Visualizzazione post con etichetta Newton. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Newton. Mostra tutti i post

giovedì 21 luglio 2022

La macchina di Atwood

 


George Atwood (1745-1807) era il primo figlio del curato della parrocchia di St. Clement Danes, a Westminster. Dopo aver frequentato la Westminster School, a partire dal 1759, entrò al
Trinity College di Cambridge nel 1765 come pensionante (cioè si pagava da solo il mantenimento), ma gli fu poi concessa una borsa di studio l’anno successivo. Si laureò con un baccalaureato nel 1769, e conseguì il dottorato nel 1772. Nel 1773, divenne esercitatore. Le sue lezioni erano molto seguite, grazie alle spettacolari dimostrazioni sperimentali. Pubblicò le descrizioni delle sue dimostrazioni nel 1776, anno in cui fu eletto Fellow della Royal Society

Atwood è ora conosciuto soprattutto per un libro di testo sulla meccanica newtoniana, A Treatise on the Rectilinear Motion and Rotation of Bodies, pubblicato nel 1784, dove descrive in dettaglio una macchina per esperimenti ora conosciuta come macchina di Atwood. Nello stesso anno pubblicò anche una seconda opera, An Analysis of a Course of Lectures on the Principles of Natural Philosophy, che è una versione ampliata del suo corso a Cambridge. 

La maggior parte delle altre opere pubblicate da Atwood consiste nella trattazione matematica di problemi pratici. Una menzione meritano i suoi lavori sulla stabilità delle navi, dove estese le teorie esistenti per rendere conto della stabilità dei corpi galleggianti con ampio angolo di rollio, e per i quali, nel 1796, fu insignito della Medaglia Copley della Royal Society. Atwood morì nel luglio 1807 e fu sepolto nella chiesa di St. Margaret a Westminster, dove suo fratello minore Thomas era succeduto al padre come curato.

Il nome di Atwood è quasi interamente legato alla macchina dinamica da lui inventata tra il 1776 e il 1779. Il suo scopo, secondo i testi apparsi dalla fine del ‘700 fino a tempi recenti, era quello di condurre esperimenti che dimostrassero le leggi dei moti rettilinei (e rotazionali) dei corpi, con particolare riferimento ai moti regolati dalla gravità.  Tale scopo della macchina di Atwood si affermò solo dopo il generale accoglimento della meccanica newtoniana, ma nella Cambridge degli anni Settanta e Ottanta del Settecento servì proprio a realizzare definitivamente tale risultato davanti a giovani studenti e studiosi che in seguito diffusero il paradigma newtoniano. 

I dispositivi dimostrativi, che andavano dai planetari e i globi astronomici alle tavole con le quali si insegnavano i principi della meccanica, costituivano il corredo essenziale per i fabbricanti di strumenti di filosofia naturale nella Gran Bretagna di fine Settecento. Questi strumenti erano utilizzati in conferenze e lezioni pubbliche, che diventavano veri spettacoli per coinvolgere il pubblico utilizzando stratagemmi per mostrare le dottrine sulla natura. Ad esempio, le pulegge e i pesi in caduta coinvolti negli strumenti della meccanica newtoniana erano progettati ingegnosamente per minimizzare l'attrito e distinguere l'inerzia dalla gravità. Lo scopo della dimostrazione era di far sembrare inevitabile e credibile una certa interpretazione dei fenomeni naturali. Ciò richiedeva da parte del dimostratore un lungo allenamento, che a sua volta necessitava di essere attentamente gestito per non dirigere l’attenzione solamente sulla macchina utilizzata per la dimostrazione. Così essa richiedeva tattiche per rendere naturali i gesti e un po’ di doti teatrali. 

Newton aveva scritto che il fatto cruciale che tutta la materia gravita in proporzione alla sua massa “si può dimostrare solo con gli esperimenti”. Le macchine per gli esperimenti erano progettate proprio per dimostrare queste idee. Atwood sostenne che la sua macchina era uno strumento che poteva davvero produrre tali certezze, e non semplicemente un dispositivo per dimostrare principi che gli studenti potevano già aver compreso sul piano teorico. La sfida degli esercitatori e dei divulgatori newtoniani consisteva anche nel fatto che non potevano permettersi di opporre dogmatismo a dogmatismo: le loro dimostrazioni dovevano convincere. 

La macchina è descritta nel Trattato di Atwood del 1784, ma la sua diffusione fuori dall'Inghilterra risale già alla fine degli anni '70 del Settecento.  Essa è costituita solo da due cilindri bilanciati collegati da una corda di seta sospesa (considerata inestensibile e priva di peso) su una puleggia, dove possono essere attaccati (e rimossi) pesi aggiuntivi a uno dei due cilindri in modo da fornire una (o nessuna) forza che agisce sul sistema. Il grande merito del filosofo naturale inglese è quello di aver trasformato una normale puleggia in un dispositivo capace di eseguire esperimenti e dimostrazioni raffinate, adatti a essere trattati con gli strumenti dell’analisi matematica. 

È abbastanza istruttivo seguire da vicino come Atwood abbia ideato la sua macchina ingegnosa, partendo dalle sue prime considerazioni sul problema classico della sperimentazione sulla caduta libera dei corpi. 

"Il metodo più ovvio sarebbe quello di osservare l'effettiva discesa di un corpo pesante, mentre cade verso terra per la sua naturale gravità: ma in questo caso è evidente che, a causa della grande velocità generata in pochi secondi di tempo, l'altezza dalla quale cade il corpo osservato deve essere considerevole.  […] Se per rimediare a questo inconveniente si fanno scendere dei corpi lungo piani inclinati, secondo gli esperimenti del celebre autore [Galileo] di questa teoria, variando la proporzione dell'altezza del piano alle loro lunghezze, la forza dell'accelerazione può essere diminuita in qualsiasi rapporto, in modo che i corpi discendenti si muovano sufficientemente lenti da permettere che i tempi di movimento dalla quiete siano accuratamente osservati;  e gli effetti della resistenza dell'aria a corpi che si muovono con queste piccole velocità saranno assolutamente trascurabili: la principale difficoltà però che qui si verifica, deriva dalla rotazione dei corpi discendenti, che non può essere impedita senza aumentare il loro attrito ben oltre quanto l'esperimento consenta" (pp.295-6). 

In particolare, qui la "difficoltà principale" sta nel fatto che l'accelerazione di un corpo rotante mentre scende lungo un piano inclinato è ridotta rispetto al caso in cui la rotazione non si verifica, quando la gravità è l'unica causa di tale effetto.  Il problema previsto da Atwood non è la considerazione dell'effetto di rotazione (conosceva i corretti fattori di riduzione: 5/7 per una sfera e 2/3 per un cilindro), ma semplicemente la sovrapposizione di due effetti (rotazione e gravità) che avrebbero potuto causare una non univoca accettazione del paradigma newtoniano.   

"Non ci sono mezzi per separare la massa mossa dalla forza in movimento; non possiamo quindi applicare forze diverse per muovere la stessa quantità di materia su un dato piano, né la stessa forza a quantità diverse di materia.  Inoltre, essendo la forza accelerante costante e inseparabile dal corpo mosso, la sua velocità sarà continuamente accelerata, in modo da rendere impossibile l'osservazione della velocità acquisita in un dato istante" (p.298). 

Il primo problema è che, con un piano inclinato, non è possibile studiare la dipendenza della forza che agisce sul corpo dalla sua massa, dimostrando così la seconda legge del moto di Newton. Il secondo problema sperimentale più complesso è invece l'impossibilità di misurare la velocità del corpo in un qualsiasi istante di tempo desiderato, poiché cambia continuamente, e quindi l'impossibilità di provare la legge del tempo per la velocità nel moto uniformemente accelerato. 

Qual era, allora, l'obiettivo di Atwood?  I termini del problema sono ben delineati: come è possibile congegnare una serie di esperimenti con un'unica macchina con cui si affrontano forza, massa, velocità, distanze e tempi?  Senza precedenti suggerimenti di altri autori, Atwood concentra la sua attenzione sulle pulegge, già conosciute da molti secoli.  Ma qui il cambio di prospettiva è cruciale: un dispositivo convenzionale impiegato in statica come una semplice macchina si trasforma nelle mani di Atwood in un dispositivo dinamicamente ridimensionato con cura, in grado di essere sottoposto ad analisi matematica per l'illustrazione del pensiero newtoniano. In questa luce, infatti, si può dare un'interpretazione coerente ad una serie di problemi cinematici e dinamici - solo esercizi teorici, non direttamente collegati alla sua macchina - che compaiono nel Trattato, la maggior parte dei quali non sono affatto considerati nei successivi libri di testo sul dispositivo. 

"Nello strumento costruito per illustrare sperimentalmente questo argomento, A, B rappresentano due pesi uguali fissati alle estremità di un filo di seta molto sottile e flessibile: questo filo è teso su una ruota o puleggia fissa abcd, mobile attorno ad un asse orizzontale: i due pesi A, B sono esattamente uguali e agendo l'uno contro l'altro, restano in equilibrio; e quando il minimo peso viene aggiunto a uno dei due (mettendo da parte gli effetti dell'attrito) prevarrà" (p. 299). 


I problemi generali sopra previsti (tempi di caduta troppo brevi - in caduta libera o su un piano inclinato - richiedono distanze molto grandi percorse dal corpo in caduta, sul quale agisce però una forza di attrito non trascurabile, e il corpo raggiunge anche velocità troppo grandi in prossimità  della fine del suo moto) scompaiono subito: un piccolo squilibrio di massa induce piccole accelerazioni e velocità, impedendo così inutili grandi altezze di caduta e, quindi, trascurando l'azione della resistenza dell'aria.  Ma l'obiettivo di Atwood è una precisa conferma delle leggi di Newton, e se la realizzazione di pesi accuratamente bilanciati, oltre che di piccoli pesi aggiuntivi rimovibili, è lasciata all'arte di abili artigiani, il possibile attrito sviluppato dall'asse della puleggia merita un’appropriata considerazione.

"Quando l'asse è orizzontale è assolutamente necessario che sia appoggiato su ruote di attrito, le quali diminuiscono molto, o impediscono del tutto, la perdita di moto che sarebbe causata dall'attrito dell'asse, se ruotasse su una superficie immobile"

Un tale meccanismo, introdotto in precedenza probabilmente dall'orologiaio francese Henry Sully, fu installato da Atwood sulla sommità della colonna cilindrica della sua macchina, sulla quale è montato anche un orologio a peso per effettuare misurazioni del tempo, mentre un righello con "una scala di circa 64 pollici di lunghezza graduata in pollici e decimi di pollice" è aggiunto su un'altra colonna verticale per consentire la misurazione delle distanze percorse dai corpi sospesi sulla corda.  L'assemblaggio con le ruote è, curiosamente, un pezzo rimovibile della macchina: Atwood stava, infatti, creando un dispositivo in grado di studiare i movimenti rettilinei e la rotazione dei corpi, a cui è dedicata quasi la metà del suo Trattato.  Il riconoscimento di questa importante seconda parte della meccanica andrà perso nelle successive descrizioni della macchina di Atwood (e le successive copie della macchina stessa non mostreranno più l’ingranaggio rimovibile con le ruote di frizione) ma non dovrebbe cadere nell'oblio il fatto che In origine Atwood mirava a concepire una macchina "universale" adatta allo studio del moto sia rettilineo sia rotatorio. 

Ciò è chiaramente testimoniato da una serie di interessanti esperimenti, proposti nel suo Trattato, da realizzare con l'ausilio di ulteriori accessori.  Tuttavia, mentre la parte principale della macchina "fu eseguita con grande perizia meccanica, in parte dal signor L. Martin, e in parte dal signor G. Adams, costruttori di strumenti matematici a Londra", tali accessori non furono mai realizzati, probabilmente per il mutamento degli interessi dell’autore.  Pertanto, la macchina di Atwood è stata successivamente associata solo agli studi sul moto rettilineo sotto l'azione di una forza costante. 


In che modo Atwood ha ottenuto un'illustrazione soddisfacente del paradigma newtoniano con la sua macchina?  Il primo passo è, ovviamente, riprodurre la legge di proporzionalità di Galilei tra le distanze percorse
s e il quadrato del tempo trascorso t nel moto uniformemente accelerato: s ∝ t2.  Sotto “l'azione della forza costante m" (m, qui la forza mobile netta, corrisponde al peso di 1/4 di oncia di materia; è considerata una quantità standard negli esperimenti di Atwood), 

"Se i tempi di movimento sono 1 secondo, 2 secondi e 3 secondi, gli spazi descritti da fermo dal peso discendente A in quei tempi saranno rispettivamente 3 pollici, 3×4 = 12 pollici e 3×9 = 27 pollici; gli spazi descritti essendo in un rapporto duplicato dei tempi di moto" (p. 318). 

Il secondo passo è studiare la dipendenza di s dall'accelerazione a del corpo discendente, qui ottenuta, in unità del valore di caduta libera g, dal rapporto tra la massa instabile e la massa totale dei corpi sulla puleggia (in termini moderni, a/g = ∆m/mtot):   

"Risulta da questi esperimenti, che quando i tempi sono gli stessi, gli spazi descritti dal riposo sono come la forza di accelerazione" (p. 320) (“forza di accelerazione” significa qui accelerazione).  Vale a dire, s ∝ a.  Cos'altro sull'equazione del moto per quanto riguarda la distanza percorsa?  Ovviamente, che a ∝ 1/t2

"L'ultima parte dell'esperimento mostra che se lo spazio descritto rimane lo stesso, mentre la descrizione del tempo è diminuita, la forza di accelerazione deve essere aumentata in una proporzione duplicata della diminuzione dei tempi" (p. 321). 

Da questi esperimenti, quindi, è completamente derivata la legge del tempo che, in termini moderni, scriviamo come s = 1/2 at2

Atwood considera poi esperimenti idonei ad ottenere la legge della velocità, la cui misura con la macchina è particolarmente interessante. Supponiamo infatti con Atwood che la velocità istantanea del corpo discendente sia richiesta quando passa ad una certa altezza. Quindi, a tale altezza viene posizionato un anello sulla colonna con il righello, il cui anello è progettato per rimuovere la massa aggiuntiva e sbilanciata (la cui lunghezza supera il diametro dell'anello) consentendo il passaggio del corpo principale su cui è apposto.  In tal modo, e d'ora in poi, la puleggia è completamente equilibrata, ed i due corpi continuano a muoversi con velocità costante, il cui valore è facilmente ricavabile dal rapporto della distanza percorsa in un dato tempo.  Con questo trucco, la legge per la velocità può essere verificata sperimentalmente anche applicando una forza costante al corpo, e il primo risultato che si ottiene è la proporzionalità tra la velocità istantanea e il tempo trascorso: v∝t

"Durante i diversi tempi di 1 secondo, 2 secondi, 3 secondi, ecc. le velocità generate saranno rispettivamente di 6 pollici, 12 pollici e 18 pollici in un secondo, essendo nella stessa proporzione con i tempi in cui agisce la forza data" (pag. 324). 

Pertanto: 

"Sembra quindi che se forze diverse accelerano lo stesso corpo dalla quiete durante un dato tempo, le velocità generate saranno nella stessa proporzione con queste forze". (“forze”, è bene ribadirlo, significa “forze acceleranti” o, semplicemente, accelerazione), cioè v ∝ a, in un tempo costante.  Infine, come sopra, la legge completa v = at si ottiene mediante le proporzioni: 

"Se i corpi sono azionati da forze di accelerazione, che sono nella proporzione di 3:4, e per tempi, che sono come 1:2, le velocità acquisite saranno nel rapporto di 1 × 3 a 2 × 4, o come 3 a 8" (pag. 326).

Vengono poi descritti altri due esperimenti per dimostrare che, per corpi accelerati attraverso lo stesso spazio s, allora v∝√a (p. 327) e, viceversa, sotto l'azione della stessa accelerazione a, v∝ √s (p. 328).  Vale a dire, in termini moderni, v = √2as

Infine, e soprattutto, "la forza in movimento deve essere nello stesso rapporto delle quantità di materia spostate", che è la seconda legge della dinamica di Newton. Gli esperimenti per illustrare questa conclusione possono essere compresi nella tabella. 


Dalle prime tre colonne risulta evidente che la “forza mobile” è uguale al prodotto della “quantità di materia mossa” per la “forza accelerante”, o, nelle notazioni moderne, F = ma.   

L'accuratezza delle conclusioni raggiunte da Atwood dipende ovviamente dalla sensibilità della sua macchina e da eventuali errori sistematici legati principalmente all'attrito e alla prontezza dello sperimentatore per le misurazioni del tempo. Quest'ultimo punto è stato considerato solo a grandi linee da Atwood, che ha appena avvertito possibili altri sperimentatori di allenarsi con l'attivazione "simultanea" dell'orologio a pendolo con la partenza del corpo discendente. Questa è evidentemente la principale fonte di imprecisione. Il problema dell'attrito, inclusa la resistenza dell'aria, era già stato affrontato, ma vale la pena ricordare il fatto che Atwood non si era limitato ad affermare semplicemente che “gli effetti dell'attrito sono quasi del tutto rimossi dalle ruote di attrito” (p. 316), anzi, aveva quantificato tale affermazione facendo un esperimento preliminare: 

"Se i pesi A e B sono messi in perfetto equilibrio, e l'intera massa consiste di 63 m, secondo l'esempio già descritto, un peso di 11 grani, o al limite 2 grani, aggiungendo 2 ad A o B, comunicherà il movimento al tutto, il che mostra che gli effetti dell'attrito non saranno così grandi come un peso di 11 o 2 grani" (p. 316). 

Si noti che una massa di 1 m corrispondeva a ¼ di oncia, mentre 480 grani rappresentavano 10 once (e quindi 2 grani ≃ 1/240 oz), quindi la sensibilità della puleggia era estremamente alta.  Con il suo dispositivo, Atwood è stato quindi in grado di misurare accelerazioni fino a 1/64 del valore di caduta libera, una precisione senza precedenti in tali studi. Questo fatto fu anche il motivo della successiva fortuna della macchina di Atwood in tutta Europa.


La diffusione della macchina di Atwood fuori dall'Inghilterra avvenne ben prima della comparsa del
Trattato, dove veniva descritta insieme agli esperimenti da eseguire con essa.  Infatti, alcuni studiosi che ebbero l'opportunità di assistere alle dimostrazioni di Atwood a Cambridge alla fine degli anni Settanta del Settecento, intuirono subito l'importanza della macchina e ne diffusero la notizia, anche sottoscrivendo l'acquisizione di sue copie. Fu così il portoghese Magallanes il primo a pubblicare (nel 1780) un opuscolo in cui veniva ampiamente descritta la macchina, insieme a una serie di esperimenti sul moto uniforme e accelerato, sotto forma di lettera indirizzata a Volta a Pavia.  L’italiano Giuseppe Saverio Poli riportò (nel 1781) per la prima volta un'illustrazione della nuova macchina, realizzata sulla copia commissionata al liutaio Ramsden, in una pubblicazione dove sono descritti anche alcuni esperimenti. 

Il modello prodotto da Ramsden (il secondo mai realizzato, compreso quello originale di Atwood) introdusse un dispositivo aggiuntivo, suggerito da Poli, per innescare l'attivazione simultanea dell'orologio a pendolo e l'inizio della massa discendente.  Chiaramente finalizzata ad un miglior funzionamento della macchina e, di conseguenza, ad una riduzione degli errori di misura, questa leva aggiuntiva fu sempre inclusa nelle copie successive nel corso del XIX secolo, a prescindere dalla “semplificazione” della macchina di Atwood (il gruppo asportabile di cinque ruote di frizione fu sostituito da un gruppo fisso di ruote o anche solo una semplice puleggia). 

Tali modifiche avvenute sono emblematiche del diverso uso che se ne faceva.  Una volta che la meccanica di Newton fu definitivamente accettata nei corsi accademici come l'unica teoria del moto possibile, la macchina di Atwood non servì più come dispositivo di dimostrazione del successo del paradigma newtoniano.  Il suo uso cambiò di conseguenza e divenne uno strumento didattico che consentiva diversi esperimenti illustrativi sulla caduta dei corpi, o anche solo sul moto uniforme o uniformemente accelerato (ma anche su altri fenomeni come la legge di Stokes).  

Riferimento principale: 

Salvatore Esposito, Edvige Schettino, Spreading scientific philosophies with instruments: the case of Atwood’s machine, arXiv:1204.2984v1 [physics.hist-ph], 13 April 2012

domenica 9 dicembre 2018

Newton ci rassicura: la fine del mondo non sarà prima del 2060


Siamo abbastanza abituati alle dichiarazioni di sventura, dagli scienziati che predicono la sesta estinzione di massa a causa degli effetti del cambiamento climatico, agli estremisti religiosi che proclamano l'apocalisse (o lo stesso riscaldamento globale) a causa dell’eccesso di peccato. È quasi impossibile immaginare questi due gruppi di persone d'accordo su qualcosa di diverso dal sinistro portento dei loro rispettivi messaggi. Ma, agli albori della rivoluzione scientifica non era affatto insolito trovare entrambi i tipi di ragionamento, o di irragionevolezza, nella stessa persona, assieme a credenze in magia, divinazione, astrologia, ecc. 

Anche in questo vortice di pensieri e pratiche eterodosse, Isaac Newton si distinse con una strana coesistenza di profezia biblica esoterica, credenze occulte e matematica rigida e formale, che non solo aderì al metodo scientifico induttivo, ma estese anche il suo potenziale, applicando assiomi generali in casi specifici. Ciò nonostante, mentre stava formulando il principio di gravitazione universale e le tre leggi del moto, ad esempio, egli cercava anche la Pietra Filosofale e tentò di trasformare il metallo in oro. Inoltre, il devoto Newton scrisse trattati teologici che interpretavano le profezie bibliche e predicevano la fine del mondo. 

Newton sembrava fiducioso delle sue predizioni in questo campo come lo era nel mondo razionale della scienza. In una lettera esposta nel 2015 all'Università ebraica di Gerusalemme, Newton descrive la sua idea: 
“Quindi i tempi e la metà dei tempi sono 42 mesi o 1260 giorni o tre anni e mezzo, calcolando dodici mesi per un anno e 30 giorni per un mese come è stato fatto nel calendario dell'anno primitivo. E, sostituiti agli anni dei regni vissuti i giorni delle Bestie di breve durata, il periodo di 1260 giorni, se datato dalla completa conquista dei tre re dell'800 d.C., terminerà l'anno 2060 d.C. Potrebbe finire più tardi, ma io non vedo alcuna ragione perché termini prima”. 
Secondo gli esperti, la lettera di Gerusalemme sarebbe stata scritta dopo il 1704, e la scrittura malferma suggerisce una data piuttosto tarda nella vita di Newton. Egli dimostra la sua fiducia nella frase finale, scrivendo che il suo intento, "anche se non è di assicurare" una risposta, dovrebbe in ogni caso "porre fine alle sconsiderate congetture di uomini fantasiosi che spesso predicono il tempo della fine". Ma come è arrivato a questo numero? Newton ha applicato un metodo rigoroso, questo è certo.

Per Newton, la profezia biblica prevede gli eventi divinamente ordinati del futuro. Era certo che l'interpretazione della profezia biblica fosse non indifferente, ma un dovere della più grande importanza. La profezia permetteva a Newton di vedere la storia in anticipo. Identificò anche un sistema malvagio e apostata (Babilonia) che i puri cristiani devono fuggire per evitare la distruzione e l'ira di Dio. 

Egli credeva sia in Dio che nella Bibbia come rivelazione divina. Pensava anche che Dio non fosse legato dal tempo come gli umani, permettendogli di vedere la "fine dall'inizio". Quindi, per usare le stesse parole di Newton, era convinto che "le sacre profezie" della Scrittura non fossero nient'altro che "storie di cose a venire". Allo stesso tempo, la profezia biblica è scritta in un linguaggio altamente simbolico che richiede un'interpretazione qualificata. Newton fece proprio questo obiettivo mentre tentava di scoprire il futuro del mondo con le parole dei profeti. 

Newton era preoccupato che il tracollo delle fallibili previsioni umane basate sulla profezia divina avrebbe messo in discredito la Bibbia. Ironia della sorte, in una delle due volte in cui Newton annotò la data del 2060, inveiva contro chi arrischiava date sulla fine del mondo. Newton potrebbe essere stato sbalordito se avesse saputo che la sua previsione sarebbe stata diffusa in tutto il mondo nel ventunesimo secolo. I suoi calcoli sulla data del 2060 erano infatti riflessioni private fatte su un pezzo di carta non destinato al pubblico. 


Come molti commentatori profetici della sua epoca, Newton credeva che i periodi profetici di 1260, 1290, 1335 e 2300 giorni rappresentassero effettivamente 1260, 1290, 1335 e 2300 anni, usando il "principio del giorno per anno". 

Per Newton questi periodi (in particolare i 1260 anni) rappresentavano l'arco temporale dell'apostasia della Chiesa (per Newton ciò significa la Chiesa cattolica). Così, cercò nella storia la probabile data in cui l'apostasia era iniziata formalmente (un segno per lui era la data in cui la chiesa papale otteneva il potere temporale). Da lì era semplice aggiungere il periodo di tempo alla data di inizio. Tuttavia, le cose sono raramente così semplici con Newton. Come già accennato, Newton raramente stabilì la data di fine per un periodo di tempo, una volta che aveva stabilito una data di inizio. C'è un piccolo numero di eccezioni, e la data 2060, trovata due volte nella lettera di Gerusalemme, è una di queste. La data 2060 è anche significativa perché, oltre alla rarità delle date di fine negli scritti di Newton, il calcolo che dà la data del 2060 compare abbastanza tardi nella sua vita e viene affermato con insolito vigore. 

Trovare la data di inizio era di grande importanza per Newton, poiché, una volta aggiunti i periodi profetici a questa data, era in grado di determinare quando i grandi eventi apocalittici della fine del mondo sarebbero accaduti. 

Ma da dove trasse i periodi profetici? Soprattutto da Daniele: il periodo di tempo di 1260 giorni appare in Daniele 7:25 (come "un tempo e tempi e la divisione del tempo" [= un anno, due anni e mezzo]), Daniele 12: 7 (come "un tempo, i tempi, e mezzo "[= un anno, due anni e mezzo anno]), Rivelazione 11: 3 (1260 giorni), Rivelazione 12: 6 (1260 giorni) e Rivelazione 13: 5 (42 mesi). Il periodo di tempo 1290 giorni appare in Daniele 12:11. Il periodo di tempo 1335 giorni appare in Daniele 12:12. Il periodo di tempo di 2300 giorni si trova in Daniele 8:14. Newton optò per il periodo più breve, ma si premurò di precisare che quella scelta indicava solamente un terminus post quem: “Potrebbe finire più tardi, ma io non vedo alcuna ragione perché termini prima”. Nonostante gli sforzi degli attuali governi mondiali, insomma, per un’altra quarantina d’anni, male che vada, possiamo stare tranquilli. 

L’operazione di Newton non comportò l'uso di nulla di "complicato" come i suoi calcoli infinitesimali, ma l'aritmetica piuttosto semplice che potrebbe essere eseguita da un bambino. A partire dal 1670, continuando fino alla fine della sua vita nel 1727, Newton considerò diverse date di inizio per l'istituzione formale dell'Apostasia, cioè la Chiesa romana. Le date di inizio considerate inizialmente furono il 607 e il 609, ma, invecchiando, Newton spinse il tempo della fine sempre più lontano nel futuro. Nel manoscritto di Gerusalemme, Newton fornisce per due volte l’anno 800 per l'inizio della "supremazia del Papa". L'anno 800 è significativo poiché è l'anno in cui Carlo Magno fu incoronato imperatore da papa Leone III a San Pietro a Roma. Poiché Newton credeva che i 1260 anni corrispondessero alla durata della corruzione della Chiesa, aggiunse 1260 a 800 d.C. e arrivò alla data 2060 per la "caduta di Babilonia", la cessazione della Chiesa cattolica. Sembra che Newton credesse che la caduta potesse forse iniziare un po’ prima della fine del periodo di 1260 anni e continuare per un breve periodo dopo. Qualunque sia la cronologia precisa, Newton pensava che qualche tempo dopo la caduta della chiesa corrotta (trinitaria, cattolica), Cristo sarebbe tornato e avrebbe istituito un regno di Dio di 1000 anni sulla terra. A pagina 144 delle sue osservazioni (1733), Newton citò Daniele 7: 26-27 come prova di ciò: 
"26 Poi si terrà il giudizio e gli sarà tolto il dominio; verrà distrutto e annientato per sempre. 27 Allora il regno, il potere e la grandezza dei regni che sono sotto tutti i cieli saranno dati al popolo dei santi dell'Altissimo; il suo regno è un regno eterno, e tutte le potenze lo serviranno e gli ubbidiranno".  
Newton sposò un'escatologia millenarista e così sostenne che Cristo sarebbe tornato sulla terra per stabilire il Millennio. 


Cosa credeva che sarebbe accaduto intorno al 2060? Newton era convinto che Cristo sarebbe tornato intorno a questa data e avrebbe stabilito un Regno globale di pace. Anche "Babilonia" (la corrotta Chiesa romana) sarebbe caduta, e il vero Vangelo sarebbe stato predicato apertamente. Prima della Seconda Venuta, gli ebrei sarebbero tornati in Israele secondo le previsioni fatte nella profezia biblica. Anche il Tempio sarebbe stato ricostruito. Un po’ prima, o attorno al tempo del ritorno di Cristo, la grande battaglia di Armageddon sarebbe avvenuta quando una serie di nazioni (la "confederazione di Gog e Magog" della profezia di Ezechiele) avrebbe invaso Israele. Cristo e i santi sarebbero quindi intervenuti per stabilire un regno di Dio di 1000 anni in tutto il mondo. Citando il profeta Michea, Newton credeva che questo Regno avrebbe inaugurato un periodo di pace e prosperità, un periodo in cui le persone avrebbero "trasformato le loro spade in vomeri e le loro lance in falci" e "le nazioni non avrebbero alzato la spada contro un’altra nazione, né avrebbero più conosciuto la guerra" (Michea 4: 3). Newton credeva che ci sarebbe stato un esito positivo alla guerra e alla distruzione che si sarebbe verificata alla fine dei tempi. Newton prese sul serio la visione profetica della pace mondiale trovata in Isaia 2 e Michea 4, una visione che vede Gerusalemme come l'inizio della pace. È quindi forse appropriato che la più grande collezione di documenti profetici di Newton si trovi ora a Gerusalemme. 

Newton non era uno "scienziato" nel senso moderno del termine. Era invece un "filosofo naturale". La filosofia naturale includeva non solo lo studio della natura, ma anche lo studio della mano di Dio sull'opera della natura. Newton aveva un’idea di filosofia naturale che vedeva la scoperta di Dio e dei suoi attributi come il suo fine principale. Per questo motivo, qualsiasi studio serio sulla filosofia naturale di Newton deve includere una comprensione delle sue opinioni teologiche. Per esempio, i famosi concetti di Newton sullo spazio e il tempo assoluti erano fondamentalmente basati sulla sua idea dell'onnipresenza di Dio e della durata eterna. È anche chiaro dai suoi manoscritti privati che Newton riteneva che il filosofo naturale ideale sarebbe stato anche un sacerdote della natura. Per Newton, non esisteva una barriera impermeabile tra la religione e ciò che ora chiamiamo scienza. Durante tutta la sua lunga vita, Newton si sforzò di scoprire la verità di Di,  sia nella Natura che nella Scrittura. Pur riconoscendo distinzioni disciplinari, Newton credeva che la verità fosse una. Quindi, lo studio di Newton sulla natura e le Scritture erano in un certo senso due metà di un tutto: la scoperta della mente di Dio. 

È importante notare che Newton non credeva che il mondo avrà una "fine" nel senso di cessare di esistere o di bruciarsi in fiamme sacre. La sua filosofia dei tempi della fine assomiglia a quella di un numero sorprendente di evangelici di oggi: Cristo ritornerà e regnerà per un millennio, la diaspora ebraica tornerà in Israele e, scrisse, creerà "un regno fiorente ed eterno". 

Come in molti hanno sostenuto, nonostante la concezione di Newton della sua opera scientifica come baluardo contro altre teologie, alla fine essa è diventata una base per una visione laica, che può tollerare forme di teismo accanto a posizioni decisamente agnostiche, e ha permesso agli scienziati di fare previsioni accurate per centinaia di anni. La fisica del XX secolo ci ha mostrato un universo molto più radicalmente instabile di quanto Newton abbia mai immaginato; le sue teorie sono, come dice Isaac Asimov, "non tanto errate quanto incomplete", ma ancora essenziali per la nostra comprensione di certi fenomeni fondamentali. Ma per quanto stimolanti e curiosi possano essere gli altri interessi di Newton, non c'è ragione per accreditare i suoi calcoli profetici più di quelli di qualsiasi moderna setta apocalittica.


domenica 24 dicembre 2017

Newton, Pitagora e la Prisca Sapientia


È curioso che la maggior parte degli uomini che parteciparono alla rivoluzione scientifica, i contributi dei quali sembrano così originali e innovativi, erano convinti di stare semplicemente riscoprendo il grande corpus di sapienza originaria (Prisca Sapientia) che era stata posseduta dagli antichi, e che era andato perduto o dimenticato durante i secoli. Questa credenza non era del tutto inventata, perché le grandi opere, sia materiali, sia intellettuali, delle civiltà classiche erano (e, in qualche misura, sono) davvero impressionanti (basti pensare alle conoscenze scientifiche di epoca ellenistica messe in luce da Lucio Russo nel prezioso saggio La rivoluzione dimenticata).

La cultura intellettuale dell'Occidente europeo declinò realmente dopo la caduta di Roma, e le istituzioni in grado di preservare e trasmettere la conoscenza, così come l’attitudine a farlo, furono fortemente ridotte. Perciò, dopo una così lunga assenza, quando si riscoprirono gli antichi testi, gli umanisti e poi gli intellettuali del Rinascimento e dei secoli successivi erano consapevoli della loro inferiorità di fronte agli “antichi”. Inoltre, il fatto che molti degli antichi testi erano disponibili solamente in forma frammentaria, spesso come traduzioni di terza mano, e molti dei riferimenti fossero a opere totalmente sconosciute e presumibilmente perse, contribuì alla credenza che gli antichi avessero saputo molto di più, se solo avessimo potuto scoprirlo.

Questa attitudine rispetto al passato è, in qualche maniera, l’esatto opposto dell’idea che abbiamo oggi, che è quella di una sequenza totalmente ordinata di epoche che sono progredite da una minore conoscenza nel passato a una maggiore nel futuro. È difficile per noi immaginare il clima intellettuale tra persone che pensavano (sapevano) di essere scientificamente e matematicamente inferiori ai loro antenati di un lontano passato, di cui bisognava riscoprire i segreti.

In realtà il cammino della scienza moderna, almeno nei suoi secoli iniziali, è stato tutt’altro che lineare, essendo la mentalità scientifica una delle componenti di un’incredibile accozzaglia di idee, concetti e teorie razionali, semi-razionali, moderatamente originali o del tutto folli, che spesso convivevano in una stessa figura di erudito o filosofo naturale. Anche la biografia di tanti matematici del tempo presenta aspetti fortemente contraddittori, così pervasi di mentalità magica assieme a intuizioni e opere geniali.

Siamo poi abituati a considerare così assodate certe conoscenze da ignorare o dimenticare quanto queste nascano da un lungo processo di tentativi ed errori, da uomini per loro natura incoerenti e viventi in società e tempi contraddittori, così ci stupiamo di come uomini di grande valore potessero elaborare le loro straordinarie scoperte e contemporaneamente credere in idee sbagliate, coltivare passioni bizzarre, auspicare la realizzazione di sogni messianici. Esemplare è, a questo proposito, la figura di Nepero (John Napier), che inventava i logaritmi ma li considerava un passatempo di fronte alla sua grande missione di rovesciare il papa di Roma (che, tanto per cambiare, considerava l'Anticristo).

Inoltre, il valore immutato del sapere che ci era giunto, e quella sorta di immortalità che esso dava ai suoi autori, che erano sopravvissuti a un millennio e più di oblio solo per suscitare meraviglia quando erano infine riscoperti, fu una fonte di fascino immenso, e inevitabilmente indusse gli uomini a partecipare al processo, anche se solo (all’inizio) con la traduzione e la copiatura delle grandi opere.

Tra le figure più ammirate dell’antichità spicca Pitagora, oggetto di un mito duraturo, iniziato già ai tempi in cui era attiva la sua scuola a Crotone nel VI secolo a. C. e proseguito nel corso dei secoli attraverso fonti disparate che avevano tramandato le facce di un enigmatico semidio: sciamano, taumaturgo, mago, ierofante, ma anche matematico, fisico, riformatore morale e politico. Per quanto Pitagora fosse originario di Samo, parlasse greco e agisse nelle colonie greche dell’Italia meridionale (la Magna Grecia), i filosofi di Crotone e Taranto, anch’essi di stirpe greca, che ne avevano riportato e sviluppato gli insegnamenti furono designati da Aristotele come Italici. I Latini sfruttarono l’ambiguità della definizione di “scuola italica” a scopi patriottici, utilizzando anche la variante del racconto che attribuiva al filosofo origini etrusche. In quel contesto si ebbe persino la fusione della leggenda pitagorica con quella di Numa Pompilio, il re-sacerdote e riformatore romano che sarebbe stato allievo di Pitagora (mentre era vissuto un secolo e mezzo prima dello sbarco del filosofo in Calabria).

Il mito pitagorico fu tramandato attraverso gli scritti di Aristotele (che però contestava l’idea pitagorica che tutto in natura è numero, e che i numeri sono cause delle cose) e, in chiave più mistica ed esoterica (che privilegiava i detti oracolari, la dottrina dell’anima e della reincarnazione, il simbolismo arcano dei numeri, l’idea di un’Anima Mundi che governasse tutte le cose terrestri e celesti), dai filosofi neoplatonici e anche da alcuni autori cristiani. I frammenti biografici e dottrinali giunti dai tempi immediatamente successivi al fiorire della scuola pitagorica furono integrati da un vasto insieme di leggende, che andarono a infoltire la letteratura e il mito del filosofo di Samo, deformandolo e falsificandolo, spesso con evidenti contraddizioni tra una fonte e l’altra.


Parzialmente dimenticato dopo la fine dell’antichità, il mito pitagorico ebbe una nuova fioritura nei decenni centrali del Quattrocento, quando il revival neoplatonico, originato dalla diaspora bizantina precedente e successiva al crollo dell’Impero d’Oriente (1453) e dall’arrivo di una gran mole di opere greche, portò con sé anche la rivalutazione di colui che, a torto, era considerato maestro del filosofo ateniese al pari di Socrate. Marsilio Ficino (1433-1499) e Pico della Mirandola (1463-1494) furono tra gli umanisti italiani che più contribuirono al rinnovarsi del mito. Per Ficino esisteva una lunga catena iniziatica che comprendeva Zoroastro, Ermete Trismegisto, Orfeo, Pitagora, Platone e infine Plotino. La sapienza di questi maestri, frutto della rivelazione divina, fu nascosta al volgo sotto il velo di favole e misteri, fu poi rivelata da Cristo, ma di nuovo perduta dopo di lui. Nella prefazione alla sua traduzione delle opere di Plotino, scriveva:
“Era costume degli antichi teologi occultare i misteri divini con numeri e figure matematiche, o con finzioni poetiche, per non divulgarli a caso”
e il vincolo della segretezza e della trasmissione orale della conoscenza in uso nella setta pitagorica ben si adattava a questa opinione.

Pico attuò invece un’audace sintesi tra le teorie numerologiche di origine pitagorica e la Kabbalah ebraica, aprendo la strada a tutte le interpretazioni cabalistiche cristiane delle Scritture e alle elucubrazioni numerologiche e angeliche dei due secoli successivi (da Johannes Reuchlin a John Dee e, in misura minore, Giordano Bruno). Nel pitagorismo Pico indicò la chiave della numerologia mistica, musicale, simbolica, ben distinta, secondo Platone, dalla matematica volgare “del mercante”. Fu in questi ambienti che emerse l’idea della distinzione tra numero numerante e numero numerato, cioè tra il numero considerato in chiave simbolica e mistica, origine e mistero della realtà, e quello, profano, utilizzato nei calcoli e nelle misure.

La scoperta, ai primi del Cinquecento, della soluzione generale delle equazioni polinomiali di terzo grado viene considerata da alcuni come un punto di svolta significativo nella storia della scienza, perché fu la prima volta che un uomo “moderno” fece una scoperta scientifica che andò oltre la conoscenza degli antichi. Nacque così la prospettiva stuzzicante di “migliorare” gli antichi e ciò fu un incentivo incredibilmente potente per fare nuove scoperte. Non sorprende che Galileo Galilei (1564-1642), esponente di un nuovo clima intellettuale, tracci una netta linea di demarcazione tra matematica e numerologia, relegando quest’ultima tra le pseudoscienze. Così leggiamo nel Dialogo sui massimi sistemi (1632) la risposta sferzante di Salviati (che esprime le idee di Galileo stesso) alle argomentazioni del pedante Simplicio:
SIMPLICIO. Par che voi pigliate per ischerzo queste ragioni: e pure è tutta dottrina dei Pittagorici, i quali tanto attribuivano a i numeri; e voi, che siete matematico, e, credo anco, in molte opinioni filosofo Pittagorico, pare che ora disprezziate i lor misteri.

SALVIATI. Che i Pittagorici avessero in somma stima la scienza de i numeri, e che Platone stesso ammirasse l’intelletto umano e lo stimasse partecipe di divinità solo per l’intender esso la natura de’ numeri, io benissimo lo so, né sarei lontano da farne l’istesso giudizio; ma che i misteri per i quali Pittagora e la sua setta avevano in tanta venerazione la scienza de’ numeri sieno le sciocchezze che vanno per le bocche e le carte del volgo, non credo io in veruna maniera.
La magia pitagorica dei numeri non ebbe più corso presso la cerchia dei matematici di punta del Seicento (Cavalieri, Wallis, Cartesio, Leibniz, Fermat, ecc.), i quali dimenticarono il misticismo dei numeri interi per gli algoritmi da applicare a vecchi e nuovi campi di indagine: la quadratura delle curve, il calcolo delle tangenti, le tecniche del calcolo infinitesimale.

L’eredità pitagorica, sotto questo punto di vista, restò estranea agli sviluppi della matematica, che riprendeva piuttosto una serie di problemi lasciati insoluti da altri autori: Archimede, Apollonio, Euclide, Pappo. Tuttavia, la fascinazione per la Prisca Sapientia continuò a operare. Ancora alla fine del Seicento uomini come Pierre de Fermat (1601-1665) sviluppavano le loro idee originali sotto forma di “ricostruzioni” speculative di opere perdute dell’antichità. Fermat portò a compimento una ricostruzione dell’opera perduta di Apollonio di Perga sui Luoghi piani, portando direttamente allo sviluppo di ciò che oggi chiamiamo geometria analitica (non mancò una disputa sulla primogenitura tra lui e Cartesio). John Wallis (1616-1703) scrisse che la progressione distintamente criptica di molte delle presentazioni di Archimede gli sembrava:
“Come se ci fosse il proposito stabilito di coprire le tracce delle sue ricerche, come se avesse voluto negare ai posteri il segreto del suo metodo di indagine, mentre desiderava ottenere da essi l’assenso ai suoi risultati. Non solo Archimede, ma quasi tutti gli antichi nascosero così ai posteri il loro metodo di Analisi (anche se è chiaro che ne avevano uno), che i matematici più moderni trovarono più facile inventare una nuova analisi che cercare di trovare la vecchia”.
Cartesio (1596-1650), nella quarta delle sue Regulae, andò oltre, e cominciò a mettere in dubbio la sapienza degli antichi:
“Abbiamo prove sufficienti che gli antichi geometri facevano uso di una certa “analisi” che applicarono per la risoluzione dei loro problemi, sebbene, come sappiamo, essi celarono ai loro successori la conoscenza di questo metodo. (…) Sono convinto che certi semi primordiali di verità seminati dalla natura nelle nostre menti umane, semi che sono soffocati in noi a causa della lettura e dell’ascolto, giorno dopo giorno, di così tanti diversi errori, hanno avuto una tale vitalità in quel grezzo e semplice mondo antico che la luce della mente (…) consentì loro di riconoscere le idee vere nella filosofia e nella matematica, sebbene essi non fossero ancora capaci di ottenere una vera padronanza di esse (…) Questi scrittori, sono propenso a credere, con una certa astuzia nociva, tennero i segreti di questa matematica per se stessi”.
Come si vede, anche quando persisteva l’idea di una antica sapienza nascosta, i riferimenti non erano più a Pitagora, ma ad altri autori. Il mito pitagorico sarebbe veramente finito nell’oblio se non fosse stato sorprendentemente recuperato dal maggior matematico di quel periodo, Isaac Newton (1642-1727).



La prima versione dei Principia mathematica, intitolata De mundi systemate, scritta in modo divulgativo nel 1686 e mai data alle stampe, si apre in questo modo solenne:
“La più antica opinione dei Filosofi era che le stelle fisse stavano senza muoversi nelle parti più alte del Mondo, e che i pianeti giravano attorno al Sole sotto queste stelle; che allo stesso modo la Terra viene mossa in un corso annuale, così come con un moto giornaliero intorno al proprio asse, e che il Sole, o cuore dell’Universo, resta fermo al centro di tutte le cose. Questa era infatti la credenza di Filolao, di Aristarco di Samo, di Platone nei suoi anni più maturi, della setta dei Pitagorici, e (molto più antichi di questi), di Anassimandro e del più saggio dei re dei Romani, Numa Pompilio. Quest’ultimo eresse un tempio a Vesta, di forma circolare, e ordinò che vi bruciasse al centro un fuoco perpetuo, a simboleggiare la forma rotonda dell’Orbe con il fuoco solare al suo centro”.
Come si vede, egli era chiaramente influenzato dalla tradizione che attribuiva ogni tipo di sapere e conoscenza segreta agli “antichi”, non solo quella matematica. Ma c’è di più.

Tra il febbraio 1693 e i primi mesi del 1694, Newton si mise nei panni del filologo classico per dimostrare, a suo modo, una tesi nobile, e cioè che gli antichi filosofi avevano intuito due millenni prima di lui la fisica matematica e la meccanica celeste esposte nella prima edizione dei Principia mathematica (1687). Attente letture di decine di autori antichi e dei loro commentatori lo avevano convinto che i veteres avevano compreso i fondamenti dell’astronomia gravitazionale. Non aveva forse scritto Plutarco nel De facie Lunae che, secondo i filosofi, la Luna è un satellite della Terra, anzi un’altra Terra, così come lo sono tutti gli altri pianeti? Democrito e Lucrezio non avevano confermato che questi centri di gravità si attraggono reciprocamente?

Newton, nei cosiddetti Scolii classici, passa a interpretare una serie di testimonianze su Pitagora, al quale attribuisce la scoperta della legge dell’inverso dei quadrati. La formula, scrive, è implicita nella divinizzazione pitagorica del Sole come “carcere di Giove”, definizione che nasconde la “grandissima forza d’attrazione con la quale tiene prigionieri i pianeti nelle loro orbite”. E l’antica metafora di Pan, che suona e modula il mondo come uno strumento musicale, va interpretata come l’armonia cosmica dell’Anima Mundi: il mondo, che è il tempio di Dio, obbedisce a una legge matematica semplice e suprema, che fa sì che i corpi si attraggono secondo una forza direttamente proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale alle loro distanze.

Non ancora soddisfatto, l’inglese prende in considerazione la scala musicale pitagorica e cita il celebre aneddoto della scoperta degli intervalli musicali. Secondo la versione di Macrobio, Pitagora verificò nell’officina di un fabbro la legge di corrispondenza tra i vari accordi, la lunghezza delle corde e i pesi che le sollecitano. Newton evita di accennare al fatto che Pitagora parlava di numeri interi e pare che ignori volutamente la confutazione attuata da Keplero nel III libro dell’Harmonice Mundi (1619), secondo la quale gli intervalli consonanti dipendono da quantità continue, geometriche, e non dai numeri [naturali] che sono quantità discrete. Newton si limita a interpretare l’aneddoto in chiave simbolica, per cui Pitagora avrebbe conosciuto la legge dell’inverso dei quadrati e
“applicò ai cieli e in tal modo apprese l’armonia delle sfere (…) intendendo l’armonia dei cieli nel senso che i pesi dei pianeti verso il sole (verso il quale tutti danzano come al suono della lira) sono reciprocamente come i quadrati delle loro distanze”
L’inglese, tra i suoi contemporanei, fu uno degli ultimi a esprimere l’idea che essi avessero nascosto la loro scienza sotto metafore e immagini mitiche. Soprattutto, fu il solo a scegliere Pitagora come suo predecessore in fisica e matematica.

Le considerazioni filologiche di Newton, destinate a commentare una serie di proposizioni di dinamica celeste del III libro dei Principia, rimasero allo stato di abbozzi manoscritti e non furono mai pubblicate. Si potrebbe osservare che, così facendo, egli si mostrò restio a farli conoscere. Eppure decise di affidare questi scolii all’astronomo e matematico scozzese David Gregory (1661-1708) perché ne divulgasse il contenuto. Così le considerazioni su Pitagora comparvero nella trascrizione che ne fece Gregory presentando uno dei primi manuali di astronomia newtoniana, gli Astronomiae physicae et geometricae elementa (1702), pubblicato in inglese nel 1726.



Come tutti gli uomini dei suoi tempi, come tutti gli uomini, anche il più grande scienziato della sua epoca dimostra che si può essere geniali e allo stesso tempo legati a pregiudizi e idee pseudoscientifiche. La sua interpretazione di retroguardia non ebbe conseguenze in campo matematico, ma ravvivò ancora per qualche tempo il mito dell’antica sapienza italica, soprattutto ad uso dell’orgoglio patriottico dei filosofi e dei politici italiani, sino al nazionalismo risorgimentale e all’epoca fascista.

------

Questo articolo è comparso sul numero 01/2017 di Archimede, la rivista per gli insegnanti e i cultori di matematiche pure e applicate.

domenica 27 marzo 2016

Hooke vs. Newton


In un breve manoscritto non datato, intitolato “La verità sul caso e la controversia tra Sir Isaac Newton e il dottor Robert Hooke sulla priorità di quella nobile ipotesi del moto dei pianeti intorno al Sole come loro centro” (A True state of the Case and Controversy between Sr Isaak Newton and Dr Robert Hooke as the Priority of that Noble Hypothesis of Motion of ye Planets about ye Sun as their Centers), Hooke esponeva la sua ipotesi sulla fisica del moto orbitale e la sua teoria della gravitazione universale. Il memorandum di Hooke, che rimase inedito fino a dopo la sua morte, è assai accurato storicamente, e contraddice le numerose critiche dei suoi contemporanei e degli storici della scienza sul fatto che egli avesse sempre rivendicato per sé più meriti di quanto effettivamente gli competessero.

In effetti, per sostenere la sua priorità, Hooke citava alla lettera da diversi documenti esistenti:
 − la trascrizione della sua conferenza sui "Movimenti Planetari come Problema Meccanico", tenuta presso la Royal Society il 23 maggio 1666;
− la sua monografia di 28 pagine intitolata "Un tentativo di provare il moto della Terra tramite osservazioni" (An Attempt to prove the motion of the Earth by Observations), pubblicata nel 1674;
− la sua lunga corrispondenza con Newton dell’autunno del 1679.

Tuttavia, Hooke non faceva menzione del suo importante studio sul moto orbitale per il moto di una forza centrale, basato sull’applicazione dei suoi principi fisici, ritrovato nel secolo scorso in un manoscritto datato settembre 1685 è mai pubblicato dall’autore.

Come si può vedere,  la costruzione geometrica di Hooke (sopra) è praticamente la stessa di quella descritta da Newton (sotto), in relazione con la sua prova della legge delle aree di Keplero contenuta nel De Motu, una breve nota che Newton inviò alla Royal Society nel 1684, che poi ampliò nella sua monumentale opera, i Principia.

Nel suo scritto, Hooke riferisce che già nel 1666 egli aveva ipotizzato che il moto dei pianeti intorno al Sole può essere interpretato come “la trasformazione di un moto rettilineo (inerziale) in una curva, per l’effetto dell’intervento di un principio attrattivo”, l’attrazione gravitazionale della nostra stella. Egli sosteneva questa nuova visione fisica con un’analogia meccanica, vale a dire il moto di un doppio pendolo conico, che dimostrò sperimentalmente facendolo pendere dal soffitto della sala dove parlò ai membri della Royal Society. 

Egli analizzò anche matematicamente il moto del pendolo, dimostrando che la forza netta diretta verso l’asse del pendolo cresceva linearmente [e non con legge quadratica] con la distanza, riconoscendo che essa “sembra comportarsi diversamente nell’attrazione del sole...”

Nella sua monografia del 1674, che contiene il testo della sua prima conferenza tenuta al Gresham College di Londra nel 1670, Hooke ribadiva i suoi principi fisici sull’origine del moto curvilineo per l’azione di una forza attrattiva, e in seguito annunciava la sua “supposizione” della legge di gravitazione universale, cioè che:
Assolutamente tutti i corpi celesti possiedono un’attrazione o un potere di gravitazione verso i loro stessi centri, per cui essi attraggono non solo le loro stesse parti e le trattengono dal volar lontano da loro, come si può vedere che fa la Terra, ma essi attraggono anche tutti gli altri corpi celesti che sono nella sfera della loro attività”.
Per quanto è dato sapere, questa affermazione è la prima ipotesi mai pubblicata che la forza di gravità che attrae gli oggetti verso la superficie della Terra agisce anche tra i corpi celesti. Hooke elaborò la sua teoria supponendo che:
 “(…) non solo il Sole e la Luna hanno un’influenza sul corpo e il movimento della Terra e la Terra su di essi, ma che anche Mercurio, Venere, Marte, Saturno e Giove, con i loro poteri attrattivi, hanno un’influenza considerevole sul suo moto, come nella stessa maniera il corrispondente potere attrattivo della Terra ha una considerevole influenza anche su ciascuno dei loro movimenti”. 
A dire il vero, un resoconto della monografia di Hooke del 1674 che introduceva l’idea della gravitazione universale era comparso su The Philosophical Transactions, Vol. IX, 101, 12, (1674), e quattro numeri più tardi erano stati pubblicati estratti di diverse lettere che contenevano commenti, tra le quali uno di Huygens. Evidentemente, dopo la pubblicazione dei Principia nel 1687, la priorità di Hooke nel proporre la gravitazione universale era stata dimenticata. 

Nella prima edizione dei Principia, l’ipotesi di Hooke sulla gravitazione universale non era citata, mentre nella seconda (1713), Newton lasciò che il suo editore, Roger Cotes, ammettesse nella prefazione 
“che la forza di gravità sia in tutti i corpi universalmente, altri lo hanno sospettato o immaginato, ma Newton è stato il primo e unico capace di dimostrarlo dai fenomeni e di renderlo un solido fondamento delle sue brillanti teorie”

Anche questa piccola concessione ad “altri” fu tolta nella terza e definitiva edizione dell’opera (1726). Apparentemente, dopo aver sentito delle rivendicazioni sulla priorità di Hooke, Newton eliminò molti riferimenti a Hooke nelle prime bozze del testo. In una lettera a Halley, Newton si lamentava che: 
“Egli [Hooke] non sapeva come metterci mano. Adesso non è invece molto elegante? I matematici che scoprono, risolvono e fanno tutto il lavoro devono accontentarsi di essere nient’altro che degli aridi calcolatori e uomini di fatica, e un altro che non fa niente, ma pretende, si accaparra tutte le cose e spazza via tutta la scoperta così come quelli che lo dovevano seguire e quelli che lo hanno preceduto”. 
Nel suo memorandum, Hooke non sosteneva di sapere come la forza gravitazionale varia con la distanza, supponendo solamente “che questi poteri attrattivi sono tanto più potenti nell’agire quanto più vicino il corpo è portato al loro stesso centro”. Proponeva invece che questa dipendenza fosse determinata sperimentalmente, e ipotizzò che essa “assisterà fortemente l’Astronomo a ridurre tutti i moti celesti a una certa regola, che dubito potrà mai essere trovata senza di essa”. Infine, Hooke ricordava di aver comunicato i suoi principi del moto orbitale in una corrispondenza con Newton. In una lettera del 24 novembre 1679, egli chiese esplicitamente a Newton 
(…) se come grande favore potreste gentilmente farmi sapere le vostre obiezioni contro la mia Ipotesi o opinione, se mi faceste conoscere i vostri pensieri su questa composizione di moti celesti dei pianeti dal moto diretto per la tangente e un moto attrattivo verso il corpo centrale”. 

Hooke nota che “in risposta a ciò, Newton pretende di non conoscere l’ipotesi”, riferendosi alla risposta di Newton del 28 novembre, che sosteneva 
(…) forse siete più propenso a credermi quando vi dico che non ho ricevuto in precedenza la vostra ultima lettera piuttosto che sentire [che ricordo] della vostra ipotesi di comporre i moti celesti dei pianeti da un moto diretto per la tangente alla curva (…)”. 
Nella stessa lettera, tuttavia, Newton osservava “sono lieto di sentire che questa notevole scoperta che avete fatto del parallasse annuale della Terra è confermata dalle osservazioni del signor Flamsteed. Poiché Hooke non aveva fatto menzione del proprio ruolo in questa presunta scoperta, questa osservazione indica che Newton già conosceva la monografia di Hooke del 1674, in cui questi aveva pubblicato le sue osservazioni, che aveva erroneamente interpretato come dovute al parallasse annuale della Terra. Ma nella monografia Hooke aveva anche enunciato i suoi principi sulla dinamica orbitale, che Newton “pretendeva” di non aver mai sentito. 

Rimane aperta la questione su quanto Newton possa aver appreso dalla sua corrispondenza con Hooke del 1679. La prima bozza di Newton, il Waste book, indica che già nel 1664 egli stesse studiando il moto circolare uniforme per l’azione di una serie di impulsi su un corpo in movimento diretti verso il centro dell’orbita circolare. È pertanto sbagliato sostenere, come hanno fatto diversi storici della scienza, che Newton abbia appreso da Hooke quest’idea sul moto orbitale. 

È tuttavia sorprendente che, nella sua lettera a Hooke del 28 novembre, Newton sostenesse di non essere a conoscenza che Hooke aveva avuto idee simili sul moto orbitale, perché Newton aveva letto la sua monografia del 1674. Nel suo memorandum, Hooke rammentava che nella sua lettera di risposta aveva ricordato a Newton che 
 “(…) potrei aggiungere molte altre considerazioni che sono in accordo con la mia teoria dei moti circolari composti da un moto diretto e da uno attrattivo verso un centro”. 
In seguito, nella sua corrispondenza del 1686 con Halley riguardante ciò che aveva sentito sulle pretese di priorità di Hooke, Newton si concentrò principalmente sulla scoperta della dipendenza della forza gravitazionale dall’inverso del quadrato della distanza, omettendo di citare la prima formulazione di Hooke dei principi della dinamica orbitale e la teoria della gravitazione universale.

Secondo David Gregory, che visitò Newton a Cambridge nel 1694, 
(…) vidi un manoscritto [scritto] prima del 1669 (…) dove sono stesi tutti i fondamenti della sua filosofia: in particolare la gravità della Luna verso la Terra, e dei pianeti verso il Sole. E effettivamente tutte queste sono poi anche soggette al calcolo (…)”. 
Il manoscritto, che si trova tra le carte ancora esistenti di Newton, indica che nel 1669 Newton era andato molto più in là che Hooke, avendo riscoperto la relazione matematica per l’accelerazione radiale o forza centrale nel caso di un moto circolare uniforme, che era stata scoperta in precedenza da Christiaan Huygens, ma non pubblicata fino al 1673, quando fu pubblicato l’Horologium Oscillatorium. Newton applicò questa relazione al moto planetario e, ritenendo che essa soddisfaceva la legge armonica di Keplero, scoprì che 
“Le forze di allontanamento dal Sole sono reciprocamente come i quadrati della distanza da esso”.
Newton ipotizzò che tale dipendenza dalla distanza si applicava anche alla forza di attrazione della Luna sulla Terra, che tentò di identificare con la forza gravitazionale che agisce sui corpi sulla superficie terrestre. Tuttavia, a causa di un errore nel valore del raggio terrestre che aveva utilizzato nei calcoli, fu portato a pensare erroneamente che la dipendenza dall’inverso del quadrato non fosse accurata per la gravità terrestre. 

In effetti, fu solo quando scoprì il suo errore intorno al 1685, applicando al suo calcolo il valore del raggio terrestre corretto da Jean Picard, che Newton provò che la dipendenza è valida sulla superficie di qualsiasi corpo sferico. Nella sua corrispondenza con Halley del 1686, nella quale rigettava le accuse di Hooke sulla dipendenza dall’inverso del quadrato, egli scriveva che 
“Il signor Hooke, senza conoscere ciò che ho trovato sin dalle lettere che mi inviò, non può sapere altro che la proporzione è duplicata approssimativamente a grandi distanze dal centro, e può solo avere indovinato ciò che ho calcolato accuratamente, e immagina per sbaglio di estendere quella proporzione fino al vero e proprio centro”. 
Newton utilizzò più volte il verbo “indovinare” per sottolineare che Hooke non aveva fornito alcuna prova matematica della sua ipotesi “che l’attrazione è sempre in una proporzione duplicata reciprocamente alla distanza dal centro”, come Hooke gli aveva scritto. In una lettera a Halley, Newton segnalava che:
"nella teoria sono chiaramente davanti al signor Hooke. Infatti egli, circa un anno dopo [1673], nel suo tentativo di provare il moto della Terra, dichiarò di non aver ancora verificato sperimentalmente il modo in cui la gravità diminuiva, cioè non sapeva come ricavarlo dai fenomeni, e pertanto raccomandava che altri proseguissero il lavoro”
Newton affermava inoltre che Hooke aveva esteso la proporzione dell’inverso del quadrato all’interno della Terra. Al contrario, Hooke aveva correttamente indicato che all’interno della Terra la forza di gravità varia linearmente con la distanza dal centro, sostenendo che 
“Immagino piuttosto che, quanto più il corpo si avvicina al Centro, tanto meno sarà sottoposto all’attrazione – possibilmente qualcosa come la gravitazione di un pendolo o un corpo mosso in una sfera concava dove la forza decresce continuamente tanto più vicino il corpo si avvicina a un moto orizzontale (…)” 
Il 13 dicembre 1679 Newton scrisse un’importante lettera a Hooke, nella quale si può vedere che a quella data aveva raggiunto una profonda comprensione della fisica del moto causato da una forza centrale, e fornisce la prova che aveva sviluppato un metodo matematico approssimato molto efficace per calcolare le orbite per diverse forze centrali. La lettera contiene un diagramma (sotto) che mostra la traiettoria di un corpo sotto l’azione di una forza centrale di grandezza costante. Hooke rispose immediatamente che 
"Il vostro calcolo della curva di un corpo attratto da una forza uguale a tutte le distanze dal centro, come quello di una palla che rotola in un cono concavo rovesciato, è corretto, e i due apogei [i punti più lontani dal centro di forza] non si uniranno per circa un terzo di una rivoluzione”. 


Hooke deve essere stato molto sorpreso che Newton fosse in grado di calcolare una traiettoria che precedentemente egli aveva osservato in uno dei suoi esperimenti meccanici per comprendere il moto orbitale. Nel testo della lettera a Hooke, Newton discuteva anche i cambiamenti dell’orbita quando la forza cresce al diminuire della distanza dal centro o, con le sue parole, 
“Così ritengo che possa essere se la gravità fosse la stessa a tutte le distanze dal centro. Ma se si suppone più grande vicino al centro, il punto O [più vicino al centro C] può cadere sulla linea CD o nell’angolo DCE o negli altri angoli che seguono, o anche da nessuna parte. Perché l’aumento della gravità nella discesa si può supporre tale che il corpo discenderà continuamente con un infinito numero di rivoluzioni a spirale fino ad attraversare il centro con un moto trascendentalmente rapido”.
Pur non avendo identificato nella lettera la legge responsabile di tale caduta “con un infinito numero di rivoluzioni a spirale”, nel 1684 tornò sull’argomento in una nota a margine di una delle prime bozze dei Principia. In questa aggiunta egli rivelava che questa forza dipende inversamente dal cubo della distanza radiale. Questa nota, tuttavia, non fu inclusa nella copia finale dell'opera, ed è stata generalmente ignorata in passato. Quindi è evidente che al tempo della sua corrispondenza con Hooke, Newton aveva già sviluppato un metodo piuttosto sofisticato per calcolare il moto orbitale intorno a forze centrali. 

Il metodo di Newton era basato sull’osservazione che, per forze centrali, la componente della forza normale all’orbita determina il suo raggio di curvatura in base alla formula di Huygens-Newton per il moto circolare, purché sia nota là velocità. Newton indicò questo legame in una criptica nota nel suo diario del 1664: 
“Se il corpo B si muove su un’ellisse, allora la sua forza in ciascun punto (se è dato il suo moto [velocità]) si può trovare con la circonferenza tangente di uguale curvatura con quel punto dell’ellisse”. 
Ma in questo approccio della curvatura è difficile vedere che la legge di Keplero delle aree (conservazione del momento angolare) è una conseguenza dell’azione di forze centrali. Newton scoprì questo fondamentale legame, che diventò una pietra angolare dei suoi Principia (proposizione 1 nel Libro 1) solo dopo la sua corrispondenza con Hooke. Per provare questo teorema, Newton doveva inizialmente rendere discreta la forza centrale continua con una serie di impulsi, e poi applicare al moto orbitale generale i principi sostenuti per lungo tempo da Hooke, che li aveva illustrati a Newton in una lettera del 1679 come “componenti il moto diretto con una curvatura verso il centro di forza”



Sebbene in precedenza Newton avesse applicato tale scomposizione al moto circolare uniforme, evidentemente l’impulso a considerarla in generale giunse da Hooke, ma Newton negò con forza di mai saputo nulla da lui, ammettendo solamente che: 
(...) La sua correzione della mia Spirale favorì la mia scoperta del Teorema con il quale in seguito ho esaminato l’ellissi; tuttavia non gli sono debitore di alcuna luce in questa questione, tranne che per la diversione che mi ha dato dagli altri miei studi (...)” 
Senza l'intervento di Hooke nel 1679 è tuttavia probabile che Newton avrebbe continuato i suoi “altri studi” [alchimia e teologia] privandoci della sua meravigliosa costruzione matematica e fisica.