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venerdì 8 marzo 2024

La guerra italiana contro la malaria

 


Il grande storico francese Fernand Braudel scrisse poco prima di morire che
«Sebbene pericolosa, la peste, importata dall'India e dalla Cina attraverso relazioni a distanza, è una straniera temporanea nel Mediterraneo. La malaria ha lì una sede permanente. Fa da sfondo al quadro della patologia mediterranea». In effetti, la presenza della malaria in ampie porzioni del territorio italiano è ampiamente documentata fin da tempi molto antichi e il flagello era endemico già ai tempi dell'antica Roma.

La malaria, che ogni anno mieteva migliaia di vittime, era tra i problemi sanitari più urgenti e gravi che il governo dell’Italia unita si trovò ad affrontare, perché riguardava ampie zone del territorio, desolate, inabitabili e improduttive proprio a causa della malattia. Particolarmente colpite erano le campagne intorno a Roma, l’agro pontino, la Maremma toscana, la Sardegna, il Veneto, la Romagna, la Puglia, la Calabria, la Basilicata, anche se nel passato più remoto ci sono stati sicuramente periodi in cui l'influenza della malaria aveva coperto estensioni territoriali molto più ampie, sia per il cambiamento delle condizioni climatiche, sia per le variazioni della dinamica delle popolazioni, sia per eventi storici che avevano causato l'abbandono dei lavori di regolazione idraulica nelle zone soggette a impaludamento.

Del problema non si ebbe un quadro preciso fino all’inchiesta agraria promossa dalla Camera dei deputati negli anni 1877-1886, che mise in luce le miserevoli condizioni delle popolazioni nelle campagne. La stima del numero dei colpiti dalla malaria era impresa non facile, perché le distanze, la distribuzione frammentata della popolazione, la mancanza di presidi medici, rendevano complicato un conteggio preciso.

Nel 1882 il senatore valtellinese Luigi Torelli, più volte ministro, si occupò del problema: stilò la prima bozza di una carta geografica in cui erano segnalate le aree italiane colpite da malaria; delle 69 province, solo 6 erano completamente esenti dal morbo, mentre 21 presentavano territori con malaria gravissima, 29 con malaria grave, 13 con malaria leggera; risultava inoltre che le zone colpite erano anche quelle più fertili, tanto che Torelli stimò che circa due milioni di ettari di terreno coltivabile erano lasciati incolti e altrettanti venivano sfruttati in modo insufficiente; negli stessi anni fu valutato che il numero di morti annuali dovuto direttamente alla malattia si aggirava intorno ai ventimila, a cui si dovevano aggiungere i morti causati da complicazioni dovute al morbo.


Un aspetto importante riguarda infatti la struttura della mortalità registrata nelle aree malariche, che è solo in parte attribuibile ai decessi direttamente causati da questa malattia. Infatti, lo stato di debilitazione causato dalla malaria, anche quando questa infezione non è direttamente mortale, rende i soggetti malarici più facilmente preda di altre forme morbose (legate principalmente all'apparato respiratorio e gastrointestinale). D’altra parte, un attacco di malaria (soprattutto in caso di recidive) può aggravare altri tipi di infezioni già in corso. Inoltre, i figli di madri malariche nascevano spesso sottopeso e, anche se non contraevano la malaria, erano soggetti a rischi eccezionalmente elevati di morte, anche dopo il primo anno di vita, soprattutto per infezioni gastrointestinali e polmonari, come la tubercolosi.

Inizialmente, per spiegare le ragioni dell’infezione, si pensò che fossero i terreni paludosi a produrre la malattia, ma se questo poteva essere plausibile per il Nord, dove gli acquitrini abbondavano, non poteva valere per il Sud: in molte zone non paludose, era sufficiente il calore e un piccolo grado di umidità per favorire la “fermentazione” del terreno (la “mal aria”) e dar luogo alla malattia. Nel tentativo di arginare il problema, furono progettati interventi di bonifica a partire dall’Agro romano, che lambiva la capitale. La prima legge in materia fu promossa dall'ingegnere e deputato Alfredo Baccarini (1826-1890, Legge 25 giugno 1882, n. 269) con la quale lo stato, consapevole dei limiti dell'azione dei privati, perseguì un intervento organico di impegno sociale e sanitario contro la malaria. La bonifica avrebbe dovuto provvedere al prosciugamento e al risanamento dei laghi, degli stagni, delle paludi e delle terre paludose.


Negli ultimi trent'anni dell’Ottocento, un folto gruppo di scienziati italiani, come Giovanni Battista Grassi, Angelo Celli, Camillo Golgi, Ettore Marchiafava, Amico Bignami, Giuseppe Bastianelli, si impegnò per risolvere l’enigma della malaria e divenne noto come
gruppo romano di malariologia, perché la maggior parte delle persone coinvolte lavorava a Roma e molte delle ricerche cliniche sull’argomento furono realizzate presso l’ospedale Santo Spirito della capitale, che ospitava degenti maschi provenienti dalle zone malariche vicine e nei momenti critici giungeva a curare fino a mille degenti.

Negli anni 1878 e 1879, due eminenti patologi, Corrado Tommasi-Crudeli (1834-1900) e il tedesco Edwin Klebs (1834-1913), decisero di unire le loro forze per studiare insieme la causa della malaria nell’agro romano e per questo furono ospitati da Stanislao Cannizzaro nel laboratorio di chimica di Roma. I due isolarono dal suolo delle zone paludose un microbo, da loro chiamato Bacillus malariae, e pubblicarono due memorie negli atti della Regia accademia dei Lincei, sostenendo che il germe si rinveniva nelle zone malariche e poteva essere coltivato in laboratorio; asserirono inoltre che, inoculato nei conigli, procurava febbre e ingrossamento splenico.

Ettore Marchiafava (1847-1935), allievo di Tommasi-Crudeli, rinvenne organismi simili a quelli descritti da Tommasi Crudeli e Klebs nel sangue di tre individui morti per malaria perniciosa; nella loro milza e nel midollo osseo era inoltre presente un pigmento nerastro simile a quello riscontrato dai colleghi nei conigli, lo stesso pigmento presente negli organi di individui deceduti per malaria e che già altri avevano descritto, attribuendolo ad accumuli di melanina. Sembrava che la malaria avesse finalmente trovato la sua causa (un batterio).

Nel 1880, il maggiore medico francese Charles Louis Alphonse Laveran (1845 – 1922), ex studente di Pasteur, che dal 1878 lavorava presso l’ospedale militare di Costantina, in Algeria, rese noto di aver analizzato il sangue prelevato da numerosi ricoverati malarici. Mentre le autopsie mettevano tutte in evidenza la tipica pigmentazione bruna, nel sangue prelevato da individui vivi poté osservare che i leucociti erano colmi di melanina e erano presenti cellule di dimensioni variabili e dotate di movimento ameboide, libere o aderenti ai globuli rossi; osservò inoltre cellule flagellate, dotate di movimenti rapidi. Le sue comunicazioni, però, destarono inizialmente scarsa eco, in quanto, sull’onda delle scoperte batteriologiche, non si poteva pensare che una malattia fosse provocata da protozoi; tuttavia, un altro medico, Eugène Richard, che lavorava in un ospedale vicino a quello di Laveran, confermò le sue osservazioni. Il lavoro di Laveran, Traité des fièvres palustres, fu pubblicato nel 1884.

Nel frattempo, in Italia non tutti erano d’accordo con le conclusioni di Tommasi-Crudeli e Klebs. Uno dei più convinti oppositori della teoria batterica era da tempo Guido Baccelli (1830-1916), professore di clinica medica presso l’Università di Roma e in seguito anche senatore e ministro, che da anni sosteneva che la malattia era dovuta a un’infezione dei globuli rossi e nel 1878 aveva pubblicato su incarico del Governo l’ampio trattato La malaria di Roma, presentato all’Esposizione universale di Parigi.

Si decise allora di ricorrere al giudizio di Camillo Golgi (1843-1926), che in seguito (1898) avrebbe scoperto l’organulo cellulare che da lui prende il nome, premio Nobel per la Medicina (1906), la cui fama di istologo era ormai da tempo consolidata, e al parassitologo Edoardo Perroncito (1847-1936). Un gruppo di scienziati, coordinati da Perroncito e Golgi, ripeterono a Pavia gli esperimenti, utilizzando il protocollo di Tommasi-Crudeli e Klebs, che prevedeva un esame istologico condotto qualche ora dopo il prelievo, ma ottennero risultati ambigui; si poteva pensare che il ritardo nell’osservazione avesse contaminato il prelievo. Batteri simili a quelli rinvenuti da Tommasi-Crudeli e Klebs, vennero infatti rinvenuti anche in sangue prelevato da soggetti sani. Nel frattempo, Marchiafava, nel 1882, aveva conosciuto Laveran, che si era recato a Roma per verificare presso l’ospedale Santo Spirito se anche i malarici dell’agro pontino presentavano nel sangue gli organismi da lui osservati in Algeria; il medico francese aveva mostrato i preparati al collega, che da quel momento aveva cominciato a nutrire seri dubbi sulle conclusioni di Tommasi - Crudeli. Marchiafava e l’igienista Angelo Celli (1857–1914) ripresero ad analizzare numerosi campioni di sangue di persone con la malaria e infine i due, che disponevano di mezzi tecnici migliori, poterono confermare che il responsabile della malattia era un protozoo, da loro denominato Plasmodium e non un batterio; i loro risultati vennero suffragati dalle osservazioni degli assistenti di Marchiafava, Bignami e Bastianelli. La causa della terzana maligna, il Plasmodium falciparum, fu infine individuato nel 1889 da Marchiafava e Celli, in seguito all’ideazione di un metodo di colorazione ottimale per identificare i parassiti negli strisci di sangue; si chiarì, in questo modo, che quasi esclusivamente al P. falciparum erano attribuibili le forme cliniche delle febbri e gli episodi mortali di malaria. La comunità scientifica, così, si convinse che Laveran, Marchiafava, Bignami e Bastianelli avevano ragione; i riscontri clinici ottenuti da Tommasi-Crudeli e Klebs potevano essere attribuiti a infezioni non riconducibili alla malaria.

C’era ora da capire se la periodicità con cui si manifesta l’attacco febbrile (le febbri malariche hanno accessi periodici per cui si distinguono la terzana, la quartana e altre forme periodiche meno diffuse) fosse provocata da due o più distinte specie di plasmodio, oppure se lo stesso parassita provocasse sintomatologie diverse in base a non meglio specificati fattori ambientali.

Camillo Golgi, che continuava ad interessarsi al problema, studiò numerosi pazienti, ponendo particolare attenzione alle variazioni della loro temperatura e prelevò loro il sangue a intervalli regolari sia durante gli accessi febbrili che nei periodi di remissione. L’osservazione al microscopio gli permise di notare che nel caso di malati affetti da quartana, i corpi pigmentati raggiungono il loro pieno sviluppo nell’intervallo fra i due accessi febbrili; inizia allora la divisione cellulare del parassita e subito dopo la temperatura del paziente si innalza. Nel 1885 dimostrò che i due diversi tipi di febbre malarica, la terzana e la quartana, sono provocati da due specie di plasmodio diverse: Plasmodium vivax, responsabile della terzana benigna, e Plasmodium malariae, responsabile della quartana. Nel 1889 dimostrò che gli attacchi febbrili si verificano nel momento in cui i merozoiti (stadio del ciclo del plasmodio) rompono i globuli rossi e si liberano nel circolo sanguigno. Gli accessi febbrili si manifestano nel momento in cui le cellule del parassita, riprodottesi all’interno del globulo rosso umano (fase di sporulazione), distruggono l’emazia, fenomeno che nella terzana avviene ogni 48 ore, nella quartana ogni 72; fuoriuscite nel plasma, si immettono in nuovi globuli rossi, aumentando il livello di infestazione. La precisa classificazione delle due specie, P. malariae e P. vivax si deve a Giovanni Battista Grassi (1854-1925) e al suo assistente Raimondo Feletti, mentre nel 1897, l’americano William H. Welch (1850 – 1934) descriverà il P. falciparum e infine nel 1922, John W. W. Stephens il P. ovale.

Dal punto di vista clinico, gli studi di Golgi permisero di formulare una diagnosi rapida e precisa della presenza della patologia e la somministrazione del chinino qualche ora prima dell'accesso febbrile permise di evitare la riproduzione del plasmodio, liberando il paziente dall’infezione. Nel 1894 Bignami e Bastianelli riprodussero i sintomi della malaria in un volontario sano, iniettandogli per via intradermica una goccia di sangue prelevato da un paziente malarico.

Bisognava comprendere come la malattia venisse trasmessa all’uomo; era questa la chiave per poter attuare un intervento preventivo efficace. Da tempo, in molti pensavano che le zanzare fossero in qualche modo coinvolte nella trasmissione della malattia; agli inizi del Settecento Giovanni Maria Lancisi aveva suggerito che fosse un liquido velenoso inoculato dalla zanzare a produrre le febbri e aveva consigliato di prosciugare le zone in cui vi era ristagno di acqua, luoghi ideali per lo sviluppo delle larve. Nel frattempo, si cominciavano a scoprire molte malattie trasmesse da invertebrati e in molti casi era stato individuato il ciclo completo di molti parassiti.

La scoperta più interessante per l’avanzamento delle indagini sulla malaria era stata fatta a Taiwan dal medico scozzese Patrick Manson (1844-1922), fondatore della medicina tropicale, che per la prima volta aveva verificato che una parassita, la filaria, poteva essere ospitato da un insetto, la zanzara Culex fatigans. Forte di questa scoperta, avanzò l’idea che qualcosa di simile avvenisse anche per il plasmodio: il globulo rosso protegge i parassiti dall’attacco dei globuli bianchi e può penetrare, quando questa punge l’uomo, nella zanzara, dove il parassita potrebbe completare il suo ciclo. Tornato nel Regno Unito, Manson divenne insegnante medico e consigliere del British Colonial Office; in questa veste, conobbe nel 1894 Ronald Ross (1857 – 1932), ufficiale medico dell’Indian Medical Service e pensò che questi, a contatto con zone dove la malaria era molto diffusa, avrebbe potuto trovare riscontri alla sua teoria. Fra Manson e Ross si stabilì una fitta corrispondenza: Manson insisteva perché l’amico “seguisse i flagelli” che si trovavano negli ammalati, nei tessuti delle zanzare, mentre Ross lo teneva informato dei suoi progressi.

Ma quali zanzare? Ross non era uno zoologo e le sue conoscenze sui vari generi di zanzara erano piuttosto approssimate: inizialmente ebbe anche difficoltà a fare le prime dissezioni sugli insetti e comunque non annotò con precisione su quali specie conducesse i suoi esperimenti. Andando alla cieca, rivolse le sue iniziali attenzioni su generi non coinvolti nell’infestazione (Aedes e Culex), come del resto stavano facendo negli stessi anni nei laboratori romani, non ottenendo risultati.

Nel frattempo, anche Grassi, Bignami e Celli stavano cercando di risolvere l’enigma; puntando sull’ipotesi dell’inoculazione, che stava acquistando sempre maggior credito rispetto a quella secondo cui stadi immaturi del parassita potevano essere presenti nel terreno, cercavano di trasmettere la malaria, facendo pungere da zanzare allevate in laboratorio individui malarici e poi liberando le stesse zanzare in stanze con volontari sani per verificare se in essi si sviluppasse la malattia; lavorando con le Culex, però, i risultati ottenuti erano sempre negativi. Nella primavera del 1898 Grassi intuì quale era stato l’errore in cui erano incorsi fino ad allora: non diverse specie di zanzare potevano disseminare la malattia, ma una sola.

L’idea di Grassi era semplice: dal momento che gli uomini si muovono nelle varie regioni italiane, mentre i luoghi malarici hanno una localizzazione costante, la causa della malattia deve essere legata soprattutto alla distribuzione di una determinata specie di zanzara nelle zone malariche, dato che zone con condizioni ambientali simili possono non presentare la malattia. Del resto, in Italia erano da tempo note zone infestate da zanzare, ma in cui la malaria non era presente. Nell’agosto del ‘98, Grassi aveva risolto il problema e identificato negli “zanzaroni” (Anopheles claviger) i vettori della malaria.


Naturalmente, completate le indagini biogeografiche, restava da verificare che effettivamente negli zanzaroni avviene una parte del ciclo del plasmodio. Grassi, allora, chiese aiuto a Bignami e Bastianelli, che accettarono di seguire il suo protocollo sperimentale; Grassi si sarebbe occupato di procurare gli zanzaroni, con cui sarebbero stati punti individui sani, mai vissuti in zone malariche. In novembre si fece l’esperimento fondamentale: un soggetto sano fu punto dalle zanzare sospette, sviluppò la malattia e guarì una volta che gli fu somministrato il chinino.

Del chinino, estratto dalla corteccia dell'albero della china di origine andina, erano note le proprietà antifebbrili sin dal Seicento. Antonio de la Calancha, un gesuita vissuto nel XVII secolo in Sud America, scrisse nel 1633 di un "albero che chiamano "l'albero della febbre" la cui corteccia trasformata in una polvere (...) e data come bevanda, guarisce le febbri e le terzane”. Il nome Inca di questo albero era quina, ma non ci sono prove che essi riconoscessero il suo valore per il trattamento della malaria, ma semplicemente la sua capacità di prevenire i brividi indotti dal freddo. Furono i missionari gesuiti i primi a usare la corteccia d'albero polverizzata per curare la malaria e così divenne nota come “polvere dei gesuiti”. Il cardinale Juan de Lugo ne aprì la strada all'uso a metà del XVII secolo a Roma. Nel 1742, Linneo gli diede il nome “chinchona”, probabilmente perché aveva sentito la leggenda della contessa di Chinchon, moglie del viceré spagnolo di Lima, che sarebbe stata guarita dalla malaria grazie all'uso della corteccia in polvere.


Nel corso dei decenni successivi furono fatti diversi tentativi per isolare un principio attivo puro dalla corteccia di china, ma tutti fallirono. Nel 1819 Friedrich Ferdinand Runge isolò quella che chiamò "base cinese", e un anno dopo Pierre-Joseph Pelletier e Joseph-Bienaimé Caventou estrassero una sostanza dalla corteccia della
Cinchona cordifolia con acido seguito da neutralizzazione con alcali e ottennero una sostanza identica alla “base cinese”, che chiamarono chinino. Campioni di questo alcaloide della china furono messi a disposizione dei medici negli ospedali di Parigi e presto molti di loro riferirono dell'efficacia del chinino come trattamento per la malaria.

Il problema fondamentale per i chimici che tentarono di isolare il principio attivo del chinino fu che esso fa parte di un gruppo di isomeri difficilmente distinguibili. Intorno al 1853, Louis Pasteur, trattò la polvere di Chinchona con acido solforico diluito, che diede un nuovo prodotto di degradazione che in seguito fu chiamato chinotossina. Il passo fondamentale per svelare la chimica alla base di questa degradazione fu infine compiuto nel 1908 dal chimico tedesco Paul Rabe, che ne dedusse correttamente la struttura. Il chinino è stato da tempo sostituito da farmaci sintetici meno tossici come la mepacrina (1932), la clorochina (1939), la primachina (1946), la meflochina (1979) e i derivati dell'artemisinina dalla pianta cinese Artemisia annua, ma è tuttora utilizzato come aroma alimentare nelle acque toniche e nella preparazione di vari aperitivi e digestivi.

Al chiudersi del 1898, però, molti erano ancora i problemi da risolvere: le diverse febbri malariche si sviluppano avendo come vettore la stessa specie di zanzara? Come e dove gli insetti si infettano? Solo nell’uomo o anche in altri animali si completa il ciclo di sviluppo del plasmodio? Tra il 1899 e il 1902 il gruppo romano dimostrò che il ciclo vitale del plasmodio si completa all’interno del corpo dell’insetto - in cui avviene la riproduzione sessuale -, mentre nell’uomo avviene la riproduzione asessuata. I ricercatori dimostrarono inoltre che le larve sono sempre immuni, e quindi la malattia non può essere ereditaria; solo le femmine di alcune specie di anofeli veicolano la malattia e se non esistono uomini affetti da malaria, la regione ne è esente.

Il governo italiano si mosse tempestivamente per promuovere interventi antimalarici, anche grazie all’elevato livello scientifico della compagine parlamentare, in cui erano presenti, sia fra i deputati che fra i senatori, medici, igienisti, esperti in malattie del lavoro; dalla fine degli anni Novanta a tutta l’età giolittiana, inoltre, anche il livello scientifico della burocrazia italiana era altissimo e collaborò all’impresa di risanamento in piena sintonia con i medici, che segnalavano una situazione drammatica. Angelo Celli, che era stato eletto alla Camera dei Deputati nel 1892, presentò agli inizi del Novecento una proposta di legge molto articolata e moderna. Per parte sua, il medico e istologo Giulio Bizzozero (1846-1901), mentore e maestro di Golgi, nominato in Senato nel 1890, nel suo intervento sulla proposta sottolineò come il chinino non fosse soltanto un mezzo di cura, ma dovesse anche essere utilizzato per prevenire la malattia: dato che la malaria viene trasmessa da una persona all’altra per mezzo delle zanzare, che ricevono il parassita da un malato e lo immettono in un altro, il soggetto malarico è pericoloso come qualunque persona affetta da malattia infettiva, per cui spetta allo Stato predisporre i mezzi per impedire il contagio. Lo stesso Grassi intervenne in molti suoi scritti, definendo il chinino indispensabile alle popolazioni delle zone malariche come l’acqua e l’aria; la sua somministrazione, dunque, doveva essere fornita gratuitamente.

Si rendeva necessario che lo Stato assumesse il monopolio di produzione del farmaco in modo da evitare abusi da parte di eventuali speculatori; per rendere facile l'acquisto del prezioso medicinale anche nei territori più isolati e arretrati, doveva essere venduto non soltanto nelle farmacie, ma anche presso gli spacci di sali e tabacchi; la cosa sollevò le proteste della potente categoria dei farmacisti, ma le insistenze dei medici ricercatori fecero sì che ottenesse l’approvazione del parlamento. Il chinino, inoltre, sarebbe stato distribuito a prezzo di favore alle pubbliche amministrazioni e alle imprese a rischio, purché venisse somministrato gratuitamente ai dipendenti; il suo prezzo sarebbe stato contenuto e i proventi per la sua vendita sarebbero stati reinvestiti per la battaglia antimalarica.

Nel disegno di legge passò l’idea che la cura con il chinino era un vero e proprio rimedio sociale e pertanto doveva essere distribuito gratuitamente per mezzo del medico comunale o uno specifico ufficiale sanitario e a tale proposito in seguito si decise che i comuni potessero consorziarsi per il mantenimento degli ufficiali sanitari. La malaria contratta nei luoghi di lavoro, nel caso che procurasse morte o inabilità, doveva essere considerata alla stessa stregua di un infortunio sul lavoro; i proprietari terrieri erano invitati a utilizzare le reticelle metalliche, per impedire alle Anopheles di penetrare nelle abitazioni e si stanziavano sussidi per coloro che avrebbero provveduto in tal senso; le reticelle, comunque dovevano essere presenti, nelle zone malariche, nelle stanze occupate dalle guardie di finanza, del personale addetto alle strade, nei locali per il servizio ferroviario e in quelli dei consorzi di bonifica. In realtà, in un territorio dove molte famiglie vivevano ancora in capanne di frasche e fango, sprovviste di finestre, le zanzariere erano improponibili (quando non venivano usate impropriamente per passare il pomodoro per la salsa o per rudimentali grill). Il trattamento con il chinino sembrava la via più facile e diretta per eradicare il morbo.

Al chiudersi del secolo, il governo operò in due direzioni: mise a punto leggi che proseguivano quanto già iniziato a partire dagli anni Ottanta per favorire il risanamento del territorio nazionale attraverso mezzi tecnico-idraulici e agronomici, e promosse l’uso del chinino, non solo come cura, ma anche per la prevenzione dell’infestazione.

La legge sul chinino di Stato fu approvata il 4 luglio 1895 grazie all'iniziativa parlamentare del deputato ed editore Federico Garlanda. Al deputato padovano Leone Wollemborg, fondatore della prima cassa rurale italiana, si deve la legge "Provvedimenti per agevolare lo smercio del chinino" del 23 dicembre 1900.


Su espressa richiesta parlamentare di Celli, la produzione di chinino venne affidata alla Farmacia centrale militare di Torino, che si approvvigionava annualmente di solfato di chinina per produrre tavolette compresse, poi distribuite nelle farmacie e negli spacci. La vendita al pubblico su tutto il territorio nazionale iniziò a partire dal 1903 e, dal momento che la malaria era stata definita malattia professionale, fu fatto obbligo ai datori di lavoro (proprietari terrieri, aziende ferroviarie, appaltatori di opere pubbliche che si svolgevano in territori malsani) di pagare una tassa proporzionale al numero di dipendenti; in questo modo fu sancito il principio del diritto dei poveri e degli operai ad avere gratuitamente il chinino profilattico e curativo. Spettava ai comuni promuovere nei loro territori la campagna antimalarica e far sì che fossero presenti strutture sanitarie idonee per la somministrazione del farmaco. Molti, fra cui lo stesso Grassi, avrebbero preferito che le spese per il consumo e la somministrazione del chinino fossero sostenute dallo Stato, mentre Celli, conscio delle resistenze che questa decisione avrebbe provocato, mediò fra le diverse esigenze. Lo Stato emanò anche precise disposizioni - del resto già presenti a partire dal 1865 - che imponevano ai proprietari terrieri di intervenire con lavori di scolo, di bonifica e miglioria dei terreni, assicurando ai proprietari dei terreni bonificati l’esenzione dall’imposta fondiaria per vent’anni.

La campagna, partita con tanto entusiasmo, si trovò di fronte a difficoltà insormontabili, legate soprattutto al fatto che moltissimi comuni, soprattutto nel Sud, non potevano fornire un servizio adeguato perché non erano finanziariamente in grado di assumere personale specializzato, o retribuivano con salari talmente bassi i medici condotti, che essi erano costretti a esercitare anche la libera professione, dedicando ben poco tempo alla campagna antimalarica. La popolazione, inoltre, era dispersa su ampi territori, per cui raggiungere i pazienti malati era estremamente difficile e i contagiati, per parte loro, difficilmente si recavano dal medico, sia perché il tragitto era troppo lungo, sia perché non avevano fiducia nella terapia.

Si decise allora di ricorrere all’istituzione di una “stazione sanitaria rurale” (dispensario) che aveva il compito di raccogliere dati statistici sull’entità del problema: doveva verificare quanti erano nella zona le persone infette e quante quelle sane, attraverso il prelievo e l’esame di campioni di sangue, per stabilire quale tipo di infestazione fosse stata contratta e poi decidere come e quando somministrare l’adeguata terapia preventiva o curativa. La stazione sanitaria era spesso affiancata da distaccamenti mobili che battevano la zona alla ricerca della popolazione da esaminare. Nei dispensari lavoravano spesso giovani medici, convinti sostenitori delle teorie di Celli e Grassi che ben presto si resero conto che perché la campagna antimalarica giungesse a buon fine era necessario convincere i contadini e gli operai, e per far questo era fondamentale rendersi utili in modo più diretto, curando altre malattie e consigliando semplici norme igieniche.

Grazie a questi provvedimenti, la mortalità a causa della malaria calò drasticamente, passando da circa 16.000 vittime nel 1895 a 7.838 decessi nel 1905.


Nel primo decennio del ventesimo secolo furono promulgati ben ventidue provvedimenti legislativi che affrontarono il modo per attuare efficacemente le opere di bonifica; dalla lettura dei provvedimenti, emerge come i legislatori fossero sensibili alle conseguenze igienico sanitarie di tali interventi.

Prima dello scoppio della guerra, in molte province italiane la malaria sembrava finalmente controllabile: a fronte di una mortalità di 490 individui ogni milione di abitanti nel 1900, si giunse nel 1914 a 57 morti, anche se i dati erano approssimati per difetto, in quanto spesso, per esempio, la mortalità infantile non veniva registrata e inoltre non si teneva conto delle persone che la malaria rendeva inabili al lavoro, numero non diminuito nel tempo. Lo scoppio della prima guerra mondiale, con i soldati al fronte in zone paludose e malariche, favorì un riacutizzarsi del morbo. Dopo la disfatta di Caporetto, gli austriaci che dal 1917 erano nelle aree del Piave, con la volontà di ostacolare il passaggio all'esercito italiano nel 1918 al loro ritiro lasciarono dietro di sé ingenti danni: nel basso Piave, dove era stata debellata la malaria, per 1/3 si ebbe una recrudescenza.

Con l'avvento al governo del Partito Nazionale Fascista la lotta per la bonifica divenne nella propaganda la bellicosa "guerra alle acque”, ma, pur favorendo i grandi investimenti, la bonifica agraria entrò in contrasto con il sistema feudale del latifondo. Le proteste dei latifondisti meridionali, che furono anche ricevuti da Mussolini, ottennero le provvisorie dimissioni del sottosegretario all'agricoltura Serpieri e la limitazione delle sanzioni sugli espropri. Continuava anche il contrasto alla malaria: per intervento diretto di Mussolini veniva autorizzata la sperimentazione sulle persone di nuove terapie. Giacomo Peroni e Onofrio Cirillo operarono su duemila operai dell'Opera Nazionale Combattenti in Toscana e Puglia, separati in due gruppi di studio. Nel primo fu sospesa ogni cura con il chinino per osservarne il decorso, mentre il secondo era trattato con iniezioni intramuscolari di "smalarina" (farmaco antimalarico a base di sali di mercurio e antimonio messo a punto dal medico sardo Guido Cremonese, docente di igiene alla regia università di Roma). L'esperimento, che si basava sulla constatazione che le persone curate per la sifilide non si ammalano di malaria (e soprattutto sul fatto che il commercio mondiale del chinino era controllato dagli olandesi) fu concluso nel 1929 dichiarando risultati positivi, ma un nuovo esame del Consiglio superiore di sanità su 395 persone in Sardegna ne sancì la tossicità.

Zone di endemismo malarico sono rimaste in Italia sino agli anni Sessanta dello scorso secolo, lungo delta del Po, in Sardegna e nell’Agro Pontino. Solo l’introduzione del controverso DDT dopo la Seconda guerra mondiale ha portato al totale sradicamento di questa malattia in Italia, nel resto d’Europa, negli Stati Uniti e negli altri paesi industrializzati. Nei paesi più poveri è tuttora responsabile di centinaia di migliaia di morti.

giovedì 7 marzo 2024

Beppo Levi, tra Torino, gli Appennini e le Ande

 


Beppo Levi (1875-1961) è stato un matematico autore di articoli su logica, equazioni differenziali, variabili complesse, sul confine tra analisi e fisica.

La famiglia di Beppo Levi era ebrea, e Beppo era il quarto di dieci figli. Il padre, Giulio Giacomo Levi, esercitava la professione di avvocato, ma fu anche autore di diversi libri su questioni politiche e sociali in cui manifestava le sue idee liberali messe in discussione dal nascente socialismo.

Studiò matematica all'Università di Torino, iniziando gli studi nel 1892. Frequentò i corsi tenuti da Corrado Segre, Enrico D'Ovidio e Giuseppe Peano, e questi matematici ebbero una grande influenza su di lui. Per tutti conservò un profondo affetto per il resto della sua vita.

Ebbe come maestri anche Vito Volterra e Mario Pieri. Corrado Segre, che aveva studiato a Torino con D'Ovidio, era stato nominato nel capoluogo piemontese alla cattedra di Geometria Superiore nel 1888. Divenne relatore della tesi di Levi,. Studió “...la varietà delle secanti delle curve algebriche, in vista dello studio delle singolarità delle curve spaziali”. Sono del 1897 e del 1898 una sua ampia memoria pubblicata dall'Accademia delle Scienze di Torino «Sulla varietà delle corde di una curva algebrica» e alcune note dei Rendiconti dei Lincei, in cui fra l'altro viene dimostrata la possibilità di mutare una data curva algebrica sghemba in un'altra priva di singolarità puntuali per mezzo di trasformazioni birazionali dello spazio e viene studiata la riduzione delle singolarità di una superficie algebrica mediante successive trasformazioni quadratiche. Ancora giovanissimo, Beppo Levi conquistò così un posto d'onore nel campo della geometria algebrica.

Negli ultimi tre anni di studio all'Università di Torino, Levi era sostenuto da una borsa di studio. Laureatosi nel luglio 1896, Levi fu nominato assistente di Luigi Berzolari a Torino e mantenne questo incarico fino al 1899. Suo padre era morto nel 1898 e questo diede a Levi la responsabilità di capofamiglia (era il figlio maggiore superstite). Per mantenere se stesso e gli altri membri della famiglia, assunse diversi incarichi di insegnante nelle scuole superiori. Insegnò prima a Sassari, poi a Bari, passando poi a Vercelli prima di insegnare in Emilia-Romagna, prima a Bobbio poi a Piacenza. Alcuni di questi incarichi lo portavano lontano dalla sua famiglia, cosa che lo angosciava e cercava di trovare lavoro più vicino alla sua città natale. Ritornò a Torino, dove insegnò all'Istituto Tecnico fino al 1906 quando il suo incarico venne reso permanente.

Durante questi sette anni come insegnante, Levi aveva tentato di ottenere diversi incarichi universitari ma senza riuscirci. Nel 1901, ad esempio, partecipò al concorso per la cattedra dell'Università di Torino indetto da Luigi Berzolari. In questa competizione arrivò terzo: il posto andò a Gino Fano.

Nel 1906 vinse il concorso per la nomina a professore di Geometria descrittiva e proiettiva all'Università di Cagliari. Mentre era sull’isola, Levi realizzò un lavoro eccezionale sull'aritmetica delle curve ellittiche che pubblicò in quattro articoli intitolati “Saggio per una teoria aritmetica delle forme cubiche ternarie” (un articolo nel 1906 e tre nel 1908). Riferì di questo lavoro nella conferenza “Sull'equazione indeterminata del terzo ordine” al Congresso Internazionale dei Matematici di Roma nel 1908. Rimase a Cagliari, insegnando geometria analitica, per quattro anni finché fu chiamato alla cattedra di analisi algebrica presso l'Università di Parma nel 1910. Mentre era a Cagliari, Levi aveva sposato Albina Bachi di Torre Pellice in Piemonte. Albina, come Levi, era ebrea; ebbero tre figli, Giulio, Laura ed Emilia. Anche se per Albina “...Cagliari era una località esotica; per lui era troppo lontano dalla sua famiglia”.

L'anno in cui Levi lasciò Cagliari era stato promosso a professore ordinario, ma era così ansioso di andarsene che era pronto ad accettare un posto inferiore a Parma, in un'università che non aveva il corso di matematica. Mario Pieri, però, che era stato uno dei maestri di Levi a Torino, era a Parma e desiderava che il suo ex allievo lo raggiungesse lì. Una volta a Parma (dal 1910), Pieri divenne l'amico più intimo di Levi. Trascorse diciotto anni a Parma impegnandosi notevolmente nello sviluppo scientifico dell'Università con una serie di politiche che produssero ottimi risultati. Levi occupò, oltre alla cattedra di Analisi algebrica, anche quella di Geometria analitica e, per un anno, anche quella di Fisica matematica. Ciò significava che il suo carico di lavoro era estremamente pesante. Tuttavia fece sforzi strenui per far sì che il corso di laurea in matematica si stabilisse a Parma e ottenne l'approvazione del rettore per tale scopo. Purtroppo, lo scoppio della prima guerra mondiale e l'entrata in conflitto dell'Italia nell'aprile 1915, impedirono la realizzazione dei piani di Levi. La guerra vide una tragedia colpire la famiglia Levi, poiché i suoi due fratelli Decio ed Eugenio furono entrambi uccisi in azione nel 1917.

Dopo la fine della guerra, Levi rinnovò i suoi sforzi per ottenere il corso di matematica a Parma. La sua posizione si rafforzò quando divenne presidente della Facoltà di Scienze. Tuttavia, negli anni '20, la situazione politica in Italia cominciò a rendere il suo lavoro sempre più difficile, incidendo seriamente sui suoi tentativi di migliorare lo status di Parma. Giovanni Gentile, professore di storia della filosofia all'Università di Roma nel 1917, divenne ministro dell'istruzione nel governo fascista italiano nel 1922 e nei due anni successivi portò avanti importanti riforme dell’istruzione. Gentile organizzò nel marzo 1925 a Bologna il primo Congresso delle Istituzioni Culturali Fasciste che portò in aprile al "manifesto Gentile" che cercava l'appoggio degli intellettuali al fascismo. Due matematici, Corrado Gini e Salvatore Pincherle, appoggiarono il manifesto mentre altri redassero un contro-manifesto sostenendo l'indipendenza degli intellettuali dalle interferenze politiche. Levi firmò il contromanifesto, così come Leonida Tonelli, Vito Volterra, Guido Castelnuovo, Tullio Levi-Civita e Francesco Severi. Tuttavia, le riforme fasciste continuarono, portando alla chiusura del corso di matematica presso l'Università di Parma. Tutti i matematici se ne andarono tranne Levi, che divenne professore di matematica speciale e preside della scuola di chimica. Nel 1928, però, nell'ambito della riforma fascista venne chiusa anche la scuola di chimica di Parma.

Nonostante queste estreme difficoltà, gli anni di Levi a Parma furono quelli in cui aveva ampliato la già ampia gamma dei suoi campi di ricerca. Prima di recarsi a Parma aveva già pubblicato oltre quaranta articoli su argomenti che spaziavano dalla geometria algebrica alla logica, lavorando in particolare sull'assioma della scelta.

Aveva studiato inoltre la teoria dell'integrazione, le equazioni differenziali alle derivate parziali e il principio di Dirichlet, producendo il "teorema di Beppo Levi", o della convergenza monotona di sequenze di funzioni misurabili, che permette di passare con il limite dentro il segno di integrale quando la successione di funzioni integrate è puntualmente crescente. Il teorema implica in particolare che possiamo calcolare l’integrale di una funzione positiva e misurabile come limite di una successione crescente di integrali di funzioni semplici. Quindi non solo come estremo superiore di integrali di funzioni semplici dominati da f. Data una funzione misurabile positiva, esiste sempre una successione crescente di funzioni semplici che converge a f.


Levi si interessò anche di storia della scienza e di fisica: in quest'ultimo ambito, è da ricordare, in particolare, la sua breve monografia
Nuove teorie della meccanica quantistica e le loro relazioni con l'analisi matematica (1926). A questa già ampia gamma di lavori, aggiunse contributi ad argomenti come la teoria dei numeri, l'ingegneria elettrica, la teoria delle misurazioni fisiche e la fisica teorica. Nel 1928 lasciò Parma e passò alla cattedra di teoria delle funzioni dell'Università di Bologna, dove ebbe un oneroso carico didattico e amministrativo, ma continuò a intraprendere la ricerca con le stesse passioni che aveva coltivato per tutta la vita. Scrisse articoli sulla logica, sulle equazioni differenziali, sulle variabili complesse, nonché sul confine tra analisi e fisica. Ebbe anche un ruolo significativo nella Unione Matematica Italiana come redattore del Bollettino dell'Unione Matematica Italiana e direttore dal 1931 al 1938. Per molti versi le cose andarono bene per Levi a Bologna: sua figlia Laura iniziò il dottorato in fisica, ebbe ottimi rapporti con Salvatore Pincherle, allora in pensione ma ancora attivo, e nel 1935 fu eletto alla Reale Accademia dei Lincei.

Nonostante il suo odio per il fascismo, Levi aveva firmato il "giuramento al fascismo" nel 1931 insieme a circa 1200 altri matematici (solo undici si rifiutarono di firmare). Forse anche per questo, per diversi anni poté svolgere le sue funzioni a Bologna con poche interferenze politiche. La situazione cambiò radicalmente nel luglio 1938 quando, sotto la pressione di Hitler, Mussolini presentò il Manifesto della Razza. Questa legge era totalmente antisemita, togliendo la cittadinanza italiana agli ebrei e vietando loro di lavorare nel campo dell’istruzione, del governo e delle banche. Ciò provocò la destituzione di Levi dal suo incarico a Bologna nel 1938. Aveva preso contatti con diversi matematici argentini attraverso il suo lavoro di redattore del Bollettino e, nonostante avesse sessantatré anni, iniziò subito a cercare di negoziare un trasferimento in Argentina. Cortés Plá invitò Levi a dirigere l'istituto di matematica recentemente fondato presso l'Università del Litoral di Rosario. Nell'ottobre del 1939 Levi, con la moglie e le due figlie, lasciò l'Italia ed emigrò in Argentina. In questo periodo emigrò in Palestina il figlio Giulio, che era biologo. Sorprendentemente, sebbene Levi avesse 64 anni quando assunse l'incarico di professore e direttore dell'Istituto di Rosario, poté continuare a insegnare, intraprendere ricerche e svolgere compiti amministrativi per altri 20 anni. Oltre a tenere corsi di analisi, geometria e meccanica razionale, fu molto attivo nella ricerca, pubblicando circa un terzo dei suoi lavori in spagnolo. Fondò la rivista Mathematicae Notae, la collana Publicaciones del Instituto de matemáticas e la serie di libri Monografias. Pubblicò “Sistemas de ecuaciones analiticas en terminos finitos, diferenciales y en derivadas parciales" (1944), un’esposizione scritta in modo chiaro dei teoremi fondamentali dell’esistenza dei sistemi di equazioni differenziali alle derivate parziali analitiche, insieme al necessario materiale preliminare sulle funzioni implicite e sulle equazioni differenziali ordinarie.

Nel 1947 Levi pubblicò “Leyendo a Euclides” (Leggere Euclide).LM Blumenthal scrive in una recensione:

“Questo simpatico libricino registra in modo informale alcuni pensieri di un matematico scaturiti dalla lettura degli 'Elementi' di Euclide. Sebbene l’autore neghi qualsiasi intenzione di scrivere uno studio storico serio o una critica moderna di Euclide, nel libro c’è molto di entrambi”

Nel 1956 Levi ricevette il Premio Antonio Feltrinelli dell'Accademia dei Lincei.

A Levi era stata offerta la possibilità di tornare alla sua cattedra a Bologna dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma scelse di restare in Argentina. Levi e sua moglie Albina fecero molte visite in Italia dopo essere emigrati in Argentina, e fu in Italia che Albina morì nel 1951. Morì a Rosario all'età di 86 anni e lì fu sepolto nel cimitero ebraico.

mercoledì 2 agosto 2023

Elio Pagliarani, tra fisica e poesia

 


Quasi sessant’anni fa, nel 1964, il poeta Elio Pagliarani pubblicò l’opera Lezione di fisica, smentendo i profeti della separazione tra le “due culture”.

La guerra fredda e l’atomica

La cronaca degli anni in cui il poeta riminese Elio Pagliarani (1927-2012) raggiunse la maturità artistica era dominata dalla guerra fredda e dalla minaccia di un conflitto nucleare. All’inizio degli anni ’60 del Novecento, si accavallavano infatti le notizie allarmanti di test nucleari sovietici, statunitensi e britannici, e la minaccia atomica era sentita come una realtà da entrambi i lati della cosiddetta “cortina di ferro”.

Poeta, critico teatrale, saggista, Pagliarani rappresenta un caso particolare dell’esperienza delle avanguardie italiane. La sua opera è libera dal lirismo o dall’ermetismo; la sua vocazione è piuttosto cronachistica (si è parlato di poesia-racconto), con particolare interesse al quotidiano del mondo proletario. Esponente del Gruppo ‘63 con Eco, Sanguineti, Balestrini, Arbasino, Guglielmi e altri intellettuali, Pagliarani scrisse Lezione di fisica [1] come compimento della sua esperienza di giornalista maturata sulle pagine dell’Avanti, che sarebbe poi continuata su Paese Sera.

Proprio sul quotidiano socialista pubblicò il 21 maggio 1957 i versi che per la prima volta legavano il tema “atomico” e quello amoroso.

È difficile amare in primavere 
come questa che a Brera i contatori 
 Geiger denunciano carica di pioggia 
 radioattiva perché le hacca esplodono 
 nel Nevada in Siberia sul Pacifico 
e angoscia collettiva sulla terra 
non esplode in giustizia. 
Potrò amarti 
dell’amore virile che mi tocca, e riempirti 
 se minaccia l’uomo 
sé nel suo genere? O trasferisco in pubblico stridore
che è solo nostro, anzi tuo e mio?

Lo sperimentalismo del poeta romagnolo è la presa di coscienza di una nuova funzione dello scrivere versi. Pagliarani cerca una proiezione, appunto sperimentale, verso un futuro che rinnovi la fiducia nell’atto poetico. Il ruolo del poeta è difficile perché la pressione della realtà moderna è ampia e complessa, contraddittoria, e in definitiva violenta. Tutte le grandi “verità assodate” sono state negate e viviamo in un intrico di mitologie nuove e locali, politiche, economiche, sociali, che si affermano con un’incoerenza sempre più ampia.

Il poeta è in questo contesto chiamato a dare un significato al nostro “rimanere umani”, anche attraverso l’esposizione, la negazione e la denuncia delle finzioni della dimensione culturale dell’epoca, senza contribuire a comporle.


Il corpo nero

Lezione di fisica, uno dei capolavori di Pagliarani, unisce temi privati e pubblici utilizzando materiali estratti dal linguaggio scientifico, e rapidi scorci psicologici o sociopolitici, attraverso una tecnica in cui l’accavallarsi di linguaggi e inserti provenienti da vari ambiti è volutamente, come scrisse lui stesso, “stridente”. Il testo, nella forma di una lettera alla donna amata («a Elena»), inizia come se fosse l’incipit di una biografia. L’avvio è contrassegnato dallo straniamento del dialogo amoroso tramite continui riferimenti alla meccanica quantistica: «Cominciò studiando il corpo nero / Max Planck all’inizio del secolo [...] / le radiazioni del corpo nero nella memoria del 14 dicembre 1900».

Lo studio del corpo nero è stato cruciale per lo sviluppo della meccanica quantistica. In fisica un corpo nero è un oggetto ideale che assorbe tutta la radiazione elettromagnetica incidente senza rifletterla. Assorbendo tutta l’energia incidente, per la legge di conservazione dell’energia, il corpo nero è comunque in grado di emettere radiazione elettromagnetica. Lo “spettro di corpo nero” (cioè la distribuzione dell’irradiamento, che è funzione della lunghezza d’onda o della frequenza) dipende unicamente dalla sua temperatura e non dalla materia che lo compone.

Negli esperimenti in laboratorio, un corpo nero è costituito da un oggetto cavo mantenuto a temperatura costante, le cui pareti assorbono ed emettono con tinuamente radiazioni su tutte le possibili lunghezze d’onda dello spettro elettromagnetico. Tuttavia, applicando le equazioni di Maxwell alle radiazioni emesse e assorbite dalle pareti, risulta che, al diminuire della lunghezza d’onda, si ottengono valori di intensità di irraggiamento che tendono all’infinito, in contraddizione con i dati sperimentali, secondo cui per lunghezze d’onda inferiori a un valore massimo, la potenza irradiata dal corpo nero scende rapidamente a zero.

Lo spettro di un corpo nero venne correttamente interpretato per la prima volta da Max Planck, il quale ipotizzò che gli atomi delle pareti interne del corpo nero assorbissero ed emettessero energia in maniera discreta, cioè che gli scambi di energia con il campo elettromagnetico avvenissero attraverso il passaggio di “pacchetti di energia”, da lui chiamati “quanti”. La data citata da Pagliarani si riferisce al giorno in cui Planck presentò la dimostrazione della formula E = hν della radiazione elettromagnetica (dove E è l’energia scambiata, h è la costante di Planck e ν è la frequenza della radiazione). Introducendo l’ipotesi dei quanti, Planck verificò che i calcoli teorici combaciavano con i dati sperimentali.

Durante gli anni immediatamente successivi, non si ottennero risultati significativi in ambito quantistico. Quanto alla proprietà cruciale che l’energia non varia con continuità, ma secondo valori discreti, Planck stesso credette per lungo tempo che fosse un artificio matematico che non si riferiva ai reali scambi di energia tra materia e radiazione.

Fu poi Albert Einstein nel 1905 a riprendere la teoria dei quanti nell’ambito dei suoi studi sull'effetto fotoelettrico, per spiegare l’emissione di elettroni dalla superficie di un metallo colpito da radiazione elettromagnetica (un altro effetto non spiegabile con la teoria ondulatoria di Maxwell). Secondo Einstein, non solo gli atomi emettono e assorbono energia per “pacchetti finiti” (come aveva proposto Planck), ma è la stessa radiazione elettromagnetica a essere costituita da quanti di luce, poi denominati fotoni nel 1926: «la luce / è una gragnuola di quanti» scrive Pagliarani. In altri termini, poiché la radiazione elettromagnetica è quantizzata, l’energia non è distribuita in modo continuo sull’intero fronte dell’onda elettromagnetica, ma concentrata in pacchetti di energia, i fotoni.

Fisica dei quanti e particelle elementari

Pagliarani prosegue con altri riferimenti alla meccanica quantistica, quello alla “scuola di Copenaghen”, a de Broglie e al principio di indeterminazione di Heisenberg: «Se si vuol sapere se A è causa dell’effetto di B / se il microggetto in sé è in conoscibile / se l’onda di Broglie per i fisici di Copenaghen / non è altro che l’espressione fisica della probabilità posseduta».

Nel 1924, il fisico francese Louis de Broglie pensò che, se la luce può comportarsi sia come onda sia come corpuscolo, allora una particella, ad esempio l’elettrone, potrebbe comportarsi anche come un’onda. Egli propose dunque la relazione: λ = h/p, dove p è la quantità di moto della particella considerata e λ prende il nome di lunghezza d’onda di de Broglie.

Sulla scia di tali risultati, Erwin Schrödinger andò alla ricerca di un’equazione che descrivesse il propagarsi dell’onda di materia, e nel 1925 propose un’equazione differenziale le cui soluzioni, le funzioni d’onda, restituivano quei numeri quantici cruciali per la risoluzione della struttura atomica di un elemento. L’equazione di Schrödinger era inoltre in grado di descrivere l’evoluzione di una particella libera.

Nel 1925, infine, Max Born, con Werner Heisenberg e Pascual Jordan, elaborò la prima formulazione completa della meccanica quantistica. L’evoluzione di un sistema quantistico, descritta da Schrödinger con la funzione d’onda, non è deterministica, bensì probabilistica, cioè dice qual è la probabilità di trovare l’elettrone in una certa posizione intorno al nucleo di un atomo, ma non offre alcuna certezza assoluta su dove trovarlo.

Nel 1927, Werner Heisenberg dimostrò che non è possibile conoscere con precisione assoluta due parametri accoppiati, come la quantità di moto e la posizione di una particella: è il principio di indeterminazione. In sostanza, non possiamo conoscere i dettagli di un sistema senza perturbarlo, e l’atto stesso di misura influenza il risultato, o nelle parole di Pagliarani, «non si può aver studio di un oggetto / senza modificarlo / la luce che piomba sull’elettrone per illuminarlo».

Su queste basi nacque e si affermò una corrente predominante tra i fisici quantistici, la cosiddetta "interpretazione di Copenaghen”, che ebbe in Niels Bohr il suo principale esponente. Albert Einstein, lo stesso Schrödinger e de Broglie erano scettici sulla validità di questa interpretazione. Essi pensavano che la meccanica quantistica, per quanto di straordinaria precisione, fosse incompleta, e che ci fossero delle “variabili nascoste” in grado di portare a una visione meno problematica, più vicina alla fisica classica. Einstein decise, allora, di scrivere una lettera a Bohr nella quale compare la famosa frase su Dio che «non gioca a dadi» con l’Universo: «Poi la teoria dell’onda pilota e quella, così cara al nostro tempo / della doppia soluzione, e se esiste il microggetto in sé, se la materia può risponderci con un comportamento statistico / Dio gioca ai dadi / con l’universo? E se la terra / ne dimostrasse il terrore?» scrive ancora Pagliarani nella Lezione di fisica.

La lettera di Einstein

Pagliarani abbandona temporaneamente il lungo riferimento alla storia della teoria dei quanti (cronologicamente si ferma all’inizio degli anni ’30) per introdurre il problema di stretta attualità all’epoca in cui scriveva: la questione delle armi atomiche («Perciò l’atomica / per la legge dei grandi numeri la probabilità tende alla / certezza / Perciò l’atomica»).

La lezione di fisica diventa lezione di storia. Lo scenario è la lettera che Albert Einstein inviò al Presidente americano Franklin Delano Roosevelt per sottolineare il pericolo della ricerca nucleare nazista: «te lo immagini quando dovette prendere la penna / scrivendo a Roosevelt “Caro presidente facciamola / l’atomica, sennò i nazi”».

La notizia, all’inizio del 1939, che gli scienziati tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann avevano scoperto la fissione nucleare fece temere che la Germania potesse sviluppare una bomba atomica. Il fisico Leó Szilárd presto si mise in contatto con i colleghi Edward Teller ed Eugene Wigner per pianificare una risposta appropriata. Come ricordò Szilárd, la loro principale preoccupazione era «cosa sarebbe successo se i tedeschi si fossero impossessati di grandi quantità di uranio che i belgi stavano estraendo in Congo».

I tre fisici decisero che, poiché Albert Einstein conosceva la regina del Belgio, sarebbe stato la persona ideale per avvertire della minaccia tedesca. Szilárd e Wigner incontrarono Einstein all’inizio di luglio a Long Island, dove era in vacanza. Sebbene lui non fosse disposto a contattare direttamente la regina, accettò di scrivere una lettera all’ambasciatore del Belgio e stese una prima bozza.

Poco dopo, Szilárd parlò anche con l’economista Alexander Sachs, il quale si raccomandò che scrivessero pure al Presidente Roosevelt, suo intimo amico.

Finalmente, l’11 ottobre 1939 (nel frattempo era iniziata la guerra in Europa), Sachs incontrò il Presidente Roosevelt per consegnargli la lettera che Einstein, noto pacifista, preoccupato però dai possibili sviluppi della ricerca nazista, aveva scritto. Eccone il passaggio saliente:
“Nel corso degli ultimi quattro mesi è stata dimostrata, attraverso i lavori di Joliot in Francia e di Fermi e Szilárd in America, la possibilità e la probabilità di innestare in una ingente massa di uranio reazioni nucleari a catena attraverso le quali sarebbero generate notevoli disponibilità di energia e vaste quantità di elementi radioattivi nuovi. Ora, appare quasi certo che ciò potrebbe essere ottenuto nel futuro immediato. Questo nuovo fenomeno condurrebbe anche alla costruzione di bombe ed è concepibile – benché assai meno certo – che in questo modo si possano costruire bombe di tipo nuovo estremamente potenti [...].”
La lettera a Roosevelt cambiò il corso della storia, stimolando il coinvolgimento del governo americano nella ricerca nucleare. Essa portò alla creazione del Progetto Manhattan. Nell’estate del 1945, gli Stati Uniti avrebbero costruito la prima bomba atomica del mondo e l’avrebbero utilizzata per distruggere due città giapponesi, con centinaia di migliaia di vittime.

Einstein non lavorò mai al Progetto Manhattan a causa delle sue convinzioni pacifiste. In seguito, ebbe dei dubbi sul suo ruolo, affermando: «Se avessi saputo che i tedeschi non sarebbero riusciti a sviluppare una bomba atomica, non avrei fatto nulla».


L’equilibrio del terrore

Sconfitti i nazisti, inizia la guerra fredda tra le potenze vincitrici sulla Germania, e l’energia atomica diventa la minaccia universale. La bomba atomica crea una nuova realtà politica, nella quale due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, avevano la capacità di annichilire tutta la vita sulla Terra.

Vi fu chi, tuttavia, studiò l’ipotesi di un attacco preventivo, per valutarne i pro e i contro. Edward Teller, nel frattempo diventato il “padre della bomba all’idrogeno” (il primo test fu effettuato nell’atollo di Bikini nel luglio 1954), sosteneva, durante la presidenza di Eisenhower, che sarebbe stato impossibile mantenere e monitorare un divieto di test nucleari con un nemico subdolo come i sovietici.

Meno “politico” e più tecnico fu il ruolo del fisico Herman Kahn, che durante la guerra fredda sviluppò diverse strategie per contemplare l’ipotesi della guerra nucleare, utilizzando applicazioni della teoria dei giochi e di quella dei sistemi all’economia e alla strategia militare. Queste considerazioni erano contenute nell’articolo del 1960 La natura e la fattibilità della guerra e della deterrenza [2]

Lo studio conteneva, asetticamente, anche stime del numero di vittime sul suolo americano, dirette e indirette, di un’eventuale guerra nucleare. Continua Pagliarani: «Herman Kahn ha già fatto la tabella / delle possibili condizioni postbelliche, sicché 160 milioni di decessi in casa sua / non sarebbero la fine della civiltà [...], egli scrive un ulteriore problema, / quello cioè se i sopravvissuti avranno buone ragioni / per invidiare i morti».


La possibilità della gioia

In questo scenario, Pagliarani analizza la possibilità della gioia. Il cortocircuito è dato dall’accostamento al panorama, terrificante e immobile, di un soprassalto vitalistico, ludico ed erotico: «Quanta gioia mi dai quando ti stufi / di me, quando mi dici se scriverai di me dirai di gioia / e che sia gioia attiva, trionfante [...] L’odore delle erbe di campagna [...] / vino rosso / capriole con lancio di cuscini / nella mia stanza». È una reazione istintiva, quella rappresentata da questa gioia; le capriole sono segni della «voglia / di riassuefarci alla gioia, affermare la vita col canto» che però l’autore considera vana. L’io narrante della lettera non lo può fare.

Pagliarani sa che con l’innovazione costante della conoscenza e dei suoi paradigmi anche il nulla è rimosso: «e invece non ci basta nemmeno dire no che salva solo l’anima». Bisogna, con difficoltà, convivere con la propria faccia e testimoniare la propria differenza etica irriducibile attraverso la poesia: «ci tocca vivere il no misurarlo coinvolgerlo in azione e tentazione / perché l’opposizione agisca da opposizione e abbia i suoi testimoni», conclude.

Nel 1965, anno successivo alla pubblicazione di Lezione di fisica, Elsa Morante, in Pro e contro la bomba atomica, si chiederà allora: «Ma infine, che razza di romanzo o di poesia dovrà scrivere il Nostro per fare, come dicono i giornali, la sua lotta? La risposta è semplice: scriverà, onestamente, “resta da fare la poesia onesta”».

Riferimenti bibliografici

[1] E. Pagliarani, Lezione di fisica, All’insegna del pesce d’oro, Milano 1964. 
[2] H. Kahn, The Nature and Feasibility of War and Deterrence, The Rand Corporation, Santa Monica (CA) 1960.

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Questo articolo è stato pubblicato sul numero 2/2023 di Sapere, la più antica rivista di divulgazione scientifica in Italia, da anni edita dalle Edizioni Dedalo di Bari. 

sabato 22 luglio 2023

Clara Haber, nata Immerwahr: una donna infelice

 


Il 23 aprile 1909, Clara Haber scrisse al suo relatore di dottorato e confidente, Richard Abegg, le seguenti righe:
"Ciò che Fritz [Haber] ha guadagnato in questi ultimi otto anni, io l'ho perso, e ciò che resta di me mi riempie della più profonda insoddisfazione".
Questo giudizio sul matrimonio con Fritz Haber può servire come emblema della vita e del destino di Clara, non ultimo per quanto riguarda il suo suicidio sei anni dopo. Negli ultimi trent’anni, il suicidio di Clara è stato ampiamente considerato non solo come una tragedia personale e il risultato di un dramma coniugale, ma, soprattutto dopo la pubblicazione della sua biografia da parte di Gerit von Leitner (1993), come conseguenza generale del coinvolgimento di Fritz Haber nella guerra chimica e in particolare nel primo attacco con una nube di cloro a Ypres il 22 aprile 1915. Inoltre, è stato visto come un segnale di una "scienza femminile che preserva la vita" che si oppone a una scienza patriarcale, desiderosa di assicurarsi il potere e di sfruttare le risorse naturali. In realtà, sulla base dei materiali biografici disponibili su Clara Haber, questa interpretazione del suo suicidio è parziale, mancando di un'adeguata considerazione della complessità della personalità di Clara e delle circostanze della sua vita e del suo tempo.

Clara Immerwahr nacque il 21 giugno 1870 nella tenuta di Polkendorf vicino a Breslavia, dove suo padre, un chimico laureato, si ritirò dopo il fallimento della sua impresa chimica. Oltre a diventare un agronomo di grande successo a Polkendorf e dintorni, era comproprietario di un fiorente negozio a Breslavia che vendeva tessuti e tappeti di lusso. La famiglia aveva un appartamento a Breslavia dove gli Immerwahr soggiornavano durante le loro frequenti visite in città. Clara avrebbe vissuto lì durante i suoi studi.

Breslavia era nella seconda metà dell'Ottocento una prospera metropoli brulicante di affari e imprese industriali. La sua popolazione era raddoppiata durante i 30 anni dal 1875, raggiungendo i 471.000 nel 1905. Allo stesso tempo, si era sviluppata come importante centro della scienza e della cultura con una grande classe media istruita. C'era la Schlesisch Friedrich-Wilhelm Universität, fondata nel 1811, una serie di collegi, oltre a un teatro dell'opera, diverse orchestre e un teatro cittadino, tutti di livello nazionale significativo.

L'epoca di prosperità economica e culturale di cui godette la città coincise con l'infanzia e la giovinezza di Clara Immerwahr, la cui famiglia apparteneva alla benestante borghesia ebraica. Dopo Berlino e Francoforte, la comunità ebraica di Breslavia era la terza più grande, con oltre ventimila residenti ebrei, e la sua sinagoga, consacrata nel 1872, era la seconda più grande della Germania. La comunità ebraica di Breslavia rappresentava un’aristocrazia intellettuale della città, alla quale appartenevano anche gli Immerwahr. Tuttavia, i genitori di Clara erano ebrei assimilati, che partecipavano alla vita culturale comunitaria e solo raramente, se non mai, andavano in sinagoga. La religione, i costumi e le pratiche ebraiche non avevano sostanzialmente alcun ruolo nella vita familiare. Gli atteggiamenti politici della famiglia Immerwahr erano liberali, il che comportava tuttavia anche un certo grado di coscienza nazionale e patriottismo prussiano-tedesco, soprattutto dopo l'unificazione del 1871. Prussiano era anche il semplice stile di vita della famiglia, che fu frugale non per necessità ma per principio. Quindi, nonostante la ricchezza della famiglia, Clara e i suoi tre fratelli erano stati educati alla modestia.

Oltre alla virtù della semplicità, si attribuiva un grande valore all'educazione, non solo per il figlio maschio ed erede, ma anche per le tre figlie. Questo era tipico della classe media ebraica tedesca, poiché il 40% delle studentesse delle scuole superiori di Breslavia erano ebree. A differenza della Svizzera o dei paesi anglosassoni, i licei tedeschi (Gymnasium) erano vietati alle donne fino all'inizio del Novecento. Prima di allora le donne potevano frequentare l'università solo con un permesso speciale e come uditrici ospiti.

Il percorso formativo di Clara fu condizionato da questi vincoli. Iniziò gli studi presso una scuola femminile a Breslavia, che era integrata durante i mesi estivi trascorsi nella tenuta di Polkendorf con le lezioni di un tutor privato. Clara si diplomò nel 1892 all'età di 22 anni. La scuola avrebbe dovuto fornire alle giovani donne un'istruzione di base compatibile con il loro status sociale e prepararle al loro "scopo naturale", cioè come compagne dei loro mariti, casalinghe e madri. Tuttavia, Clara voleva di più, e dopo essersi diplomata, entrò in un seminario per insegnanti, che era l'unico tipo di istituzione che offriva un'istruzione superiore alle donne. Tuttavia, le laureate del seminario erano qualificate solo per insegnare nelle scuole femminili e non erano ritenute idonee per entrare all'università e studiare, ad esempio, scienze, che era ciò che Clara voleva fare. Quindi, per potersi iscrivere all'università, Clara doveva seguire lezioni private intensive e superare un esame equivalente alla Maturità. Questo esame era amministrato da un comitato speciale istituito presso il Realgymnasium di Breslavia e Clara lo superò con successo nella Pasqua del 1896, quando aveva 26 anni.

Successivamente, Clara iniziò i suoi studi all'Università di Breslavia, ma solo come uditore, poiché in Prussia le donne sarebbero diventate legalmente ammissibili come studentesse universitarie solo nel 1908. Prima di questo, a partire dal 1895, le donne potevano solo frequentare le lezioni come uditrici, e anche questo era subordinato al sostegno del professore e della facoltà e al permesso del Ministero, che richiedeva un certificato di buona condotta, referenze caratteriali e così via. È difficile oggi immaginare cosa significasse per le donne entrare nel dominio maschile dell'istruzione superiore e quale tipo di discriminazione e umiliazione fosse collegata a ciò.

Dopo aver superato con successo l'esame d’ammissione, Clara chiese all'ufficio del curatore dell'università il permesso di frequentare le lezioni di fisica. E doveva procedere in modo altrettanto umiliante con tutti gli altri corsi che desiderava seguire.

Fin dall'inizio, Clara sviluppò un vivo interesse per l'allora nuovo campo della chimica fisica. Richard Abegg, uno dei pionieri di questo nuovo campo, svolse un ruolo chiave nel promuovere l'interesse di Clara per la chimica fisica, prestando poca attenzione allo status di uditore di Clara. Fu anche Abegg a supervisionare la tesi di dottorato di Clara e che scrisse un articolo congiunto con lei nel 1899. L'articolo, pubblicato nel 1900, deve essere stato percepito dalla giovane chimica come riconoscimento del suo successo. L'anno successivo presentò la sua tesi e fece domanda per essere ammessa alla fase finale degli orali, che prevedevano domande di chimica, fisica, mineralogia e filosofia. Superò gli esami durante l'autunno e discusse la sua tesi il 22 dicembre 1900. Clara si laureò magna cum laude e la sua laurea fu menzionata dalla stampa quotidiana, in quanto era la prima donna a cui l'Università di Breslavia aveva conferito un dottorato.

Richard Abegg assunse nel 1899 una posizione accademica presso l'Istituto di Chimica dell'Università di Breslavia, che era tra i più prestigiosi in Germania. Nel 1909 Abegg divenne Ordinarius presso la neonata Università Tecnica di Breslavia. Tuttavia‚ non sarebbe vissuto abbastanza a lungo per portare a termine la costruzione del nuovo laboratorio di chimica fisica presso l'Università tecnica, che doveva essere il suo. Abegg era appassionato del volo aerostatico e aveva fondato e presieduto il club della mongolfiera di Breslavia. Morì in un incidente di volo nel 1910 all'età di 41 anni.

Otto Sackur era un compagno di studi di Clara, che aveva studiato chimica all'Università di Breslavia, dove, come Clara, aveva trovato un mentore illuminato in Richard Abegg. Sackur faceva parte del comitato di dottorato di Clara come referee.

Come Privatdozent presso l'Università di Breslavia, dopo la morte di Abegg rimase senza un mecenate accademico o un laboratorio. Fu durante questo periodo che Sackur iniziò la sua ricerca all'intersezione tra termodinamica e teoria quantistica. Una ricompensa sotto forma di un incarico più prestigioso arrivò alla fine del 1913 quando, grazie anche alla mediazione di Clara Haber, Sackur ricevette una chiamata al Kaiser-Wilhelm-Institut di Haber a Berlino. Nel 1914 fu promosso al grado di capo dipartimento. Dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale, fu arruolato nella ricerca militare presso l'istituto Haber, ma continuò parallelamente i suoi esperimenti sul comportamento dei gas a basse temperature. Nel dicembre del 1914 rimase ucciso in un incidente di laboratorio, mentre cercava di controllare il cloruro di cacodile per usarlo come irritante e propellente. Aveva appena 34 anni.

Mentre Abegg rappresentava il legame di Clara con la scienza che, inoltre, fungeva da supporto e confidente in questioni private, Otto Sackur era suo amico e compagno. Dopo l'incidente di Sackur, Clara fu tra le prime ad accorrere. Si dimostrò capace di agire razionalmente in una situazione drammatica e di coordinare i tentativi di aiutare i feriti. Tuttavia, Sackur morì davanti ai suoi occhi; Clara fu schiacciata dalla morte di Sackur. Sul luogo dell'incidente‚ Fritz Haber stava ansimando tra le braccia di un collega. Era distrutto al punto che fermò la ricerca sugli esplosivi nel suo istituto.

La produzione scientifica di Clara è composta da tre documenti di ricerca, un supplemento e un erratum a uno dei documenti. Il suo primo documento di ricerca è scritto con Abegg, gli altri due sono scritti solo da lei. Il secondo articolo personale è un estratto dalla sua tesi di dottorato. Il lavoro riguardava la chimica delle soluzioni, una delle principali preoccupazioni della chimica fisica dell'epoca, e ruotava attorno alle connessioni tra conduttività, solubilità, grado di dissociazione, potenziale elettrochimico e quella che veniva chiamata elettro-affinità.

L'articolo con Abegg determinò praticamente l'argomento e la metodologia dell'articolo di tesi di Clara. La tesi affrontava in modo sistematico l'interazione tra la solubilità di sali di metalli pesanti scelti e le elettro-affinità dei gruppi costituenti e degli atomi. Oltre a fornire tabelle di valori determinati sperimentalmente di quantità come concentrazioni di equilibrio e relativi potenziali di elettrodo, il documento mirava a valutare la questione se le elettro-affinità fossero quantità additive.

Il secondo articolo di Clara mirava ad espandere la base di dati sulla solubilità per includere i sali di rame, utilizzando le idee e i metodi sviluppati da Walther Nernst, Wilhelm Ostwald e Friedrich Wilhelm Küster. Quest'ultimo era professore di Clara all'Università di Breslavia, a cui va anche il merito di aver suscitato il suo interesse per la chimica fisica. Si trasferì alla Bergakademie di Clausthal nel 1899 e fu nel laboratorio Clausthal di Küster che Clara effettuò le misurazioni riportate nel suo secondo articolo.

Il consulente di dottorato di Clara, Richard Abegg, era diventato famoso per il suo lavoro sulla valenza che ha portato alla regola dell'ottetto. Il lavoro di Clara sull'elettro-affinità era in qualche modo correlato a questa linea di ricerca, ma il suo contributo non fu ritenuto abbastanza significativo da giustificare l'inclusione di Clara nell'elenco del 1910 redatto da Svante Arrhenius di una mezza dozzina di ex affiliati di Abegg che avevano contribuito alla sua ricerca. A dire il vero, nemmeno Sackur era in quella lista. Tuttavia, Sackur si era fatto un nome in un'area che si trovava al di fuori della gamma di interessi di Abegg e aveva pubblicato il suo lavoro chiave solo dopo la morte di Abegg. Va anche notato che il lavoro di Clara, a differenza di quello di Abegg o di Sackur, non arricchiva il quadro concettuale della chimica fisica e non avviava una nuova direzione di ricerca.

Oltre al suo lavoro di ricercatrice, Clara tenne anche conferenze pubbliche, sia a Breslavia che successivamente a Karlsruhe, sul vasto tema della scienza in casa. Ispirate dal popolare libro di Lassar Cohn La chimica nella vita quotidiana, le lezioni di Clara attiravano un pubblico di un centinaio di donne.

Oltre ad Abegg e Sackur, nella vita di Clara Immerwahr entrò un altro pioniere della chimica fisica, ovvero Fritz Haber (1868-1934). Più vecchio di soli due anni, anche lui originario di Breslavia, Fritz probabilmente incontrò Clara a una lezione di ballo. Poco si sa di questo legame, ma Haber avrebbe poi ammesso, in occasione del suo fidanzamento con Clara nell'aprile 1901, di essere "innamorato di lei come uno studente [di liceo]" e che durante gli anni successivi aveva "onestamente ma senza successo" cercato di dimenticarla. Quando la dottoressa Immerwahr appena laureata apparve nell'aprile 1901 alla conferenza annuale della Società elettrochimica tedesca a Friburgo - come unica scienziata donna - la relazione tra lei e Haber si riaccese rapidamente. Come dirà poi Haber in una delle sue lettere, «ci siamo visti, ci siamo parlati e alla fine Clara si è lasciata convincere a fare un tentativo con me». Clara descriverà i suoi motivi per aver accettato le avances di Fritz nella già citata lettera del 1909 al suo confidente Abegg:
“È stato il mio approccio alla vita secondo cui vale la pena vivere solo se si sviluppano al massimo tutte le proprie capacità e si vive tutto ciò che una vita umana può offrire. E così alla fine ho optato per l'idea del matrimonio [...] sotto l'impulso che, se non mi fossi sposata, una pagina decisiva nel libro della mia vita e un filo della mia anima sarebbero rimasti inattivi. Ma la spinta che ne ho tratto è stata molto breve”.
Come ha sottolineato Margit Szöllösi-Janze, biografa sia di Fritz che di Clara Haber, il loro matrimonio, avvenuto già il 3 agosto 1901, segnò la fine del “capitolo 'scienza chimica' nel libro della vita di Clara”.

Guardando l'ultimo decennio della vita di Clara, bisogna essere d'accordo. Sebbene all'inizio potesse aver nutrito la speranza di poter riprendere il suo lavoro scientifico, a un certo punto deve aver abbandonato sempre più tali speranze. Durante i primi anni del suo matrimonio, Clara appariva alle lezioni e nei laboratori della Technische Hochschule di Karlsruhe, dove suo marito sarebbe presto diventato il fondatore dell’istituto di chimica fisica ed elettrochimica.

Inoltre, sembra che all'epoca Fritz Haber coinvolgesse la moglie nelle sue ricerche e condividesse con lei le sue idee scientifiche, come suggerito dalla dedica del suo libro di testo del 1905 Termodinamica delle reazioni tecniche dei gas: “Alla mia cara moglie Clara Haber, Ph.D., in segno di gratitudine per la sua silenziosa collaborazione” (1908).

Tuttavia, che il coinvolgimento di Clara nella ricerca di Haber comportava più di una silenziosa collaborazione traspare nella sua corrispondenza con Abegg, in cui riferisce sui progressi di Haber nella stesura del libro di testo, discute appuntamenti accademici e sollecita consigli sui suoi discorsi pubblici. Tuttavia, il sogno di un matrimonio scientifico equo e reciproco - come quello di Pierre e Marie Curie a Parigi - non si è avverato.

La svolta probabilmente avvenne quando il loro figlio Hermann nacque nel 1902 e/o quando Haber divenne professore ordinario a Karlsruhe nel 1906. Hermann era un bambino malaticcio, che richiedeva molte attenzioni dalla madre. Clara si prendeva cura del figlio amorevolmente e allo stesso tempo gestiva una famiglia esigente. All'inizio la giovane famiglia non poteva permettersi il personale di servizio e così Clara doveva fare molto da sola. In una lettera ad Abegg scritta nel 1901 da Karlsruhe, Clara dichiarò che sarebbe tornata al laboratorio:
“... una volta che diventeremo milionari e potremo permetterci la servitù. Perché non posso nemmeno pensare di rinunciare al mio [lavoro scientifico]”.
Come sappiamo, gli Haber si arricchirono, tuttavia Clara non sarebbe mai tornata al laboratorio, nonostante le posizioni di Haber a Karlsruhe e in seguito direttore di un Kaiser Wilhelm Institute. Con il passare degli anni, ricadrà sempre più nel ruolo tradizionale di moglie rappresentativa di un professore, casalinga preoccupata per il benessere della famiglia e madre premurosa. Ciò era aggravato dalla mentalità ristretta di Haber e dalla sua ossessione per il lavoro e la carriera, che lasciarono poco spazio allo sviluppo professionale di Clara e la ridussero sempre di più al ruolo di madre/casalinga. Di conseguenza Clara si stancò e, come scrisse Szöllösi-Janze:
“il periodo di massimo splendore che Haber aveva vissuto a Karlsruhe fu per sua moglie Clara il suo crepuscolo intellettuale”.
Mancavano ancora sei anni all'uscita volontaria di Clara dalla vita il 2 maggio 1915. Durante questo periodo Fritz Haber godrà di un'ulteriore ascesa scientifica e sociale: nel 1909 pose le basi scientifiche per la sintesi catalitica dell'ammoniaca dai suoi elementi e nel 1911 divenne direttore fondatore del Kaiser Wilhelm Institute per la Fisica Chimica ed Elettrochimica di Berlino.


In tal modo Haber raggiunse l'Olimpo della scienza in Germania e in tutto il mondo. Clara poteva partecipare alla gloria di tutto ciò, ma non come scienziata, piuttosto come moglie di uno scienziato, una differenza su cui la sensibile e sincera Clara deve aver sicuramente riflettuto. La crescente alienazione della coppia era evidente ai loro conoscenti, per i quali il logoramento e le difficoltà tra i coniugi erano piuttosto evidenti.

Le tensioni e i conflitti tra Clara e Fritz si aggravarono ulteriormente dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. In linea con la massima "In pace per l'umanità, in guerra per la patria", Fritz Haber si impegnò in modo straordinario per aiutare lo sforzo bellico tedesco.

Già nel settembre del 1914 i militari avevano suggerito che i sottoprodotti della fabbricazione di esplosivi potessero essere usati come armi chimiche. Questa soluzione serviva anche a interessi industriali. Il Capo di Stato Maggiore prussiano, il generale Erich von Falkenhayn, raccolse questi suggerimenti e installò una commissione che in seguito includeva Haber, che non solo era spinto dall'ambizione di risolvere i problemi della guerra in modo tecnocratico, cioè attraverso la scienza e la tecnologia, ma cercava anche di creare una rete che collegasse l'industria, il mondo accademico, i militari e i politici, promuovendo così il ruolo sociale degli scienziati. Alla fine della guerra, circa mille scienziati erano stati coinvolti nello sviluppo della guerra del gas in Germania, 150 solo dal Kaiser Wilhelm Institute di Haber in rapida espansione. Ciò rappresentò un successo sorprendente che avrebbe avuto conseguenze durature per il rapporto tra scienza e militari.

In parte incoraggiato dall'uso francese dei gas lacrimogeni, comprese le loro varianti letali, Haber prese l'iniziativa di impiegare la chimica per risolvere la più grande sfida strategica della guerra, vale a dire lo stallo della guerra di trincea. Portato alla ribalta dalla necessità della Germania di produrre "polvere da sparo dall'aria", Haber, sostenuto dall'industria chimica, fu in grado di persuadere la leadership militare del suo paese a organizzare un test sul campo di battaglia di un'arma chimica - di "veleno invece di aria". Questo gli avrebbe fatto guadagnare l'epiteto di "padre della guerra chimica".


La letalità dell'attacco della nube di cloro del 22 aprile 1915 a Ypres indusse l'esercito tedesco ad adottare la guerra chimica. Haber fu promosso, con decreto imperiale, al grado di capitano.

Haber celebrò il "successo" a Ypres e la sua promozione durante un ricevimento nella sua residenza da direttore a Berlino. La festa avvenne la sera del 1° maggio 1915. Successivamente, nella notte tra il 1 e il 2 maggio, Clara Haber si suicidò. Si sparò con la pistola dell'esercito di Haber, nel giardino della loro villa. Apparentemente, Haber, sedato dalla sua dose serale di sonniferi, non sentì gli spari (ce ne furono due). Clara fu trovata morente dal figlio tredicenne Hermann.

La maggior parte dei documenti relativi al suicidio di Clara sono stati prodotti quasi quattro decenni dopo, tramite interviste per la cosiddetta Collezione Jaenicke, dal nome di Johannes Jaenicke, un collaboratore di Haber che progettò di scrivere la biografia di Haber e che fu a capo del precursore dell'Archivio del Max Planck Institute. Le menzioni fatte nelle memorie e nella corrispondenza personale di persone che conoscevano gli Haber forniscono ulteriori curiosità, anche se a volte solo tra le righe. La coincidenza del suicidio con l'attacco della nube di cloro a Ypres e il ruolo chiave di Fritz Haber in esso hanno dato luogo a speculazioni e c'erano - come notato da Jaenicke - "numerose versioni contraddittorie in circolazione". La famiglia Haber trattò il tragico evento con la massima discrezione, per cui non sono disponibili fonti primarie‚ come lettere di addio‚ che ne chiariscano il movente. Allo stesso modo, sostanzialmente non sono disponibili testimonianze contemporanee autentiche che facciano luce sul tragico evento. Quasi tutte le testimonianze esistenti sono degli anni Cinquanta e Sessanta, sollecitate e raccolte da Johannes Jaenicke per la sua collezione.

Vent'anni prima, all'inizio degli anni '40 in America, Morris Goran, di cui si sa poco, tranne che a un certo punto ricoprì una posizione al Roosevelt College di Chicago, tentò di intervistare scienziati tedeschi emigrati dell'establishment scientifico tedesco in generale e su Fritz Haber in particolare. Nel 1947 Goran pubblicò un articolo piuttosto agiografico su Haber e nel 1967 il libro The Story of Fritz Haber, che contiene un breve passaggio sul suicidio di Clara. Nel passaggio, Goran afferma che Clara era stata "vitalmente colpita" dal coinvolgimento di suo marito nella guerra chimica della Prima guerra mondiale e si era suicidata dopo un'accesa discussione con Fritz su ciò che considerava "una perversione della scienza" e "un segno di barbarie". Goran non fornisce prove o fonti né per questo scenario né per queste affermazioni. Apparentemente, la tanto citata frase sulla perversione della scienza e della barbarie, attribuita a Clara, è proprio di Goran. A parte la sua categorizzazione politica e morale del suicidio di Clara, Goran sottolineava anche per la prima volta che Clara era depressa e che la guerra chimica era una via o una scusa per la grave preoccupazione che sembrava favorire.

Tuttavia, Goran non fornisce alcun riferimento neanche qui, il che ha portato Margit Szöllösi-Janze a definire il suo libro come un testo in cui "il confine tra uno studio storicamente corretto e la finzione è sfumato".

Nella sua biografia di Haber, Szöllösi-Janze ha valutato criticamente le fonti su Clara e il suo suicidio che si possono trovare nella Collezione Jaenicke, con la conclusione che i motivi del suicidio di Clara sono tanto poco chiari quanto le fonti disponibili sono ambigue e rare. Ad esempio, Adelheid Noack, la nipote del cognato di Clara disse che: “Ci sono vari resoconti più o meno patetici del suo suicidio [di Clara], ad esempio che lo aveva implorato [Fritz Haber] di abbandonare la guerra chimica. Questi racconti sono una sciocchezza.“

Ciò è contrastato dall'opinione di James Franck, che ha affermato nella sua conversazione con Jaenicke che Clara era:
“una brava persona di talento con opinioni distinte, che spesso contraddicevano quelle di suo marito... voleva riformare il mondo. Il fatto che suo marito fosse coinvolto in una guerra chimica ha sicuramente avuto un effetto sul suo suicidio"
Tuttavia, Franck ha aggiunto che Fritz Haber
"ha fatto uno sforzo immenso per conciliare le sue opinioni politiche e umane con quelle di Clara".

 Un altro sostenitore del punto di vista espresso da James Franck era il chimico fisico Kurt Mendelssohn, che aveva lavorato prima della sua emigrazione nel 1933 sia a Berlino che a Breslavia. Nel suo libro Il mondo di Walther Nernst ha dichiarato:

“... c'è stato un macabro seguito alla sua decisione [di Fritz Haber] di sviluppare gas velenosi. Sua moglie, la dottoressa Clara Immerwahr, che era anche una chimica, lo aveva supplicato ripetutamente di non lavorare sulla guerra del gas. La sua risposta fu che il suo primo dovere era verso il suo paese e che nessuna discussione, nemmeno le suppliche di sua moglie, avrebbe potuto scuotere la sua determinazione. La sera della partenza di Haber per il fronte, Clara si è suicidata “.
Un'ulteriore testimonianza su un possibile ruolo della guerra chimica nel suicidio di Clara è stata fornita da suo cugino Hans Krassa, secondo il quale Clara aveva visitato la moglie di Krassa poco prima del suicidio per confidarle sui "raccapriccianti effetti" della guerra chimica a cui aveva assistito, in particolare la “sperimentazione sugli animali”. Krassa, tuttavia, ha aggiunto che potrebbero essere stati in gioco anche altri fattori. Per quanto riguarda l'indole di Clara, Krassa ha affermato che "la parola tristezza va troppo oltre" e che "non si può certo parlare di una depressione ereditaria".

Che Clara fosse "estremamente nervosa", specialmente negli ultimi anni della sua vita, si può trovare nella testimonianza di Otto Lummitzsch, che fu testimone di una visita di Fritz e Clara Haber al campo di prova dei gas a Wahn vicino a Colonia. Egli descrisse Clara come una donna nervosa, che già allora era in netta opposizione alle avventure del Sovrintendente Haber al fronte con le truppe del gas.

Un altro aspetto della personalità di Clara traspare nel modo in cui si comportava e si vestiva. Secondo James Franck,
[Haber] amava apparire, mentre [Clara] esagerava la semplicità dei suoi modi e si vestiva male – [forse] per protesta? (Quando ho visitato [gli Haber] per la prima volta, la porta è stata aperta da una persona che ritenevo una donna delle pulizie. E ho pensato che sarebbe stato appropriato se in una famiglia così bella la donna si fosse vestita un po' meglio – ma era la stessa signora Sovrintendente [Clara])”.
Nella sua conversazione con Jaenicke, Adelheid Noack ha anche affermato che Clara era "inorridita da qualsiasi cosa di sensuale", in linea con il fatto che aveva lasciato la camera da letto coniugale nel 1902, per non tornarci mai più. Questo fatto, così come la testimonianza di Noack, è stato confermato dalla seconda moglie di Haber, Charlotte Nathan, che ha avuto accesso a tali informazioni intime più di chiunque altro. Una vera bomba fu lanciata da Hermann Lütge, che testimoniò che nella fatidica notte tra l'1 e il 2 maggio 1915, Clara colse il marito in flagranza con Charlotte Nathan. Charlotte lavorò come manager dell'allora nascente club "Deutsche Gesellschaft 1914", dove lei e Haber si erano conosciuti ed era stata invitata alla grande celebrazione del "successo" a Ypres nella villa di Haber (anche se Charlotte in seguito lo ha negato). La sociologa Angelika Ebbinghaus e la storica Margit Szöllösi-Janze  tendono a ritenere che la scoperta da parte di Clara della relazione di suo marito possa essere stata la vera causa del suo suicidio.

Sebbene fornite da contemporanei, le suddette testimonianze sono state rese note con un ritardo di circa 50 anni, il che le rende storiograficamente problematiche. Tuttavia, ci sono due documenti emersi di recente che sono stati scritti a pochi giorni dal suicidio di Clara e che rispondono ad alcune delle domande poste in relazione ad esso: sono le lettere (datate 5 maggio 1915) di Edith Hahn, la moglie del chimico Otto Hahn, al marito, e le lettere (datate 6 e 9 maggio 1915) di Lise Meitner, collaboratrice e collega di Otto Hahn al Kaiser Wilhelm Institute, a Edith Hahn. Queste lettere, recentemente pubblicate da Eckart Henning (2016), l'ex direttore del Max Planck Archive, confermano che Clara era mentalmente instabile. Così Edith Hahn ha scritto:
"Certo che la donna [Clara] era malata, era sempre stata strana - tutti la prendevano in giro".
E Lise Meitner riferisce che:
“negli ultimi tempi [Clara] aveva sempre dato l'impressione di essere agitata”.
Le lettere concordano anche sul fatto che le ragioni dell'atto disperato di Clara fossero da ricercare nella sua vita privata. Edith Hahn lo ha scritto a suo marito:
“Lui [Fritz Haber] [era] colpevole. Ho la sensazione che lei fosse [fortemente] attaccata a lui e che lui la trattasse male – o almeno in modo del tutto indifferente, e che soffrisse più di quanto possiamo immaginare. Di recente, si è lamentata [con me] che non le aveva mai scritto [dal fronte]; questo è venuto fuori inavvertitamente ed è stato così triste che le ho mentito dicendo che mi scrivi solo di rado e lei [ha fatto notare] che suo marito ha avuto ancora meno tempo. Povera, povera donna. Ho sempre avuto la sensazione che fosse stufo di lei, cosa che io potevo capire fino a un certo punto”.
In linea con questo, Lise Meitner scrisse:
“lei [Clara] ha recentemente fatto osservazioni sul fatto che era infelice del suo matrimonio. E che lui [Haber] non è esattamente una persona affettuosa. Comunque, è una storia molto triste “.
Che le probabili ragioni del suicidio di Clara fossero personali è supportato da un altro documento contemporaneo. A cavallo del 1914/15 avviene uno scambio epistolare tra Setsuro Tamaru, ex collaboratore giapponese di Haber, che dovette lasciare la Germania dopo lo scoppio della guerra, e Clara Haber. Nella sua lunga lettera, scritta la Vigilia di Natale del 1914, Tamaru lamenta la sua situazione personale di ospite nel laboratorio di Theodore Richard ad Harvard, caratterizzato da un isolamento personale e scientifico; di essere stato costretto a lasciare la Germania; e di aver ricevuto "nessuna riga, nessuna risposta da Herrn Geheimrat [Fritz Haber]". Inoltre, la lettera di sei pagine di Tamaru riguarda la situazione politica e militare durante il primo anno della Prima guerra mondiale e contiene la posizione di Tamaru riguardo alla guerra e alla pace:
“Sono una sorta di pacifista e sono sempre contro la guerra. Una guerra non decide nulla, genera solo la prossima guerra”.
Nella sua altrettanto lunga risposta, Clara non reagisce in alcun modo alla posizione di Tamaru e descrive invece la "malinconia della nostra separazione" e "il tuo [posto] è mancato alla tavola di Natale". Clara spiega il silenzio di Fritz Haber e di altri all'istituto facendo notare questo:
“... mio marito lavora 18 ore al giorno, quasi sempre a Berlino, mi occupo di 57 bambini poveri e Hermann [il figlio] è malato da novembre... A parte questo, siamo tutti colpiti negativamente dallo sdegno e la sorda pressione [della guerra] che tolgono ogni impulso a fare altro che aiutare il Paese nelle poche ore rimaste [della giornata]”.
Clara fornisce anche una breve relazione sul "terribile incidente" di Otto Sackur e sullo shock che ne ha subito e conclude affermando:
“Alle tue affermazioni politiche, che erano molto interessanti per noi, non risponderò. Sono troppo ignorante in materia di affari esteri per poter rispondere correttamente. Voi avete certamente ragione su molti aspetti, ma opinioni un po' unilaterali su alcuni punti”.
Anche se si tiene conto che all'epoca la corrispondenza internazionale era soggetta a censura, ciò che traspare nella lettera di Clara è una donna rattristata dalle sofferenze umane e dal peso della guerra piuttosto che un'attivista politica o addirittura una pacifista. Ciò rende piuttosto discutibile l'immagine di Clara, creata negli anni '90 secondo la quale era una schietta pacifista. Allo stesso modo discutibile è l'opposizione di Clara al coinvolgimento del marito nella guerra chimica e quindi il motivo implicito del suo suicidio come collegato ad esso.

Un'altra controversia legata al suicidio di Clara riguarda il comportamento di Fritz Haber all'indomani dello straziante evento. La partenza di Haber per il fronte lo stesso giorno (2 maggio) è stata spesso descritta come uno sconsiderato abbandono del figlio tredicenne Hermann e un segno di insensibilità ed egoismo. Anche Szöllösi-Janze sostiene che Haber, visibilmente scosso, potrebbe aver considerato il fronte come un luogo in cui fuggire dalla tragica realtà domestica. Tuttavia, la citata lettera di Lise Meitner getta nuova luce anche su questo aspetto:
“Come sai, Haber doveva partire la mattina, ma è rimasto fino alla sera, quando è stato [alla fine] costretto a partire. Mi risulta che abbia chiesto al comando [militare] se, in considerazione del malaugurato evento, potesse rinviare la partenza, ma la sua richiesta è stata respinta”.
Sebbene Lise Meitner abbia qualificato la sua affermazione aggiungendo "Se sia vero, ovviamente non lo so", il passaggio suggerisce comunque che Haber non fosse un marito così insensibile da lasciare suo figlio nei guai senza una ragione come era stato ipotizzato in precedenza.

Nonostante la scarsità e l'ambiguità della documentazione storica, durante gli anni '90 si è radicata una narrazione secondo la quale Clara Haber era presumibilmente una pacifista e decisa oppositrice della guerra chimica, in contrasto con suo marito Fritz Haber, che era il principale sostenitore della guerra chimica. Sembra che questa narrazione sia stata catapultata nella sfera pubblica in Germania e altrove dal libro di Gerit von Leitner Der Fall Clara Immerwahr. Leben für eine humane Wissenschaft, pubblicato nel 1993 e varie drammatizzazioni da esso derivate. In esso, Clara è presentata come una schietta pacifista e una scienziata di punta che è stata distrutta - sia come persona che come scienziata - dal marito opprimente e opportunista. Le fonti nel libro di von Leitner non vengono fornite o sono sfruttate in modo selettivo, in modo da fornire un'immagine immacolata di Clara mentre ritrae Fritz Haber come una specie di genio del male. Il racconto di Von Leitner ignora altre fonti che suggeriscono che le ragioni del suicidio di Clara potrebbero aver avuto a che fare con la sua vita privata.

L'enfasi sulla lettera di Clara del 1909 a Richard Abegg è un esempio calzante. Scritto su carta da lettere listata di nero, si apre con una tirata sulla sua incapacità di trovare una penna stilografica (descritta - a matita - su due pagine su dodici), Clara denuncia il marito e descrive in dettaglio la sua vita insoddisfacente con lui. La lettera potrebbe essere stata innescata dalla gelosia, dopo che Abegg, durante la sua visita a Karlsruhe, si congratulò con Fritz Haber per la sua scoperta della sintesi catalitica dell'ammoniaca senza menzionare Clara. Lei, tuttavia, non era stata coinvolta nella ricerca - sua o di Haber - dal 1901 circa, come aveva riconosciuto nella stessa lettera. La lettera è speciale in quanto è l'unica scritta da Clara ad Abegg (o a chiunque altro) in cui aveva perso i nervi e si era lamentata di Haber e del loro matrimonio.

Il libro di Von Leitner apparentemente ha toccato una corda sensibile dello Zeitgeist, poiché era stato ben accolto - in alcuni casi anche euforicamente - non solo nei circoli femministi e pacifisti, ma anche dalla maggior parte dei critici letterari tedeschi che scrivevano per i principali giornali e riviste. Così, ad esempio, Volker Ullrich ha pubblicato su Die Zeit una recensione in cui ha reso omaggio al libro di von Leitner come:
“uno dei migliori esempi di una nuova forma di scrittura della storia ispirata alle donne, ... un affascinante ritratto storico ... che rivela ciò che è stato coperto e nascosto per decenni”
La recensione di Ullrich divenne emblematica per l'accoglienza del libro da parte di altri critici e il suo tenore può essere trovato in molte altre recensioni pubblicate su importanti quotidiani nazionali e in periodici regionali. Un'altra questione discussa nelle recensioni, che tocca il cuore del libro di von Leitner, è quella dell'uguaglianza nei matrimoni scientifico/accademici come quello degli Haber e la promozione delle carriere accademiche delle scienziate. Tutto ciò ha dato rilevanza al libro di von Leitner rispetto alle tendenze e ai dibattiti politici degli anni '90 e ne ha fatto un veicolo per promuovere le opinioni e gli ideali del movimento per la pace, del femminismo e dell'antimilitarismo. Il tentativo di Clara di avere una vita autodeterminata come donna, madre e scienziata, così come il suo tragico suicidio, sono interpretati come un "[faro di una] scienza femminile che preserva la vita" e giustapposti alla scienza maschile e patriarcale orientata al potere interessato allo sfruttamento delle risorse.


La recensione di Volker Ullrich è un ottimo esempio di una tale interpretazione del libro di von Leitner che aveva nel tempo acquisito un carattere quasi paradigmatico. Appaiono apodittiche le affermazioni di Ullrich secondo le quali von Leitner ha abbattuto «il velo di falsa leggenda costruito [intorno a Fritz Haber]». Tuttavia, ciò che era stato trascurato è che, attraverso la porta sul retro, veniva introdotta un'altra leggenda: il mito di Clara Immerwahr. Secondo questo mito, Clara si suicidò in opposizione alla guerra chimica e come protesta disperata contro lo sviluppo di armi di distruzione di massa da parte del marito, il cui lavoro era sprezzante della vita umana. Questa interpretazione non solo è troppo semplicistica, ma è difficilmente supportata dalle fonti storiche disponibili, come già delineato sopra; nel migliore dei casi, può essere vista come un'ipotesi accattivante priva di prove a sostegno. Per inciso, una critica di questo tipo era già stata rivolta al libro di von Leitner da diversi critici durante gli anni '90. Ad esempio, lo storico della scienza Ernst Peter Fischer scrivendo su Die Tageszeitung (e anche su Weltwoche) ha denunciato non solo le carenze stilistiche e sostanziali del libro, definendolo come un "fallimento totale [total misslungen]", ma ha anche sottolineato che a causa dei riferimenti mancanti non è chiaro se il libro sia una "resa attendibile [di fatti storici]" e quanto siano unilaterali le sue interpretazioni. 

Sebbene von Leitner abbia scelto il genere accademico della biografia piuttosto che del romanzo, ha abbandonato gli standard nel processo di scrittura del suo racconto, come documentare le sue dichiarazioni con riferimenti valutati criticamente. Nel suo racconto spesso mette in bocca all'eroina affermazioni/opinioni o descrive situazioni che coinvolgono i personaggi del suo libro per le quali non esistono registrazioni o prove. Ad esempio, afferma che "Clara ammirava la coraggiosa Bertha von Suttner" [Premio Nobel per la Pace nel 1905] e descrive persino una scena in cui Clara discute dei diritti delle donne con suo marito e si schiera dalla parte di von Suttner.

Poiché né Clara né Fritz Haber hanno lasciato diari o corrispondenza da cui è stato possibile ricostruire tali opinioni, conversazioni o situazioni, questi e altri passaggi nel libro di von Leitner possono essere considerati solo come una miscela non accademica di finzione e fatti storici. Di particolare significato è la contestualizzazione di von Leitner del suicidio di Clara, in quanto questo viene presentato come una protesta decisiva contro lo sviluppo e l'uso di armi chimiche, come un segnale "contro la distruzione chimica di massa".

Le prove fornite dalle fonti storiche sono troppo scarse per un'ipotesi così forte, per non parlare della gestione della documentazione storica da parte di von Leitner. Pertanto, non possiamo che essere d'accordo con una precedente valutazione di Szöllösi-Janze che:
“Per quanto riguarda la fattibilità e la validità delle fonti, la documentazione relativa agli ultimi mesi di vita di Clara Immerwahr durante la prima guerra mondiale è costituita principalmente da lacune piuttosto che da conoscenze comprovate” (Szöllösi-Janze 1998).
Nonostante tutti questi difetti e la loro critica esplicita sulla stampa così come nell'autorevole biografia di Haber di Szöllösi-Janze, l'immagine di Clara Haber, nata Immerwahr come pacifista schietta e oppositrice della guerra chimica prevale ancora oggi nella coscienza pubblica.

È invece necessaria una visione più differenziata, basata sulla documentazione storica disponibile, secondo la quale il suicidio di Clara Haber sembra essere stato probabilmente il risultato di un "fallimento catastrofico" causato da un sfortunata confluenza di una serie di circostanze che includevano, a parte la sua vita insoddisfacente, i tradimenti di Haber, la tragica morte dei suoi amici intimi, Richard Abegg e Otto Sackur, così come la morte e la distruzione della guerra stessa, amplificata dalle perversioni della guerra chimica.

Fonti:

Bretislav Friedrich, Dieter Hoffmann, Jürgen Renn, Florian Schmaltz, Martin Wolf (Editors), One Hundred Years of Chemical Warfare: Research, Deployment, Consequences, 2017, Springer Open

Leitner, von Gerit. 1993. Der Fall Clara Immerwahr. Leben für eine humane Wissenschaft, München: C.H. Beck.

Szöllösi-Janze, Margit. 1998. Fritz Haber 1868–1934. Eine Biographie. München: C.H. Beck.