confondersi con il suo contemporaneo, il matematico irlandese Sir William Rowan Hamilton (1805-1865). Questa disputa ruotava attorno a chi spettasse il merito dell'idea di quantificare il predicato (ad esempio, "Tutto A è tutto B", "Tutto A è una parte di B", ecc.). Osservando la disputa a distanza, Boole intuì che i due approcci rivali potevano essere sintetizzati: ogni classe di oggetti poteva essere rappresentata da un singolo simbolo, mentre le relazioni tra classi potevano essere rappresentate da equazioni algebriche che collegavano i simboli. Nel giro di pochi mesi, Boole scrisse la sua monografia di 82 pagine, Mathematical Analysis of Logic, An Investigation of the Laws of Thought on which are founded the Mathematical Theories of Logic and Probabilities, fornendo un approccio algebrico alla logica aristotelica. (Pare che questa monografia e il libro di De Morgan, Formal Logic, apparvero lo stesso giorno nel novembre 1847). Boole stesso descrisse l’opera come: 
"Un'indagine sulle leggi fondamentali di quelle operazioni della mente con cui viene eseguito il ragionamento; per dar loro espressione nel linguaggio simbolico di un calcolo e, su questa base, per stabilire la scienza della logica e costruire il suo metodo; fare di quel metodo stesso la base di un metodo generale per l'applicazione della dottrina matematica delle probabilità; e infine per raccogliere dai vari elementi di verità riportati nel corso di queste indagini alcuni probabili indizi riguardanti la natura e la costituzione della mente umana".
Boole accettava pienamente la logica di Aristotele. Gli obiettivi di Boole erano "andare sotto, sopra, e oltre" quella costruzione: 
1. Fornendole basi matematiche che coinvolgono equazioni; 
2. Estendendo la classe di problemi che poteva trattare mediante la valutazione della validità per la risoluzione delle equazioni; 
3. Espandendo la gamma di applicazioni che poteva trattare, ad es. dalle proposizioni che hanno solo due termini a quelle che ne hanno arbitrariamente molti. 

Più specificamente, Boole concordava con ciò che aveva detto Aristotele, ma ritenne necessario aggiungere qualche concetto., Boole ridusse le quattro forme proposizionali della logica di Aristotele alle formule sotto forma di equazioni, di per sé un'idea rivoluzionaria. In secondo luogo, nel campo dei problemi della logica, l'aggiunta di Boole della risoluzione di equazioni alla logica - un'altra idea rivoluzionaria - comprendeva la dottrina di Boole secondo cui le regole di inferenza di Aristotele (i "sillogismi perfetti") devono essere integrate da regole per la risoluzione delle equazioni. Terzo, nel campo delle applicazioni, il sistema di Boole poteva gestire proposizioni e argomenti a più termini, mentre Aristotele poteva gestire solo proposizioni e argomentazioni di soggetto-predicato a due termini. 


Queste opere ampliarono l'orizzonte della matematica attraverso la logica simbolica. La matematica classica era incentrata sui concetti di forma e numero: quando venivano impiegati i simboli, venivano solitamente interpretati in termini di numero. Boole introdusse l’idea di interpretare i simboli come classi o insiemi di oggetti: lo studio di insiemi definiti di oggetti poteva essere affrontato attraverso la matematica. De Morgan elogiò il lavoro di Boole sulla logica dicendo:
"Il sistema logico di Boole è solo una delle tante prove di genialità e pazienza combinate ... Che i processi simbolici dell'algebra, inventati come strumenti di calcolo numerico, dovrebbero essere competenti per esprimere ogni atto di pensiero e per fornire la grammatica e il dizionario di un sistema di logica onnicomprensivo non sarebbe stato creduto fino a che non fosse stato dimostrato."
In The Laws of Thought, Boole utilizzò testi di Baruch Spinoza (1632-77) e altri filosofi e esaminò questi testi da un punto di vista logico. Perciò Boole rafforzò il ruolo della logica e questo ebbe un impatto importante sulla filosofia, in particolare attraverso il Circolo di Vienna che, nei primi anni ‘20 del Novecento, sviluppò la filosofia analitica. Dopo la morte di Boole furono scoperti numerosi manoscritti che mostrano che egli intendeva pubblicare un altro libro in cui le sue scoperte nella logica dovevano informare la sua visione personale della filosofia. 


Sebbene l'algebra logica di Boole non sia l'algebra booleana degli insiemi con le operazioni di unione, intersezione e complemento, tuttavia lo scopo delle due algebre è lo stesso, cioè fornire una logica che contempli equazioni per il calcolo delle classi e la logica proposizionale. Il nome "algebra booleana" fu introdotto da Charles Sanders Peirce (1839-1914), poi adottato dal filosofo di Harvard Josiah Royce (1855-1916) intorno al 1900, e infine da tutti. Si riferiva essenzialmente alla versione moderna dell'algebra della logica, introdotta nel 1864 da William Stanley Jevons (1835-1882), una versione che Boole aveva respinto. Per questo motivo, alla parola "booleano" è preferibile il nome di algebra “di Boole” per descrivere l'algebra della logica che Boole effettivamente sviluppò nelle sue opere.

Boole fu colpito dalle capacità computazionali del suo nuovo tipo di algebra. Era sorpreso di scoprire che la sua algebra poteva essere applicata all'arduo compito di risolvere complessi problemi di logica aristotelica. Non fu la prima persona a confondere la logica con il pensiero, e per molti anni pensò di aver scoperto il modo in cui la mente umana funziona e morì deluso dal fatto di non essere riconosciuto per questo. Ma ciò che aveva effettivamente scoperto è come funziona la logica formale. Aveva sviluppato un modo pratico per rappresentare e risolvere matematicamente complessi problemi logici. Durante la sua vita, non ebbe che la sua algebra sarebbe stata la base per una rivoluzione di grande scala, Tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, la sua logica trovò una pratica applicazione quando fu ampiamente utilizzata per verificare le implicazioni di contratti assicurativi complessi. Ma la logica booleana trovò la sua vera casa tecnologica a metà del XX secolo, quando il pioniere americano del computer Claude Shannon dimostrò nella sua tesi magistrale che i circuiti elettrici binari (quelli che sono rappresentati come solo o "chiusi" o "aperti") si comportano secondo le leggi dell'algebra booleana. Shannon mostrò che la logica complessa poteva essere rappresentata nei circuiti binari, che divennero la base per i computer digitali. 

Durante gli ultimi dieci anni della sua carriera, dal 1855 al 1864, Boole pubblicò altri articoli e due libri di matematica, uno sulle equazioni differenziali e uno sulle equazioni alle differenze parziali, che costituivano il suo primo amore matematico. A Treatise on Differential Equations fu pubblicato nel 1859. Boole fu molto felice quando ricevette la notizia che l'Università di Cambridge aveva adottato questa sua opera lavoro come libro di testo. Tenendo conto dell'impatto del suo lavoro matematico negli ultimi 20 anni, Boole rivide la sua produzione e comprese che molti dei suoi metodi e tecniche in relazione ai problemi di calcolo dovevano essere rivalutati, a causa della loro gamma potenzialmente più ampia di applicazioni. Così si mise al lavoro sul suo quarto e ultimo libro, un libro di testo intitolato A Treatise on the Calculus of Finite Difference. Lo scopo di questo nuovo testo era quello di far luce sulle connessioni tra equazioni alle differenze e equazioni differenziali, mentre metteva a fuoco la potenza dei metodi dell'operatore astratto applicati a una nuova area della matematica. In questo periodo arrivarono importanti onorificenze, dalla Royal Society (Fellowship, 1857), dalla Cambridge Philosophical Society (Membro onorario, 1858) e dall’Università di Oxford (Doctor Civilis Legis, Alto dottorato honoris causa).

A Cork, nel 1850, il futuro caposcuola della logica algebrica conobbe Mary Everest, che era la nipote del Colonnello George Everest, il Topografo Generale dell’India da cui il monte più alto del mondo prese poi il nome. A partire dal 1852, George Boole divenne l’insegnante privato di matematica di Mary e, quando il padre di lei morì nel 1855 senza lasciarle alcun mezzo di sostentamento, Boole le propose di sposarlo. La cerimonia ebbe luogo l’11 settembre 1855. Nonostante una grande differenza d’età (lei aveva 17 anni di meno), si trattò di un matrimonio felice, dal quale nacquero cinque figlie, una delle quali, Alicia, più tardi maritata Stott (1860-1940), sarebbe diventata una valente matematica, esperta nella geometria dimensionale (fu lei a coniare il termine politopo).


Mary Everest Boole era una donna intelligente, che sopravvisse al marito per 52 anni, durante i quali fu divulgatrice delle idee e delle scoperte di George, con una libertà di spirito e concezioni pedagogiche che l’hanno resa a suo modo un’icona del femminismo. Ella, tuttavia ebbe una grande responsabilità proprio nella sua morte. Vediamo come andarono i fatti, secondo il resoconto che ne diede Alexander Macfarlane in Lectures on Ten British Mathematicians of the Nineteenth Century (New York, 1916):
“Un giorno del 1864 egli percorse a piedi le due miglia dalla sua residenza al College sotto un violento acquazzone, e fece lezione con gli abiti bagnati. La conseguenza fu un’infreddatura con febbre, che ben presto si trasformò in una polmonite e pose fine alla sua carriera (…)”. 
Boole non aveva mai goduto di salute robusta. Riguardo alla sua delicata costituzione, Mary Boole disse che soffriva di una "Malattia ereditaria dei polmoni, aggravata dalla residenza in un clima umido, con un sistema nervoso sensibile al massimo grado".

Ciò che la maggior parte delle persone non sa è che George Boole fu assai probabilmente ucciso dall'omeopatia, o almeno da una sua interpretazione eccessivamente letterale. Sfortunatamente per lui, il padre di Mary era stato un fervente seguace delle teorie mediche di Samuel Hahnemann, il fondatore dell’omeopatia, e gli Everest avevano vissuto per anni nella residenza parigina del medico tedesco in rue de Milan, dove anche la futura signora Boole era diventata una discepola delle sue idee eterodosse.

Mary Boole, affascinata dal principio dei simili, cardine del pensiero omeopatico, e cioè che Similia similibus curantur (I simili si curano con i simili), pensò, forse su consiglio di un medico ciarlatano, che il freddo era la miglior cura per un raffreddore e che bisognava esporre George alle stesse condizioni che lo avevano fatto ammalare. Lo mise a letto e gli gettò addosso alcuni secchi d’acqua fredda. Per la donna questo trattamento, che oggi giudicheremmo crudele e avventato, era perfettamente logico. Per diversi giorni Boole rimase a letto mentre Mary bagnava le lenzuola. Il matematico, geniale ma assai ingenuo, lasciò fare, si ammalò di polmonite e morì. Vano fu il tentativo di un medico, il professor Bullen, chiamato troppo tardi al suo capezzale, di curarlo con metodi tradizionali. Boole morì l’8 dicembre 1864 a soli 49 anni. Il certificato di morte indicò la causa del decesso in una pleuro-polmonite e stabilì che la durata della malattia era stata di 17-19 giorni. Fu sepolto nel cimitero della chiesa di St. Michael a Blackrock, nella contea di Cork.


La veridicità di queste vicende è testimoniata da diverse fonti, tra le quali una significativa lettera scritta dalla figlia più piccola, Ethel sposata Voynich, che diventò una grande intellettuale e scrittrice apprezzata. Ethel non nasconde di attribuire alla madre la colpa della morte del padre:
(…) Mia sorella Mary Hinton, che fu sua amica, e che raccolse diversi aneddoti sulla famiglia, mi disse che, almeno secondo Mary Ann [la sorella di Boole], la causa della morte prematura di papà fu ritenuta la fede della Signora [Mary Everest Boole] in un certo bizzarro dottore che prescriveva cure con acqua fredda per ogni cosa. Qualcuno, non sono in grado di ricordare chi, pare che sia entrato in casa e abbia trovato il papà “che tremava tra lenzuola bagnate”. Ora, per quanto mi riguarda, sono incline a credere che ciò possa essere accaduto. Gli Everest sembra proprio che fossero una famiglia di gente eccentrica, che seguiva degli eccentrici. Il padre della Signora a quanto pare adorava Mesmer e Hahnemann e la stessa Signora seguì le teorie fino alla morte”. 
Di sicuro Hahnemann non avrebbe mai “curato” Boole con il metodo sciocco e disgraziato utilizzato da Mary Everest. Il principio dei simili riguarda i principi attivi, i rimedi, che il medico deve utilizzare per produrre una malattia artificiale simile a quella reale, che ad essa si sostituisce per poi scomparire. Le dosi da utilizzare devono essere ridotte al minimo indispensabile, in modo da minimizzare o annullare gli effetti sfavorevoli. Questi rimedi sono somministrati in dosi infinitesimali e opportunamente “dinamizzati”, al punto che è difficile trovarne traccia nella soluzione acquosa o nello zucchero. L’omeopatia fu la causa della morte di Boole solo perché interpretata in modo aberrante. Utilizzata correttamente, essa semplicemente non avrebbe avuto alcun effetto.


martedì 23 luglio 2013

Heavy meta

Strano destino quello della preposizione greca μετά (meta), che significava “dopo”, “a fianco di”, “con”, “stesso”, con variazioni di senso che dipendevano dalla declinazione della parola successiva. Dalla preposizione derivò il prefisso μετα-, più o meno con gli stessi significati.

Quando Andronico di Rodi, scolarca della ricostituita scuola peripatetica, pubblicò nel primo secolo a. C. una nuova edizione delle opere di Aristotele (quella che costituisce il Corpus Aristotelicum oggi noto), chiamò Metafisica una serie di scritti in cui il grande filosofo si occupava della natura degli enti fisici, tra i quali la divinità, in quanto esseri. Questi trattati furono chiamati τὰ μετὰ τὰ φυσικά (“ciò che viene dopo la Fisica”) per il semplice fatto che essi nella compilazione venivano dopo il libro dedicato alla Fisica. L’espressione venne però interpretata diversamente, come se il suo oggetto fosse “ciò che va oltre la fisica”, in quanto divino. Quel prefisso meta-, utilizzato da Andronico con un’accezione puramente locativa (post-), venne a significare un superamento, un’uscita da (trans-) per cui la metafisica divenne lo studio di ciò che va oltre le cose naturali, la scienza delle cose divine.

A Roma la parola “metafisica” arrivò con questo secondo significato, che divenne quello definitivo anche perché venne fatto proprio dal cristianesimo. Sul calco di metafisica si sono coniate nel Novecento moltissime parole, soprattutto in ambito scientifico, in cui il prefisso indica, di volta in volta, una trasformazione, un’evoluzione, uno sviluppo, una derivazione (“posteriorità, mutamento, trasformazione” secondo il Dizionario delle Scienze Fisiche Treccani del 2012). In chimica le cose sono leggermente diverse e più specifiche, ma non è il caso adesso di aggiungere troppa carne al fuoco.

In campo matematico il prefisso cominciò a essere usato alla fine della grande discussione sui fondamenti e del tentativo di basare le matematiche su sistemi logico-formali. Le geometrie non-euclidee, alla metà dell’Ottocento, avevano portato all'abbandono del sogno cartesiano e kantiano dell'autoevidenza degli assiomi posti alla base della matematica, che diventava scienza di relazioni sintattiche fra simboli del suo linguaggio: la validità della deduzione matematica non dipende dal particolare significato che può essere associato ai termini o alle espressioni contenute nei postulati. In parole povere: non è fondamentale che esista davvero un lonfo, ma che un quadrato con tre lonfi per lato contenga davvero nove lonfi. Ciò che importa al matematico puro è la struttura delle affermazioni piuttosto che la natura particolare del loro contenuto: egli non si preoccupa se i postulati che ammette o le conclusioni che trae dai primi sono veri, ma se le conclusioni avanzate siano le conclusioni logiche necessarie delle ipotesi da cui è partito.

Una volta che non si suppone più la verità dei postulati, nasce il problema di come provare almeno la coerenza dei sistemi attraverso i quali facciamo le nostre deduzioni. Tutti i grandi matematici che, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, provarono, consci di quella che prese il nome di crisi dei fondamenti, a rifondare le matematiche su basi diverse (gli insiemi, la logica, le classi) si imbatterono però nel grande problema delle antinomie, cioè delle contraddizioni interne: il fatto di arrivare, partendo dalle stesse premesse, a conclusioni logiche opposte. Per un motivo o per l’altro, capitava di dover ammettere che un lonfo barigatta e contemporaneamente non lo fa.

Si arrivò almeno a concordare su che cosa sia un sistema formale, cioè un sistema simbolico senza interpretazione (chissene se un lonfo esiste davvero), con una sintassi (le regole di combinazione dei simboli) definita in un modo rigoroso, sul quale è definita una relazione di deducibilità in termini puramente sintattici (deve essere possibile ricavare delle conclusioni facendo ricorso esclusivamente alle regole sintattiche interne al sistema). Le principali proprietà di un sistema formale sono:
a) la consistenza, o coerenza: un linguaggio formale è consistente se non contiene formule contraddittorie, cioè non capita che una delle sue formule e la sua negazione siano costruibili o dimostrabili al suo interno;
b) la completezza: è la proprietà per cui tale sistema è sufficiente per decidere di ogni proposizione correttamente costruita e/o formulata a partire dalle proposizioni-base di quel linguaggio. Detto in altro modo, un sistema è completo quando è possibile dimostrare al suo interno ogni formula dimostrabile, oppure la sua negazione;
c) la decidibilità: un enunciato formulabile in un dato sistema formale è decidibile se è dimostrabile come vero o falso all'interno di tale sistema. Se non è così, succede ciò che descrissi tempo fa in questo limerick:

In un vecchio libro, una certa sera
lessi una frase che passò leggera:
“Una fata mi ha giurato
che il loro mondo è inventato”
che, se è vera, è falsa e, se è falsa, è vera.


Ancor prima che Kurt Gödel dimostrasse nel 1931 che è impossibile per un sistema formale coerente come l’aritmetica dimostrare la propria coerenza, si arrivò a parlare di metamatematica e metalogica, cioè di teorie che studino il funzionamento della matematica e della logica superandole, trascendendole. Così, mentre la logica studia il modo in cui i sistemi logici possono essere usati per costruire argomenti validi e corretti, la metalogica studia le proprietà dei sistemi logici stessi. Analogamente, la metamatematica è lo studio della matematica mediante metodi matematici: questo studio produce metateorie, che sono teorie matematiche su altre teorie matematiche. Un'immagine significativa di tutti questi meta- è il simbolo dell’ouroburos, il serpente che si morde la coda (invece non sappiamo se esiste tra i lonfi una simile abitudine).

L’Oxford Dictionary, attento a registrare tutto ciò che capita alla lingua inglese, annota per la prima volta il termine metamathematics nel 1929, ma il concetto era già presente nei lavori del grande matematico tedesco David Hilbert, colui che già nel 1900 aveva enunciato tra le grandi sfide del secolo incipiente proprio la dimostrazione che gli assiomi dell’aritmetica sono coerenti e che, intorno agli anni ‘20, con il suo Programma, aveva tentato di formalizzare tutte le teorie matematiche esistenti attraverso un insieme finito di assiomi, e dimostrare che questi assiomi non conducevano a contraddizioni, per esempio che la proposizione A e la sua negazione non-A siano entrambi teoremi. Già ho detto che il sogno di Hilbert fu frustrato da Gödel, ma fu proprio il meta- che consentì di superare certe difficoltà: si trovarono strade diverse, e la ricerca continua ancor oggi.

Nel 1937 Willard Quine utilizzò per primo il termine metateorema nell’articolo Logic Based on Inclusion and Abstraction, per indicare “un X che riguarda X”, cioè l’equivalenza di strutture logiche (la metafisica, al contrario, va oltre la fisica, ma non ha la sua stessa struttura, è “un Y che riguarda X”). Così formulato da Quine, l’ouroboros di cui ho parlato può essere visto in termini di autoreferenza, con tutte le conseguenze, anche ludiche, di cui mi sono occupato in un precedente articolo.

Quine è infatti ampiamente citato nelle opere di Douglas Hofstadter, che, nel suo Gödel, Escher, Bach (1979) e nel successivo Metamagical Themas, ha reso popolare il nostro meta. Hofstadter addirittura lo usa come aggettivo, o come preposizione (“going meta”, così come esiste “going to”, per indicare che si porta la discussione su un altro livello di astrazione). Grazie a Hofstadter, e al successo del suo bellissimo testo, oramai il prefisso meta- è diventato di uso comune, soprattutto per indicare autoreferenze o quel tipo di cortocircuiti logici che gli anglosassoni chiamano strange loops

Oggi esistono persino i meta-jokes, o meta-barzellette, battute autoreferenziali, o che si riferiscono ad altre battute, come quella di un italiano, un francese e un americano che entrano in un bar e il barista chiede: “Che cos'è, una barzelletta?”.