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giovedì 24 novembre 2022

Il paradosso di Buzzati

 


C’è un racconto breve scritto da Dino Buzzati (1916-1972), pubblicato per la prima volta sul
Corriere della Sera il 7 ottobre 1944 e contenuto in Sessanta Racconti (1958), che, al di là dello scenario apocalittico che ogni tanto il grande giornalista, scrittore e pittore bellunese si dilettava a rappresentare con le parole o con il pennello, ricorda molto da vicino un celebre paradosso della logica. Lo si potrebbe definire “Il paradosso del confessore”. Lo riporto quasi per intero, tanto è breve, sperando di non ledere alcun diritto d’autore.


LA FINE DEL MONDO

Un mattino verso le dieci un pugno immenso comparve nel cielo sopra la città; si aprì poi lentamente ad artiglio e così rimase immobile come un immenso baldacchino della malora. Sembrava di pietra e non era pietra, sembrava di carne e non era, pareva anche fatto di nuvola, ma nuvola non era. Era Dio; e la fine del mondo. Un mormorio che poi si fece mugolio e poi urlo, si propagò per i quartieri, finché divenne una voce sola, compatta e terribile, che saliva a picco come una tromba.

(...) Finestre si spalancavano tra grida di richiamo e spavento, mentre l'urlo iniziale della città si placava a poco a poco; giovani signore discinte si affacciavano a guardare l'apocalisse. Gente usciva dalle case, per lo più̀ correndo, sentivano il bisogno di muoversi, di fare qualcosa purchessia, non sapevano però dove sbattere il capo. (...) Anche la maggior parte della gente era in lacrime, specialmente le donne. Soltanto due frati, vispi vecchietti, se n'andavano lieti come pasque: "La è finita, per i furbi, adesso!" esclamavano gioiosamente, procedendo di buon passo, rivolti ai passanti più ragguardevoli. "L'avete smessa di fare i furbi, eh? Siamo noi i furbi adesso!" (e ridacchiavano). "Noi sempre minchionati, noi creduti cretini, lo vediamo adesso chi erano i furbi!" Allegri come scolaretti trascorrevano in mezzo alla crescente turba che li guardava malamente senza osare reagire. Erano già̀ scomparsi da un paio di minuti per un vicolo, quando un signore fece come l'atto istintivo di gettarsi all'inseguimento, quasi si fosse lasciata sfuggire un'occasione preziosa: "Per Dio!" gridava battendosi la fronte "e pensare che ci potevano confessare." "Accidenti!" rincalzava un altro "che bei cretini siamo stati! Capitarci così sotto il naso e noi lasciarli andare!" Ma chi poteva più̀ raggiungere i vispi fraticelli? Donne e anche omaccioni già̀ tracotanti, tornavano intanto dalle chiese, imprecando, delusi e scoraggiati. I confessori più̀ in gamba erano spariti, si riferiva, probabilmente accaparrati dalle maggiori autorità̀ e dagli industriali potenti. Stranissimo, ma i quattrini conservavano meravigliosamente un certo loro prestigio benché́ si fosse alla fine del mondo; chissà̀, forse, si considerava che mancassero ancora dei minuti, delle ore; qualche giornata magari. In quanto ai confessori rimasti disponibili, si era formata nelle chiese una tale spaventosa calca, che non c'era neppure da pensarci. Si parlava di gravi incidenti accaduti appunto per l'eccessivo affollamento; o di lestofanti travestiti da sacerdoti che si offrivano di raccogliere confessioni anche a domicilio, chiedendo prezzi favolosi. Per contro, giovani coppie si appartavano precipitosamente senza più̀ ombra di ritegno, distendendosi sui prati dei giardini, per fare ancora una volta l'amore. La mano, intanto, si era fatta di colore terreo, benché́ il sole splendesse, e faceva quindi più̀ paura. Cominciò a circolare la voce che la catastrofe fosse imminente; alcuni garantivano che non si sarebbe giunti a mezzogiorno.

In quel mentre nella elegante loggetta di un palazzo, poco più̀ alta del piano stradale (vi si accedeva per due rampe di scale a ventaglio), fu visto un giovane prete. La testa tra le spalle, camminava frettolosamente quasi avesse paura di andarsene. Era strano un prete a quell'ora, in quella casa sontuosa popolata di cortigiane [qui Buzzati è molto malizioso, N.d.R.]. "Un prete! un prete!" si sentì gridare da qualche parte. Fulmineamente la gente riuscì̀ a bloccarlo prima che potesse fuggire. "Confessaci, confessaci!" gli gridavano. Impallidì̀, fu tratto a una specie di piccola e graziosa edicola che sporgeva dalla loggetta a guisa di pulpito coperto; pareva fatta apposta. A decine uomini e donne formarono subito grappolo, tumultuando, irrompendo dal basso, arrampicandosi su per le sporgenze ornamentali, aggrappandosi alle colonnine e al bordo della balaustra; non era del resto una grande altezza.

Il prete cominciò a raccogliere confessioni. Rapidissimo, ascoltava le affannose confidenze degli ignoti (che ormai non si preoccupavano se gli altri potevano udire). Prima che avessero finito, tracciava con la destra un breve segno di croce, assolveva, passava immediatamente al peccatore successivo. Ma quanti ce n'erano. Il prete si guardava intorno smarrito, misurando la crescente marea di peccati da cancellare. (...)

Ma un'ansia indicibile cresceva negli uomini. Uno chiese: "Quanto tempo c'è al giudizio universale?". Un altro, bene informato, guardò l'orologio. "Dieci minuti" rispose autorevolmente. Lo udì̀ il prete che di colpo tentò di ritirarsi. Ma, insaziabile, la gente lo tenne. Egli pareva febbricitante, era chiaro che il fiotto delle confessioni non gli arrivava più̀ che come un confuso mormorio privo di senso; faceva segni di croce uno dopo l'altro, ripeteva "Ego te absolvo..." così, macchinalmente.

"Otto minuti!" avvertì una voce d'uomo dalla folla. Il prete letteralmente tremava, i suoi piedi battevano sul marmo come quando i bambini fanno i capricci. "E io? e io?" cominciò a supplicare, disperato. Lo defraudavano della salvezza dell'anima, quei maledetti; il demonio se li prendesse quanti erano. Ma come liberarsi? come provvedere a sé stesso? Stava proprio per piangere. "E io? e io?" chiedeva ai mille postulanti, voraci di Paradiso. Nessuno però gli badava.

--.-- 

Povero pretino, l’unico confessore rimasto, che confessa tutti ma non può confessare sé stesso! In pratica possiamo esprimere il finale del racconto in questa forma:

“In un certo posto tutti vogliono confessarsi perché è arrivata la Fine del Mondo, ma è rimasto un solo prete, che può confessare tutti gli altri, ma non sé stesso. La domanda è: chi confessa il prete?”

Se il prete si confessasse da solo, verrebbe contraddetta la premessa implicita secondo cui il prete può confessare solo le persone che non si confessano da sole. Se invece il prete non si confessasse autonomamente, allora dovrebbe essere confessato dal prete, che però è lui stesso: in entrambi i casi si cade in una contraddizione.

Si potrebbero considerare i protagonisti della caotica situazione divisi in due insiemi:

- Quello dei preti che si confessano da soli (che è assimilabile alla categoria degli insiemi che appartengono a sé stessi).

- Quello delle persone che, non confessandosi da sole, vengono confessate dal prete (categoria degli insiemi che non appartengono a sé stessi).

Il problema è in quale categoria vada incluso il prete: infatti, sia che venisse incluso nella prima, sia che venisse incluso nella seconda, la situazione sarebbe contraddittoria. Il prete che confessa costituisce un insieme che appartiene a sé stesso se, e solo se, non appartiene a se stesso.

Sembra il barbiere di Russell.

Il paradosso del barbiere è un'antinomia formulata dal filosofo e logico Bertrand Russell per illustrare la sua famosa contestazione riguardo alla teoria degli insiemi come esposta da Gottlob Frege. L'antinomia può essere enunciata così:

«In un villaggio vi è un solo barbiere, un uomo ben sbarbato, che rade tutti e solo gli uomini del villaggio che non si radono da soli. La domanda è: il barbiere si fa la barba da solo?»

Se il barbiere si radesse da solo, verrebbe contraddetta la premessa secondo cui il barbiere rade solo gli uomini che non si radono da soli. Se invece il barbiere non si radesse autonomamente, allora dovrebbe essere rasato dal barbiere, che però è lui stesso: in entrambi i casi c’è una evidente contraddizione.

Nella sua definizione più formale il paradosso afferma:

Sia R l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a sé stessi. Allora R appartiene a sé stesso se e solo se R non appartiene a sé stesso. Simbolicamente,


Allora


se e solo se


che è una contraddizione.

Sembra che Russell abbia scoperto l’antinomia nella tarda primavera del 1901, mentre lavorava ai suoi Principles of Mathematics (1903). Cesare Burali-Forti, un assistente di Giuseppe Peano, aveva già scoperto una antinomia simile nel 1897, quando rilevò che poiché l’insieme Ω degli ordinali è ben ordinato, possiede tutte le proprietà di un numero ordinale e dovrebbe quindi essere considerato a sua volta un numero ordinale. Tuttavia, questo ordinale deve sia essere un elemento dell’insieme di tutti gli ordinali sia essere maggiore di tutti i suoi elementi, generando la contraddizione:


Diversamente dal paradosso di Burali-Forti, quello di Russell non considera ordinali o cardinali, avendo invece a che fare solo con il concetto originario di insieme.

Russell scrisse del paradosso a Frege il 16 giugno 1902. Il paradosso era fondamentale per l’attività logica di Frege poiché, mostrava effettivamente che gli assiomi che Frege stava utilizzando per formalizzare la sua logica erano inconsistenti. Nello specifico, la Regola V di Frege, che stabilisce che due insiemi sono uguali se, e solo se, i valori delle loro funzioni corrispondenti coincidono per tutti gli argomenti possibili, richiede che un’espressione come f(x) sia considerata sia una funzione dell’argomento x, sia una funzione dell’argomento f. Fu proprio questa ambiguità che consentì a Russell di costruire R in un modo tale che poteva sia essere oppure non essere un elemento di se stesso.

La lettera di Russell giunse proprio mentre il secondo volume degli Grundgesetze der Arithmetik era in procinto di essere stampato. Comprendendo subito le difficoltà che il paradosso poneva, Frege aggiunse all’opera un’appendice scritta frettolosamente in cui discuteva della scoperta di Russell. Con grande signorilità e onestà intellettuale, Frege diceva: “Uno scienziato può difficilmente scontrarsi con qualcosa di più indesiderabile che avere i fondamenti spazzati via proprio quando il lavoro è terminato. Sono stato messo in questa situazione da una lettera del signor Bertrand Russell, quando l’opera era in procinto di essere data alle stampe”. A causa di queste vicende, alla fine Frege si sentì costretto ad abbandonare molte delle sue idee sulla logica e la matematica. Egli ritenne la teoria degli insiemi responsabile della confusione che si era creata e giunse, negli ultimi anni della sua produzione scientifica, a sostenere che non si può fondare l'aritmetica sulla sola logica, perché tramite la logica sola non abbiamo la certezza che ci venga dato alcun oggetto.


Naturalmente Russell era anch’egli preoccupato per la contraddizione. Subito dopo aver letto che Frege concordava con lui sul significato della scoperta, iniziò immediatamente a scrivere un’appendice al suo
Principles of Mathematics che rappresenta il primo tentativo dettagliato di fornire un metodo corretto per evitare ciò che sarebbe divenuto noto come il “Paradosso di Russell”.

La risposta di Russell al paradosso fu la sua Teoria dei Tipi. Ravvisando che l’auto–referenza si trova nel cuore del paradosso, l’idea di fondo di Russell è che possiamo evitare il coinvolgimento di R (l’insieme di tutti gli insiemi che non sono elementi di se stessi) organizzando tutte le proposizioni (o, allo stesso modo, tutte le funzioni preposizionali) in una gerarchia. Il livello più basso di questa gerarchia consisterà di proposizioni riguardanti gli individui. Il livello successivo consisterà di proposizioni riguardanti insiemi di individui. Quello successivo consisterà di proposizioni riguardanti insiemi di insiemi di individui, ecc. È allora possibile riferirsi a tutti gli oggetti per i quali vale una data condizione (o predicato) solo se essi sono allo stesso livello o dello stesso “tipo”.

Questa soluzione al paradosso di Russell è motivata in gran parte dal cosiddetto principio del circolo vizioso, un principio che, in effetti, stabilisce che nessuna funzione preposizionale può essere definita prima di specificare lo scopo di applicazione della funzione. In altre parole, prima che una funzione possa essere definita, bisogna specificare esattamente quegli oggetti a cui si applicherà la funzione (il dominio della funzione). Ad esempio, prima di definire il predicato “è un numero primo”, bisogna prima definire la collezione di oggetti che potrebbero soddisfare il predicato, in questo caso l’insieme N dei numeri naturali.

Forse il pretino avrebbe dovuto chiedere direttamente all’Onnipotente una dilazione della Fine, o almeno un miracoloso chiarimento su come considerare il suo insieme di appartenenza. Magari gli sarebbe stato concesso. Iddio alla fine dei tempi è un creditore terribile, ma anche tremendamente divertito dalle antinomie umane.

lunedì 21 novembre 2022

Il secolare falso della Donazione di Costantino

 


La
Constitutum Constantini, la più famosa di tutte le falsificazioni medievali, fu scritta a Roma (probabilmente dalla Cancelleria pontificia), o in Francia, tra l’Ottavo e il Nono secolo, e stabilì per secoli la base giuridica per il primato clericale di papa Silvestro e dei suoi successori. Secondo il documento, l’imperatore romano Costantino Il Grande aveva ceduto al papato vaste regioni del suo impero.

La Donazione inizia raccontando la conversione di Costantino alla fede cristiana e la sua guarigione dalla lebbra ottenuta da Silvestro, Vescovo di Roma. Dopo aver così testimoniato, Costantino avrebbe poi concesso a Silvestro il primato su tutti gli altri patriarcati, rendendolo capo di tutto il clero cristiano, e fatto del papato una sorta di regno temporale, con vaste rivendicazioni territoriali a sua disposizione.

Il documento, che avrebbe recato la data del 30 marzo 315, afferma di riprodurre un editto emesso dall'imperatore Costantino. Con esso egli avrebbe attribuito al papa Silvestro I e ai suoi successori una serie di concessioni. La parte del documento su cui si basarono le rivendicazioni papali recita:
«In considerazione del fatto che il nostro potere imperiale è terreno, noi decretiamo che si debba venerare e onorare la nostra santissima Chiesa Romana e che il Sacro Vescovado del santo Pietro debba essere gloriosamente esaltato sopra il nostro Impero e trono terreno. Il vescovo di Roma deve regnare sopra le quattro principali sedi, Antiochia, Alessandria, Costantinopoli e Gerusalemme, e sopra tutte le chiese di Dio nel mondo... Infine, noi diamo a Silvestro, Papa universale, il nostro palazzo e tutte le province, palazzi e distretti della città di Roma e dell'Italia e delle regioni occidentali.»
Inoltre, la Chiesa di Roma ottenne, secondo il documento gli onori, le insegne e il diadema imperiale per i pontefici, ma soprattutto la giurisdizione civile sulla città di Roma, sull'Italia e sull’Impero Romano d'Occidente.

La donazione venne utilizzata dalla Chiesa nel medioevo per avvalorare i propri diritti sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare il suo potere temporale sulla base di una legge imperiale. Dopo l'età carolingia, la donazione fu riesumata da papa Leone IX nel 1053, e fu dunque introdotta, nel XII secolo, nel Decretum Gratiani e in altre raccolte di Decretali dalle mani di interpolatori. Essa fu considerata un documento veritiero anche dagli avversari del potere dei pontefici. Fece eccezione Ottone III, imperatore dal 996, nipote dell'Ottone ritenuto da molti fondatore del Sacro Romano Impero. Egli, infatti, spinto dalla volontà di rinnovare l'Impero, si era affrancato dal clero cercando di ottenere una posizione di potere sulla Chiesa. Per conseguire il suo fine contestò, nel 1001, la validità del documento, accusando il diacono Giovanni dalle mani mozze di esserne l'artefice. Nel medesimo testo, Ottone sancì la donazione di otto contee di sua proprietà in favore del Papato.

Alcuni secoli dopo, Dante Alighieri, nel De Monarchia, pur non ritenendo falsa la donazione, ne negava il valore giuridico, in quanto con essa l'imperatore aveva recato danno all’Impero Romano, compiendo in tal modo un atto contrario ai propri doveri istituzionali. Infatti, il poeta affermava che né Costantino aveva il diritto di donare a terzi dei territori appartenenti all'Impero, né un papa poteva comprenderli tra i propri possedimenti, in quanto avrebbe contravvenuto ai precetti evangelici riguardo all'obbligo di povertà per la Chiesa: al massimo, avrebbe potuto accettare il dono come usufruttuario. In sostanza, Dante giudicava la donazione come un atto non valido, criticando la Chiesa per averlo considerato la prova giuridica del proprio potere temporale.

Un aumento dello scetticismo in generale e più direttamente verso la presunta pietà e potere della Chiesa cattolica fu uno dei tratti distintivi del pensiero umanistico e rinascimentale. Come fondamento di molti dei diritti e dei privilegi inerenti alla Chiesa, la Donazione di Costantino venne considerata da molti con un occhio molto più critico ed è in questa atmosfera di interrogativi che Lorenzo Valla, sacerdote, umanista e retore, volle esaminare il documento contraffatto, scrivendo nel 1440 il De falso credita et ementita Constantini donatione. Va notato che il patrono politico di Valla all'epoca era Alfonso d'Aragona, coinvolto in un conflitto territoriale con lo Stato Pontificio, e si deve presumere che Valla fosse stimolato dalla sua fedeltà ad Alfonso. Finché la Donazione di Costantino continuava ad essere accettata come valida, le rivendicazioni contrastanti di monarchi come Alfonso potevano essere caratterizzate non solo come imperfette, ma in realtà anticristiane. Valla era deciso a cambiare le cose.

All'inizio del suo discorso, Valla riconosce che è probabile che incontrerà un'opposizione violenta a causa della sua opera, ma afferma coraggiosamente che "... dare la propria vita in difesa della verità e della giustizia è la via della più alta virtù, del più alto onore, della più alta ricompensa." Fornisce anche un imperativo etico al suo attacco alla Chiesa dicendo: “Né è da stimare un vero oratore che sa parlare bene, se non ha anche il coraggio di parlare. Allora abbiamo il coraggio di accusare colui, chiunque sia, che commette crimini che richiedono accusa.”

Valla poi richiama una nota vicenda degli Atti degli Apostoli, in cui Paolo rimprovera Pietro per aver evitato i gentili. C'è una grande abilità nell'uso di questa storia particolare, poiché i Papi, il cui potere Valla sta per minare, considerano la loro autorità ecclesiastica tramandata in una catena ininterrotta dallo stesso Pietro. All'occupante della Sede di Pietro dice: «Nessuno è reso immune dal rimprovero di un'autorità che non rese immune nemmeno Pietro».

A questo punto, Valla sfida direttamente i Papi per la loro complicità nel perpetrare un falso “... o per supina ignoranza, o per grossolana avarizia che è schiava degli idoli, o per orgoglio di potere di cui la crudeltà è sempre la compagna". Dopo averli accusati di stupidità o di avidità, continua a condannarli per "... disonorare la maestà del pontificato, disonorare la memoria degli antichi pontefici, disonorare la religione cristiana, confondere tutto con omicidi, disastri e crimini". In questo modo mantiene la sua fedeltà alla Chiesa come istituzione, spostando il suo attacco su individui all'interno della Chiesa che hanno usato il falso per promuovere se stessi e il potere del papato. Nell'Italia rinascimentale c'erano molti che sostenevano la riforma della chiesa rifiutandosi contemporaneamente di considerare un'alternativa all'autorità ecclesiastica, come avveniva nel nord Europa e come sarebbe drammaticamente emerso con la Riforma luterana.


Valla rivolge poi la sua attenzione al documento stesso, a cominciare dai suoi fondamenti storici, a cominciare dalla legalità di tale dono:
«[...]. Per prima cosa dimostrerò che Costantino e Silvestro non erano giuridicamente tali da poter legalmente l’uno assumere, volendolo, la figura di donante e poter quindi trasferire i pretesi regni donati che non erano in suo potere e l’altro di poter accettare legalmente il dono [...]. In seconda istanza, dimostrerò che anche se i fatti non stessero cosí (ma sono troppo evidenti), né Silvestro accettò né Costantino effettuò il trapasso del dono, ma quelle città e quei regni rimasero sempre in libera disponibilità e sotto la sovranità degli imperatori. In terza istanza dimostrerò che nulla diede Costantino a Silvestro [...]. Dimostrerò (quarto assunto) che è falsa la tradizione che il testo della Donazione o si trovi nelle decisioni decretali della Chiesa o sia estratto dalla Vita di Silvestro [...]. Aggiungerò notizie su altri falsi o su sciocche leggende relativamente a donazioni di altri imperatori. [...] aggiungerò che, anche se Silvestro avesse preso possesso di ciò che afferma di aver avuto, una volta che o lui o altro papa fosse stato scacciato dal possesso non avrebbe più possibilità di rivendica [...]. Al contrario (ultima parte della mia discussione) i beni tenuti dal papa non conoscono prescrizioni di sorta.»
Osservando divertito l'idea di un tale dono dal punto di vista dell'imperatore Costantino, si chiede quale tipo di monarca trovi naturale cedere il suo regno:
«[...]. Qualcuno di voi se si fosse trovato al posto di Costantino, avrebbe ritenuto opportuno donare per sola liberalità Roma, patria sua, capitale del mondo, regina delle città [...]? e per giunta egli si sarebbe recato in una modesta cittaduzza, quella che fu poi Bisanzio? e insieme a Roma avrebbe dato in dono l’Italia, che non è una provincia, ma la signora delle province [...]? Non mi si farà mai credere che ciò possa fare uno sano di mente.»
Eppure, molti persistevano in questa stessa idea, perché vedevano la storia mitica della conversione di Costantino come esplicativa di tutti il comportamento successivo.

Nessun sovrano avrebbe mai rinunciato a Roma e in generale a tutto l'Occidente. A quanti la giustificavano perché l'imperatore era divenuto cristiano, Valla risponde negando che il regnare fosse incompatibile con la religione cristiana, mentre per chi la sostiene spiegandola come segno di riconoscenza per la guarigione dalla lebbra la risposta è più netta: questa è una favola derivata dalla storia biblica di Naaman, risanato da Eliseo, proprio come quella della leggenda del drago fatto morire dal profeta Daniele.

La donazione, quindi, non ha alcuna plausibilità. Chi la sostiene offende Costantino, il Senato e il Popolo romano, Papa Silvestro I e il pontificato. La donazione è insostenibile anche dal punto di vista storico: per diversi secoli, nessun Papa ha mai preteso obbedienza dai sovrani, perché Roma e l'Italia erano sotto il dominio imperiale, come risulta da un'ampia documentazione storica.

Agli argomenti di ordine giuridico, psicologico e storico, Valla fa seguire una parte dedicata all'esame del documento, che conosce nella forma parziale trasmessa dal Decretum Gratiani. Intanto – osserva il filologo – il testo della donazione è assente nelle copie più antiche del Decretum: non è quindi stato inserito da Graziano, che l'avrebbe coerentemente ricordato insieme al Pactum Ludovicianum. Il Valla dimostra che la lingua della Donazione è un latino che risente degli influssi barbarici e che i riferimenti dell'opera rimandano ad un momento nel quale Costantinopoli è la nuova capitale dell'Impero Romano: la lingua non è quella di un documento dell'età costantiniana, è latino medievale.

Valla è convinto che se il ritrovato cristianesimo di Costantino fosse stato davvero la sua motivazione, più probabilmente avrebbe visto un'opportunità per portare il cristianesimo ai suoi sudditi piuttosto che semplicemente cedere le loro terre. Continua dicendo: “Sei diventato cristiano, Costantino? Allora è molto sconveniente per te ora come imperatore cristiano avere meno sovranità di quella che avevi come infedele. Perché la sovranità è un dono speciale di Dio, per il quale anche i sovrani gentili dovrebbero essere scelti da Dio”. Qui Valla ribalta le argomentazioni sulla conversione di Costantino, dicendo in effetti che diventare giusto avrebbe reso Costantino un sovrano più legittimo, non meno. Valla usa quindi esempi tratti sia dalla Bibbia che dall'antichità per dimostrare che solo perché Dio ha concesso grandi doni a un sovrano, mai prima d'ora un sovrano ha dato in cambio metà del suo impero. I riferimenti di Valla a queste fonti avevano un importante valore retorico, poiché sarebbero stati familiari al suo pubblico, essendo pilastri della letteratura rinascimentale e considerati prove conclusive del comportamento appropriato dei monarchi.

Valla continua il suo Discorso in termini più concreti, sottolineando che non esiste alcuna documentazione esistente sull'accettazione da parte di Silvestro del dono di Costantino. “Dove è la presa di possesso, la consegna? Perché se Costantino ha dato solo una carta, non voleva fare amicizia con Silvestro, ma prenderlo in giro”. Quello che Valla sta dicendo è che se un dono viene dato senza che il titolo legale passi di mano, non c'è affatto dono, ma potrebbe anche essere una presa in giro. Se una persona dovesse inviare una lettera offrendo di fare un regalo, e poi non seguire quella offerta con qualcosa che verifica un cambio di titolo, il regalo è poco più che una vuota promessa. La persona che riceve il regalo dovrebbe anche fornire documenti che certificano la sua accettazione e la successiva amministrazione del regalo. Nessuna di questa documentazione successiva esiste nel caso della Donazione di Costantino, ed è quindi una forte prova circostanziale che né Costantino né Silvestro erano a conoscenza di un tale dono. Valla si fa beffe dell'assenza di questi documenti giustificativi, dicendo: "Dopo la partenza di Costantino, quali governatori fece Silvestro sulle sue province e città, quali guerre fece, quali nazioni che imbracciavano le armi sottomise, attraverso chi continuò questo governo? Non conosciamo nessuna di queste circostanze, rispondete. Penso che tutto questo sia stato fatto di notte e nessuno l'ha visto!”

Valla segnala anche gli anacronismi presenti nel testo che ne screditano la presunta età, come l'uso della parola “satrapo” per riferirsi a funzionari romani, quando in realtà quel termine non era stato usato in tal modo fino all'VIII secolo (è una parola di origine persiana passata poi al greco bizantino) . “Chi ha sentito parlare di satrapi nei concili dei romani? Non ricordo di aver mai letto di menzionare alcun satrapo romano, e neppure di un satrapo in nessuna delle province romane”. Valla sottolinea anche l'uso nel documento dell'espressione “popolo suddito” riferendosi ai cittadini di Roma, cosa che sarebbe stata inconcepibile per un popolo che, in quanto libero cittadino di Roma, governava gli altri. “Possono quelli che governano altri popoli, essi stessi, essere chiamati popolo suddito? È assurdo! Perché in questo, come testimonia Gregorio in molte lettere, il sovrano romano differisce dagli altri, che solo lui è sovrano di un popolo libero”. Gli anacronismi sono prove chiave per smascherare i falsi e Valla fa un ottimo lavoro nel trovarli nel suo Discorso.

Sarebbe anche una prova di un trasferimento nell'amministrazione che ci fosse qualche cambiamento nella moneta coniata dell'impero che Costantino avrebbe presumibilmente ceduto al papa, ma non è così. Lo stesso Valla possedeva monete di quell'epoca che dimostravano il punto. “... ci sono monete d'oro di Costantino dopo che divenne cristiano, con iscrizioni, non in greco, ma in lettere latine, e di quasi tutti gli imperatori in successione. Ce ne sono molti in mio possesso con questa iscrizione per la maggior parte, sotto l'immagine della croce, "Concordia orbis [La pace del mondo]". Che numero infinito di monete dei sommi pontefici si troverebbero se tu mai avessi governato Roma! Ma nessuno di questi si trova, né oro né argento, né si dice che sia stato visto da nessuno. Eppure, chi in quel tempo deteneva il governo a Roma doveva avere una propria moneta: senza dubbio quella del Papa avrebbe portato l'immagine del Salvatore o di Pietro». Questa prova di una continuazione nell'amministrazione dei governanti secolari dell'impero è difficile da confutare, e Valla è saggio usarla più avanti nel testo come supporto alle sue argomentazioni più circostanziali.

Valla segnala poi una delle più evidenti inesattezze storiche quando rileva che la Donazione si riferisce, erroneamente, alla città di Costantinopoli, che al momento in cui si supponeva fosse stato redatto il documento non esisteva. “Come al mondo - questo è molto più assurdo e impossibile nella natura delle cose - si potrebbe parlare di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando non era ancora un patriarcato, né una sede, né una città cristiana, né chiamata Costantinopoli, né fondata, né pianificata! Perché il "privilegio" fu concesso, così si dice, il terzo giorno dopo che Costantino divenne cristiano; quando ancora Bisanzio, non Costantinopoli, occupava quel sito”. Il nome errato di Costantinopoli al posto di Bisanzio è un errore sciatto del falsario e, sottolineandolo, Valla rivela ulteriormente il falso per ciò che è.

Un'ulteriore ignoranza dell'antica terminologia romana viene rivelata quando Valla sottolinea che la Donazione dice "... sono "fatti patrizi e consoli", riferendosi ai chierici della chiesa. I patrizi erano una classe sociale nell'antica Roma, e dalla classe patrizia vi erano solo due consoli, mentre più tardi nel Medioevo il termine "consoli" venne ad essere identificato più in generale con una certa classe di persone, che probabilmente portarono alla confusione del falsario. Valla dice: “Chi ha mai sentito di senatori o altri uomini che sono stati fatti patrizi? I consoli sono "fatti", ma non patrizi. I senatori, i padri coscritti, provengono da famiglie patrizie (chiamate anche senatoriali), equestri o plebee a seconda dei casi…” L’erudito si burla anche di ciò che sarebbe seguito se il clero, infatti, fosse elevato allo status di console romano. “Ma come può il clero diventare console? Il clero latino si è negato il matrimonio; e diventeranno consoli, faranno arruolamento di truppe e si recheranno nelle province loro assegnate con legioni e ausiliari? Servi e schiavi sono fatti consoli? E non devono essercene due, come era consuetudine; ma le centinaia e migliaia di servitori che servono la chiesa romana, devono essere onorate con il grado di generali?” La presa in giro dell'ignoranza del falsario a sua volta fa apparire ridicolo il falso, il che è un eccellente espediente retorico.

Indicando un altro errore, Valla porta i suoi lettori al riferimento del falsario al fatto che il diadema del re era fatto di "oro purissimo e di gemme preziose", quando, infatti, "...un diadema era fatto di stoffa ruvida o forse di seta”. Al tempo di Costantino un “diadema” sarebbe stato costituito da un pezzo di nastro di seta bianca, da legare intorno alla fronte del re indicando il suo status. Più tardi, nel Medioevo, un diadema divenne più associato a una corona, che sarebbe stata probabilmente ornata di gioielli come suppone il falsario. Questo è un altro caso di anacronismo, che si aggiunge alla cronologia sospetta del documento. Valla, con una preponderanza di prove sia concrete che circostanziali, ha costruito un caso impressionante per la confutazione della Donazione di Costantino come genuina. Il suo assalto sistematico alla Donazione attraverso un attento esame è meravigliosamente umanista.

Lorenzo Valla non fu il primo a sostenere che La donazione di Costantino era una frode, e altri più o meno nello stesso periodo, in particolare il cardinale Nicola Cusano e Reginald Pecocke, vescovo di Chichester, dicevano essenzialmente la stessa cosa. Ciò che rese la critica di Valla al documento un evento singolare è stata la natura pubblica della sua critica. Il suo saggio entrò in circolazione nel 1440 e fu ampiamente letto, anche se non pubblicato ufficialmente fino al 1517. Questo fu, non a caso, l'anno delle 95 tesi di Martin Lutero. Non dovrebbe sorprendere che la brillante decostruzione da parte di Valla di uno dei pilastri legali dell'autorità della Chiesa sia diventata estremamente popolare con l'incipiente Riforma protestante.

Valla sviluppò con cura la sua presentazione delle prove contro la Donazione, usando la sua vasta conoscenza del latino classico e le sue capacità retoriche per costruire un caso che è vicino all'inconfutabile, anche all'interno della Chiesa. Nel 1453 lo stesso papa Pio II, in un trattato rimasto inedito, ammise che il documento era un falso. I riferimenti alla Donazione sono notevolmente assenti dai documenti ecclesiastici successivi, sebbene il Vaticano non abbia ufficialmente ammesso l'ovvio fino alla metà del XVI secolo. E abbia continuato a possedere un regno almeno fino alla Breccia di Porta Pia del 20 settembre 1870.

Sebbene l'attacco diretto di Valla a un documento fondamentale della Chiesa possa averlo reso straordinario per il suo tempo, molti dei temi che abbraccia sono, in effetti, tipici della letteratura rinascimentale. La bordata di Valla alla Chiesa cattolica trova eco negli scritti di molti che hanno messo in dubbio la pietà dei chierici nel mezzo di un'epoca di interrogativi. Spesso le storie di questo periodo hanno come personaggi principali sacerdoti o monaci preoccupati per il guadagno terreno, o monache che sono cadute nel peccato mentre vivevano in un convento. L'esposizione di Valla della natura fraudolenta della Donazione avrebbe portato un pubblico già scettico nei confronti della Chiesa a interrogarsi su altre affermazioni dottrinali avanzate da Roma.


Valla è, a questo proposito il tipico umanista rinascimentale, in quanto sottolinea che l'impero retto dai Pontefici sulla terra è stato da sempre un impero di creazione terrena, non di ispirazione divina. Gli umanisti vedevano l'umanità come autonoma, che non richiedeva l'intervento divino per elaborare il suo destino, come espresso da Giovanni Pico nella
Orazione sulla dignità dell'uomo. Collocando i Papi nella stessa categoria degli altri monarchi affamati di terra, il potere ecclesiastico viene privato della sua aura religiosa e rivelato solo come un'altra impresa mortale.

venerdì 11 novembre 2022

Ai confini del Cielo e della Terra: l’incisione di Flammarion




Un uomo, vestito con una lunga tunica e con in mano un bastone, si trova ai margini della Terra, dove essa incontra il Cielo. Si inginocchia e passa la testa, le spalle e il braccio destro attraverso il cielo costellato di stelle, scoprendo un meraviglioso regno di nuvole, fuochi e soli che volteggiano oltre i cieli. Ha viaggiato per giorni alla luce di un sole splendente, ha passato le sue notti sotto un firmamento solcato di stelle. Accovacciandosi per esplorare un’apertura, la sutura dove cielo e terra s'incontrano, il viaggiatore spinge la testa attraverso la volta celeste e fuori nel cielo al di là. Cortine di fiamme sostituiscono il sole del suo vecchio mondo. In questo Empireo lacerato, i corpi planetari si muovono come un meccanismo a orologeria: un macchinario cosmico che ruota in aderenza a leggi ancora da scoprire, naturali o divine.

Pubblicata in L'atmosphère: météorologie populaire (1888) dell'astronomo, divulgatore e scrittore di fantascienza Camille Flammarion (1842–1925), questa immagine ha lasciato perplessi gli appassionati delle sue opere, sia per la sua oscura provenienza che per il simbolismo criptico. Con il suo pastiche di stile visivo rinascimentale e la didascalia medievale - "Un missionario del Medioevo racconta di aver trovato il punto in cui il cielo e la terra si toccano" - (p. 162) si pensava che l'illustrazione avesse avuto origine secoli prima che Flammarion pubblicasse il suo libro.

L'artista rimane sconosciuto, ma i primi interpreti credevano che fosse un contemporaneo del cambio di paradigma che l'opera sembra rappresentare: quando l'antica cosmogonia lasciò il posto alla Rivoluzione scientifica. Heinz Strauss e Heinrich Röttinger datarono l'incisione alla metà del Cinquecento. Nel 1957, l'astronomo Ernst Zinner affermò che l'immagine risaliva al Rinascimento tedesco, ma non riuscì a trovare alcuna versione pubblicata prima del 1906. Erwin Panofsky, scrivendo nel 1963, trovò il suo stile indicativo del Seicento. Ulteriori indagini, tuttavia, rivelarono che l'opera era un composto di immagini caratteristiche di diversi periodi storici e che era stata realizzata con il bulino, strumento utilizzato per l'incisione su legno solo dalla fine del XVIII secolo. Ernst H. Gombrich, parlando a nome del Warburg Institute, era convinto che l'incisione dovesse essere un omaggio più recente al Rinascimento.

L'immagine fu fatta risalire a non prima del libro di Flammarion da Arthur Beer, astrofisico e storico della scienza tedesca a Cambridge e, indipendentemente, da Bruno Weber, curatore di libri rari presso la biblioteca centrale di Zurigo. Secondo Weber e l'astronomo Joseph Ashbrook, la rappresentazione di una volta celeste sferica che separa la Terra da un regno esterno è simile alla prima illustrazione nella Cosmographia di Sebastian Münster del 1544, un libro che Flammarion, un fervente bibliofilo e collezionista di libri antichi, potrebbe aver posseduto.


Flammarion era stato apprendista all'età di dodici anni presso un incisore a Parigi e si ritiene che molte delle illustrazioni per i suoi libri siano state incise dai suoi stessi disegni, probabilmente sotto la sua supervisione. Pertanto, è plausibile che lo stesso Flammarion abbia creato l'immagine, anche se, come la maggior parte delle altre illustrazioni nei libri di Flammarion, l'incisione non ha alcuna attribuzione. Essa non compariva nell’opera analoga sull’atmosfera che l’astronomo francese aveva pubblicato nel 1872, ed è presumibile che sia stata realizzata tra le due edizioni. Sebbene a volte indicato come un falso o una bufala, Flammarion non designò mai l'incisione come una xilografia medievale o rinascimentale e l'interpretazione errata dell'incisione come opera più antica si verificò solo dopo la morte di Flammarion.

Più misterioso della sua provenienza è il potenziale significato dell'opera. L’uomo curvo è stato variamente descritto come un missionario, uno scettico, un ebreo errante, un ricercatore, un viaggiatore, un dotto che contempla meraviglie divine, un pellegrino o un astronomo frustrato legato alla Terra. Parte della difficoltà qui deriva dalla polifonia simbolica dell'immagine: aspetti dell'universo tolemaico si mescolano con un ophan - la struttura a ruote, la "ruota in mezzo a una ruota” che assomiglia a un giroscopio, che Ezechiele (1:15–21) e Daniele (7:9) hanno intravisto nella loro visione del trono/carro di Dio - stratificando iconografia biblica, astrologica ed esoterica.

Ecco il testo che accompagna questa incisione in L'atmosphère:
“Che il cielo sia sereno o nuvoloso, ci sembra sempre avere la forma di un arco ellittico; lungi dall'avere la forma di un arco circolare, sembra sempre appiattito e depresso sopra le nostre teste, e gradualmente allontanarsi verso l'orizzonte. I nostri antenati immaginavano che questa volta azzurra fosse davvero ciò che l'occhio li avrebbe portati a credere che fosse; ma, come osserva Voltaire, questo è ragionevole come se un baco da seta prendesse la sua tela per i limiti dell'universo. Gli astronomi greci lo rappresentavano come formato da una solida sostanza cristallina, e così recentemente, come Copernico, un gran numero di astronomi pensava che fosse solido come una lastra di vetro. I poeti latini collocarono le divinità dell'Olimpo e la maestosa corte mitologica su questa volta, al di sopra dei pianeti e delle stelle fisse. Prima di sapere che la Terra si muoveva nello spazio e che lo spazio è ovunque, i teologi avevano installato la Trinità nell'empireo, il corpo glorificato di Gesù, quello della Vergine Maria, la gerarchia angelica, i santi e tutti gli ospiti celesti (…) Un missionario ingenuo del medioevo ci racconta addirittura che, in uno dei suoi viaggi alla ricerca del paradiso terrestre, raggiunse l'orizzonte dove si incontravano la terra e il cielo, e che scoprì un certo punto dove essi non erano uniti tra loro, e dove, chinando le spalle, passò sotto il tetto del cielo”.

L'idea del contatto di un cielo solido con la Terra appare ripetutamente nelle prime opere di Flammarion. In
Les mondes imaginaires et les mondes réels ("Mondi immaginari e mondi reali", 1864), cita una leggenda di un santo cristiano, Macario il Romano, che fa risalire al VI secolo. Questa leggenda include la storia di tre monaci (Teofilo, Sergio e Igino) che "volevano scoprire il punto in cui il cielo e la terra si toccano". Dopo aver raccontato la leggenda, osserva che “i monaci speravano di andare in cielo senza lasciare la terra, per trovare 'il luogo dove il cielo e la terra si toccano', e aprire la misteriosa porta che separa questo mondo dall’altro. Tale è la nozione cosmografica dell'universo: è sempre la valle terrestre coronata dal baldacchino dei cieli." Nella leggenda di San Macario, tuttavia, i monaci non trovano il luogo in cui terra e cielo si toccano. Flammarion racconta un'altra storia:
“Questo fatto ci ricorda la storia che Le Vayer racconta nelle sue Lettere. Sembra che un anacoreta, probabilmente parente dei Padri del deserto d'Oriente, si vantasse di essere arrivato fino alla fine del mondo e di essere stato costretto a piegare le spalle, a causa dell'unione del cielo e della terra in quel luogo lontano”.
Flammarion ha anche menzionato la stessa storia, quasi con le stesse parole, nella Histoire du Ciel ("Storia del cielo", 1872):
"Ho nella mia biblioteca", interruppe il vicesceriffo, "un'opera molto curiosa: le lettere di Le Vayer. Ricordo di aver letto lì di un buon anacoreta che si vantava di essere stato 'fino ai confini della terra' e di essere stato obbligato a chinare le spalle, per l'unione del cielo e della terra a questa estremità”.
Le Lettere a cui si fa riferimento sono una serie di brevi saggi dell’erudito e filosofo François de La Mothe Le Vayer (1588-1672). Nella lettera 89, Le Vayer, dopo aver menzionato l'opinione sprezzante di Strabone sul racconto di Pitea di una regione dell'estremo nord dove terra, mare e aria sembravano mescolarsi in un'unica sostanza gelatinosa, aggiunge:
“Quel buon anacoreta, che si vantava di essere stato fino alla fine del mondo, disse ugualmente che era stato costretto a chinarsi, a causa dell'unione del cielo e della terra in quella lontana regione”.
Le Vayer non specifica chi fosse questo "anacoreta", né fornisce ulteriori dettagli sulla storia o sulle sue fonti. Il commento di Le Vayer è stato ampliato da Pierre Estève nella sua Histoire générale et particulière de l'astronomie ("Storia generale e particolare dell'astronomia", 1755), dove interpreta l'affermazione di Le Vayer (senza attribuzione) come un'affermazione che il viaggiatore fenicio Pitea "era arrivato a un angolo del cielo, e fu costretto a chinarsi per non toccarlo”.

La combinazione della storia di San Macario con le osservazioni di Le Vayer sembra essere dovuta allo stesso Flammarion. Appare anche nel suo Les terres du ciel ("Le terre del cielo"):
“Riguardo ai confini (della Terra) ... alcuni monaci del X secolo della nostra era, più audaci degli altri, dicono che, facendo un viaggio alla ricerca del paradiso terrestre, avevano trovato il punto dove il cielo tocca la terra, ed era stato anche costretto ad abbassare le spalle!”
La prima versione a colori pubblicata fu realizzata da Roberta Weir nel 1970 a Berkeley. Quell'immagine a colori ha generato la maggior parte delle variazioni moderne che sono seguite da allora. L'LP di Donovan del 1973, Cosmic Wheels, ha utilizzato una versione estesa in bianco e nero sulla copertina interna (un artista ha aggiunto elementi che estendevano l'immagine per adattarla alle proporzioni della copertina del disco). Essa conteneva la notazione "Get Out Your Cosmic Crayons Kids and Color In" (Tirate fuori i vostri pastelli cosmici bambini e colorate).


Il libro in edizione limitata
Back Beyond (2021, solo 1500 copie firmate) di Cat Stevens / Yusuf Islam, con i suoi disegni per bambini tratti da Teaser and the Firecat (1971) riporta in copertina una versione personalizzata dell’incisione di Flammarion.




lunedì 10 gennaio 2022

Giovanni Arduino e gli studi geologici in Italia nel Settecento

 


Nella prima metà del Settecento, gli studi sulle rocce, i fossili e l’origine della Terra non potevano ancora essere considerati una vera scienza in senso moderno. Molti erano interessati alla raccolta di fossili e minerali, ma questo diletto rifletteva un vago interesse generale per la storia naturale e gli oggetti associati, o andava a riempire gli scaffali delle Wunderkammer allora di moda tra i nobili e i ricchi borghesi. Pochi tentarono di interpretare il loro valore in modo significativo, con l'eccezione di Niccolò Stenone (1638-1686), non a caso considerato il padre della stratigrafia, del quale mi sono già occupato in un precedente articolo

Alla fine del XVIII secolo non esisteva una scienza chiamata geologia, sebbene il termine fosse stato usato in senso moderno nella prima metà del secolo dai naturalisti e alpinisti ginevrini Jean-André Deluc e Horace-Bénédict de Saussure e accolto nella Énciclopedie da Diderot nel 1751. Prima di allora, gli studiosi di geologia erano gli ingegneri minerari, mineralogisti e metallurgisti. Lo sfruttamento delle risorse metallurgiche e minerarie, così come gli scavi di pietra da costruzione, erano i principali scopi con cui i naturalisti erano motivati ad esaminare le rocce che giacevano sotto i loro piedi. Nel Settecento nuovi concetti riguardo la composizione e la formazione delle montagne e della struttura della Terra emersero dall'indagine regionale nel campo della litologia e paleontologia delle rocce, della geomorfologia e della loro posizione relativa. La classificazione delle montagne e delle rocce da cui si sono formate si sviluppò rapidamente in seguito agli studi di alcuni naturalisti, il cui scopo principale rimaneva quello di favorire lo sfruttamento delle risorse minerarie, e, secondariamente, quello delle acque a scopi agricoli e produttivi. 

Tra i primi esperti italiani emerge la figura di Giovanni Arduino, la cui influenza sulla geologia stratigrafica nell'Italia del XVIII secolo non può essere sottovalutata. Questo esperto minerario veronese, insieme ai suoi contemporanei, stabilì un fondamentale approccio di campo all'indagine geologica quasi un secolo prima che Charles Lyell pubblicasse i suoi Principles of Geology (1830-33). 

Giovanni Arduino nacque in una famiglia modesta a Caprino Veronese nel 1714 e morì a Venezia nel 1795. La sua formazione iniziale fu a Verona. Tuttavia, a diciotto anni, abbandonò gli studi teorici per iniziare un apprendistato come tecnico nelle miniere di ferro a Chiusa, vicino a Bolzano. Qui imparò rapidamente la mineralogia, la metallurgia, e, come lui stesso scrive, era desideroso di scoprire "tutto sulla scienza del regno fossile”. Completò la sua formazione in Toscana e sull’Appennino Modenese dopo aver maturato alcuni anni di esperienza mineraria a Vicenza. Sebbene fosse principalmente interessato alle litologie rupestri e al loro contenuto minerale, il suo interesse per la paleontologia fu acceso dai notevoli ritrovamenti a Bolca, vicino a Verona, già descritti è pubblicizzati dal botanico senese Andrea Mattioli nel 1548 e attribuiti a un misterioso succus lapideus. Qui fu trovata una spettacolare fauna lagunare tropicale eocenica, che ha dato in particolare bellissimi fossili di pesci e altri organismi marini vertebrati e invertebrati: 
“Tra quelle è molto rinomata quella di Bolca pei Pesci marini fossili, e Piante esotiche, che vi si trovano tra li sottili strati di un masso calcareo finamente sabbioso, per ogni parte circondato dalle prefate macerie di vulcanica formazione. È apparente ch’esso fosse una porzione di fondo, o letto del Mare all’alto sospinta dall’impetuoso sollevamento di esse materie eruttate dalla vulcanica sottomarina forza, e lasciata in una posizione inclinatissìma, come mostrano le numerose sue stratificazioni dall’orizzontale molto divergenti”. 

Ma, nella sua vita professionale, Arduino continuò a occuparsi soprattutto di litologia e mineralogia. Tornato a Vicenza, fu nominato perito prima e poi ingegnere del Magistrato del Demanio. All'inizio degli anni Cinquanta, Arduino visitò le colline di Montieri vicino a Siena per esaminare l'area di potenziale estrazione mineraria da parte di una società livornese. Successivamente fu nominato agrimensore a Vicenza prima di essere nominato sovrintendente agricolo e professore di mineralogia, metallurgia e geologia a Venezia nel 1769, dove lavorò per il resto della sua vita. 

Era dotato chiaramente di uno spirito pratico: sviluppò una bussola topografica più funzionale di altre allora in uso e inventò anche un nuovo tipo di forno a riverbero, sperimentato con successo ad Agordo, per il quale ottenne una medaglia d'oro dal Senato veneziano nel 1791. 

La sua esperienza mineraria gli forniva una notevole quantità di conoscenze pratiche e tecniche, che comprendevano una terminologia specialistica di termini presi in prestito dal tedesco, senza dubbio influenzata dal suo aver lavorato in Tirolo. Tuttavia, la sua vera abilità e la sua "passione dominante", come diceva, era senza dubbio la capacità di osservare e studiare la struttura delle colline e delle montagne per avere un'idea precisa delle loro possibili risorse minerarie. Dalla sua esperienza nelle miniere di Vicenza, Toscana e Modena, Arduino iniziò a mettere insieme le competenze che gli permisero di valutare le rocce che incontrava. Non c'è dubbio che il suo apprendistato tecnico e l'esplorazione mineraria costituirono il fondamento delle sue indagini geologiche negli anni 1750-60, e soprattutto della "classificazione" litologica delle quattro unità (ordini), che tracciò per la prima volta in due lettere inviate al naturalista padovano Antonio Vallisneri il Giovane (1708–1777) nella primavera del 1759, successivamente pubblicate a Venezia (1760).

Sebbene Arduino fosse in gran parte autodidatta, c'erano diverse persone il cui pensiero lo influenzava. Una di queste persone fu Antonio Vallisneri padre (1661-1730), medico e naturalista che tenne le cattedre di Medicina pratica e poi teorica presso l'Università di Padova tra il 1700 e il 1730. Oltre ai suoi studi medici, Vallisneri era anche molto interessato alle scienze naturali, essendo un collezionista di numerosi esemplari di animali, minerali e altri oggetti naturali. 


È importante sottolineare che questi primi studiosi, come Vallisneri, non solo svilupparono le loro classificazioni sulla base delle rocce, ma consideravano anche la morfologia delle montagne da loro formate. Pertanto, in un certo senso, la classificazione era essenzialmente una combinazione di geologia (principalmente litologia) e geomorfologia. Quindi le divisioni erano quelle delle montagne e non solo delle rocce stesse. 

Nel libro De’ corpi marini che su’ monti si trovano, della loro origine, e dello stato del mondo avanti il Diluvio, nel Diluvio e dopo il Diluvio (1721), Vallisneri sostenne il metodo di indagine sul campo di Stenone, viaggiando e intraprendendo rilevamenti in tutto l'Appennino settentrionale. Egli accettava il concetto di montagne primitive e permanenti create da Dio (erose o modificate da inondazioni e terremoti). Pensava che queste montagne "primitive" fossero rimaste invariate dalla creazione biblica. Per Vallisneri queste montagne e le loro rocce furono il fondamento della Terra e per questo motivo rifiutò l'azione di costruzione delle montagne di un unico diluvio universale come quella proposta dai precedenti filosofi naturali. 


Gli scritti di Vallisneri sottolineavano che i depositi marini sono ampiamente distribuiti in Italia su entrambi i lati dell'Appennino, e sono presenti anche in Svizzera, Germania, Inghilterra, Olanda e altre terre, e sostenne quindi che quei depositi provano incontestabilmente la precedente presenza del mare su queste località. Spiegò come diverse aree della superficie terrestre possano aver subito cambiamenti di livello relativi, come porzioni che ora sono terraferma potrebbero essere state precedentemente sott'acqua. Interpretò ulteriormente la presenza di fossili marini in questi depositi, sul presupposto naturale che gli abitanti del mare, morendo, cadono sul fondo e sono inglobati nei depositi. Vallisneri enumerò i casi noti di oscillazioni di livello, e accennava ai cambiamenti in atto a Pozzuoli. Forniva anche un resoconto dettagliato sull'isolotto di Nea Kameni, apparso nella baia di Santorini tra il 1707 e il 1711. L'enfasi di Vallisneri sull'importanza dello studio di quella che chiamò l'anatomia delle montagne (la notomia de' monti) influenzò senza dubbio il pensiero di Arduino. 


Alla metà del Settecento, altre due grandi figure in Italia proposero modi diversi di classificare le montagne. L’abate friulano Anton Lazzaro Moro (1687–1764) e il medico, agronomo e naturalista fiorentino Giovanni Targioni Tozzetti (1712–1783) promossero un duplice schema di divisione. 

Come Vallisneri, Moro (in De’ crostacei e degli altri marini corpi che si truovano su’ monti, 1740) attaccò con forza le idee precedenti che attribuivano gli accumuli marini al Diluvio Universale. Sviluppò invece un'originale "classificazione" delle montagne in "primarie" e "secondarie". La teoria di Moro si basava sull'apparizione della nuova isola vulcanica a Santorini. L'emergere dell'isola fu segnato da terremoti e turbolenza vulcanica, che si era protratta a intermittenza per diversi mesi. Moro attribuiva grande importanza al fatto che le rocce, quando iniziarono a sollevarsi dal Mar Egeo, erano ricoperte di conchiglie, e che queste furono poi sepolte dal materiale vulcanico espulso. Descriveva poi l'origine del Monte Nuovo, vicino a Napoli, e forniva un resoconto dettagliato delle eruzioni del Vesuvio dell'anno 79 d.C., e dell'Etna. La sua idea era che i fossili trovati nelle montagne avevano avuto origine dove erano stati trovati e che le montagne stesse erano state sollevate dal mare dall'azione vulcanica. Anche tutti i continenti e le isole erano stati sollevati in questo modo. Il materiale stratificato che componeva alcune montagne rappresentava le originarie eruzioni vulcaniche, che nel consolidarsi avevano assunto una certa stratificazione di carattere secondario, come si presenta al Monte Nuovo, al Vesuvio e all'Etna. Le montagne "primarie", sollevate dal fondo di un antico mare dal calore (plutonico) del sottosuolo, come i vulcani sottomarini, erano composte da rocce massicce, generalmente cristalline, e non erano stratificate. Queste montagne erano considerate le parti più alte delle Alpi. Le montagne “secondarie” erano invece costituite da rocce stratificate depositate in tempi diversi. Queste rocce secondarie contenevano frequentemente fossili e detriti che si erano accumulati sul fondo di un antico mare. Non è necessario entrare nei dettagli della sequenza di eventi redatti da Moro nella parte della sua opera dedicata alla storia della terra. Con l'eccezione che seguì Vallisneri nello scartare il Diluvio, la catena degli eventi era disegnata in armonia con l'autorità scritturale e nella prefazione era fornita una dichiarazione ufficiale che il libro non conteneva nulla che fosse ostile alla fede cattolica. 



È stato talvolta ritenuto che Moro sia stato il primo ad applicare i termini “primario” e “secondario” alla classificazione delle montagne. Tuttavia, questa duplice terminologia era già stata utilizzata dal teologo inglese Thomas Burnet, il quale suggerì (in Telluris Theoria Sacra, 1681) che i Montes Primarii ("montagne primarie") apparissero sulla superficie della Terra non essendo né stati creati da Dio né derivati dal diluvio, mentre un gruppo formato dai materiali frammentati derivati dalle rocce "primarie" che chiamò monticulos secundarios erano derivate dalla distruzione causata dal sollevamento vulcanico. Il buon abate conosceva e citava l’opera di Burnet, prima che fosse messa all’indice per i suoi violenti attacchi al cattolicesimo. Nonostante le conclusioni di Moro fossero fortemente criticate dai sostenitori italiani del diluvianesimo, il suo approccio di esaminare la topografia montana e tentare di classificarla in modo cronologico fu accolto favorevolmente da molti. 



Sulla base delle sue osservazioni in Toscana, tra il 1751 e il 1754, Giovanni Targioni Tozzetti pubblicò diverse relazioni sulla sua dettagliata ricerca geologica regionale. In uno studio sulla “topografia fisica” della Toscana (Prodromo della corografia e della topografia fisica della Toscana, 1754), profilo di un’opera complessiva, mai realizzata, sugli aspetti orografici, geografici, geologici della regione, aggiornato sui dibattiti coevi in materia e destinato a segnare il successivo percorso delle scienze della Terra, propose di classificare i monti toscani in due unità che chiamò monti primitivi e monti primari. I monti “primitivi” di Tozzetti erano formati dalle rocce più antiche comprendenti rocce irregolari, contorte e composte da rocce scistose con venature minerali, mentre le colline di formazione più recente, erano composte da arenarie, argille e tufi vulcanici, pianeggianti, sedimentate e fossilizzate. Capì, tuttavia, che il suo schema poteva essere correlato solo all'attuale superficie della Terra, e che, forse, quelle che aveva identificato come montagne "primarie" avrebbero potuto in definitiva essere ritenute più giovani rispetto ad altre regioni, cioè "secondarie" o “terziarie”. Si rese conto di ciò poiché i materiali da cui si sono formate queste rocce stratificate erano derivati dai detriti delle precedenti montagne antiche. Questa idea consentì a Targioni Tozzetti di identificare solo frammenti di quella che ipotizzava fosse una lunga storia della superficie terrestre. 


Questa classificazione si basava quasi esclusivamente su prove litologiche e geomorfologiche, poiché non esistevano mezzi indipendenti per datare le montagne e le rocce da cui si sono formate: l'applicazione di associazioni fossili per fornire o supportare la sua cronologia si limitava a notare la loro presenza o assenza, piuttosto che la loro identificazione dettagliata. Targioni Tozzetti si occupò delle lenticelle fossili (Nummulites) di Casciano e Parlascio, da lui scambiate per coralli, e anche dei resti fossili di mammiferi terrestri che erano stati trovati nella valle dell'Arno e in Val di Chiana. Targioni Tozzetti dimostrò definitivamente che i mammiferi erano vissuti in queste valli, e non vi erano stati portati da alcuna catastrofe diluviale, né portati dai Cartaginesi! 

Come conseguenza della sua esperienza sul campo, e soprattutto della sua osservazione dell'attività vulcanica, Targioni Tozzetti (1779) rifiutò di accettare il concetto di sollevamento vulcanico di Moro, preferendo invece sottolineare il ruolo dell'erosione marina e del denudamento derivanti dalle acque sotterranee e in particolare dai corsi d'acqua terrestri, questi ultimi responsabili della formazione di valli. Attraverso la sua meticolosa osservazione sul campo, unita all’esame di documenti storici, si rese conto che solo frammenti dell'evoluzione geologica della superficie terrestre potevano essere ricostruiti dalle prove rimaste. 

Giovanni Arduino propose il suo concetto generale di divisione stratigrafica nelle due lettere del 1759. Tale schema si basava principalmente sulle proprietà litologiche, che comprendevano montagne definite “primarie” (primario), “secondarie” (secondario) e “terziarie” (terziario), così come il terreno delle pianure alluvionali, che era considerato appartenente ad una “quarta” unità (che non definì Quaternario). Pensava che ogni ordine fosse separato da "una grande rivoluzione dei sistemi terrestri". Con una descrizione più accurata dei termini litologici incontrati rispetto a quelli presentati da Moro e Targioni Tozzetti, la classificazione di Arduino si basava sull'esperienza accumulata da due decenni di osservazioni nell'Italia settentrionale, nelle Alpi Apuane e nelle colline metallifere della Toscana. In linea di principio, la sua classificazione rappresentava un'analisi litologica sistematica in cui tentava di descrivere le rocce caratteristiche di ogni singola divisione. Oltre ai suoi quattro ordini, Arduino riconobbe anche quelle che definì rocce “primitive” (roccia primigenia). Queste si trovavano alla base di tutto il paesaggio da lui indagato e quindi dovevano essersi formate prima degli altri suoi ordini. Arduino aveva già individuato questa unità basale di scisti cristallini nella sua classificazione litostratigrafica delle Alpi Apuane. Inoltre, aggiunse una sequenza più recente al suo "ordine terziario" (terzo ordine) "le colline di tufo e argilla della Toscana", che erano state precedentemente descritte da Targioni Tozzetti, che li vedeva come “secondarie”. Classificando queste rocce come "terziarie" Arduino le distinse dalla precedente classificazione del predecessore. 

La classificazione litostratigrafica di Arduino era molto più sofisticata e, allo stesso tempo, più accurata rispetto alle proposte dei suoi contemporanei, sia nella nativa Italia che altrove in Europa. Arduino considerava le sue "divisioni in quattro ordini" come quattro grandi strati (“quattro grandissimi strati”) sovrapposti, a loro volta stratificati internamente essendo composti da molti strati minori. Egli concluse che questi strati sono stati depositati successivamente in tempi diversi e in condizioni diverse. Nella sua Seconda Lettera, l'Arduino affermava: 
“Da quanto ho potuto osservare, la serie di questi strati, che compongono la crosta visibile della Terra, mi sembra distinta in quattro ordini generali, e successivi, senza considerare il mare. Questi quattro ordini possono essere immaginati come quattro grandi strati, che in tutti i luoghi dove sono esposti, si possono vedere sovrapposti, in modo costantemente uniforme. Sebbene ciascuno di questi grandi strati sia un'unione di numerosi altri strati minori, composti di molti tipi, specie e varietà di materiale, tuttavia considerando tutti i componenti nel loro insieme di ciascuno dei detti ordini e strati principali, e confrontando un ordine con un altro, si può vedere la diversità della natura, e degli eventi che fanno chiaramente conoscere che si sono formati, non solo in tempi diversi, ma anche in circostanze molto diverse”. 
Nelle pubblicazioni successive e soprattutto nel suo Saggio Fisico-Mineralogico di Lythogonia e Orognosia (1774), assegnò il nome schisto alla roccia “primitiva”, oggi interpretata come quarzo cristallino metamorfico e scisto micaceo. Le rocce primitive, attraverso le quali scorrono innumerevoli vene di quarzo, non sono fossilifere e sono fortemente ripiegate. 


Nello schema di classificazione litologica di Arduino, le sue rocce di “primo ordine” erano le “montagne primarie” (Montes Primarii). Questi strati si sovrapponevano alle rocce “primitive” ed erano formati da arenarie e conglomerati (“un miscuglio di ciottoli, sabbia e polvere delle rocce primordiali”), e comprendevano anche rocce ignee granitiche intrusive. L'assenza di fossili di queste “montagne” permise ad Arduino di differenziare le rocce stratificate del primo ordine da quelle del secondo, cioè quelle che formano le “montagne secondarie”. I Montes Secundarii contengono infatti un gran numero di fossili marini e sono composti principalmente da calcari, marne e argille. Arduino enumera diversi gruppi minori all'interno della serie secondaria, e si sofferma a lungo sui calcari bianchi e rossastri superiori, la cosiddetta Scaglia. Osservò gli enormi blocchi di granito e di scisto che talvolta ricoprono le superfici esposte delle rocce della Scaglia, dicendo che erano stati chiaramente tratti da rocce primitive affioranti nel vicino Tirolo, ma lasciò al futuro la spiegazione del mistero del trasporto (glaciale?) di questi enormi massi. 

I Montes Tertiarii di Arduino sono costituiti da una serie più giovane e altamente fossilifera di calcari, sabbie, marne, argille, ecc.; egli osserva che in molti casi si può dimostrare che i materiali di questi sono derivati dalle serie precedenti, essendo composte dai resti di “conchiglie, frammenti e sabbie di animali marini testacei: e frammenti, di ciottoli, sabbie e frammenti originati dalla distruzione di ampie porzioni delle montagne primarie e secondarie”, Questi materiali comprendono calcari, arenarie, argille e conglomerati che forniscono i resti di animali più moderni. Oltre a queste rocce stratificate, prevalentemente marine, Arduino identificò anche quelle che oggi sono conosciute come le rocce vulcaniche dell'Oligocene che si trovano nelle Prealpi Venete, notando “le intere colline di quei cumuli e tufi vetrificati, tutti forati e spugnosi di vari colori, che sembrano pomici e lave di antichi vulcani”. Inserì anche questi prodotti eruttivi ignei, insieme alle litologie non vulcaniche associate, nel suo "terzo ordine". Arduino, di conseguenza, riferiva l'origine del gruppo vulcanico a eruzioni ricorrenti e inondazioni intermittenti del mare. 

Il "Quarto Ordine" di Arduino non includeva le rocce che formano montagne, ma comprendeva invece “tutte le pianure, che sono formate, anche strato su strato, da alluvioni e dal deposito di materiale portato dalle montagne dalle acque dei fiumi”. Questi depositi superficiali e alluvionali non erano "ammassi rocciosi" ma ghiaie, sabbie, limi e fanghi non consolidati che si trovano solitamente nelle valli e negli estuari dei fiumi e nelle pianure basse. Il grande teorico nettunista tedesco Abraham Gottlob Werner (1749 – 1817) li chiamò in seguito “depositi dilavati”

Prima di Arduino, il concetto originale del quarto ordine comprendeva gli ammassi rocciosi vulcanici, basato sulla loro posizione e sulla natura delle rocce, non particolarmente sulla loro età relativa. Arduino, invece, incluse queste rocce nel suo “Terzo Ordine” (o “monti terziari”) assegnando invece al suo “Quarto Ordine” materiali sostanzialmente diversi da quelli che formavano le montagne degli altri tre ordini. Questo perché i depositi che hanno riempito le valli formando pianure, costituivano un sistema deposizionale chiaramente di origine molto più recente. È anche possibile che abbia riconosciuto che questi depositi erano di interesse limitato per lui poiché non erano importanti per l'industria estrattiva. Qualunque sia la ragione, il "quarto ordine", è la meno trattata delle unità litostratigrafiche del sistema di classificazione di Arduino. 

Le conclusioni critiche contenute nelle Due Lettere di Arduino sono senza dubbio emerse in seguito alla sua escursione nell'ottobre 1758 nella Valle d'Agno, nelle Prealpi a nord di Vicenza. Questa sezione di 20 km lungo la valle convinse Arduino di poter vedere uno schema generale coerente nelle sue osservazioni geologiche e geomorfologiche nelle regioni alpine e appenniniche. Tra i suoi manoscritti geologici e appunti di campo, conservati presso la Biblioteca comunale di Verona, il pezzo più rilevante è la sezione di bozzetti geologici lungo la Valle dell'Agno da Montecchio Maggiore alla conca di Recoaro. Il disegno della Val d'Agno che risale al 1758 fornisce una bella illustrazione dello schema di classificazione litostratigrafico di Arduino, sebbene l'etichettatura non identifichi i "quattro ordini" da lui proposti in seguito. Questa figura registra le rocce esposte lungo i fianchi della valle, le litologie e l'espressione topografica e il colore associati, fornendo la base per la sua differenziazione in 15 unità etichettate da A a R. Il suo quarto ordine è mostrato all'estrema destra a Montecchio Maggiore. 


Nelle sue Due Lettere, Arduino, in comune con ricercatori precedenti come Targioni Tozzetti, non incluse la discussione degli insiemi di fossili che avrebbero potuto caratterizzare la ricostruzione cronologica della storia della Terra. Si limitò a rilevare la presenza dei “resti di abitanti marini” che accennò solo come guida alla differenziazione delle rocce “Primarie” e “Secondarie”, apparentemente omettendo di rimarcare le differenze nella paleontologia delle due tipologie. 

A usare le quattro divisioni di Arduino fu, tra gli altri, il grande anatomista e paleontologo francese Cuvier (1769-1832), generalmente considerato il "padre fondatore della paleontologia", che indicò le faune caratteristiche associate a ciascuna divisione. Notò che la fauna quaternaria era quella dei giorni nostri e includeva le scimmie e l’uomo. Concluse che alcuni degli elementi faunistici, come mammut, mastodonte, rinoceronte lanoso e cervo gigante, erano caduti vittime dell'ultima grande catastrofe geologica, il diluvio biblico, mentre altri taxa erano sopravvissuti fino ai giorni nostri. 

Sebbene la terminologia a quattro ordini di Arduino sia stata sostituita nella geologia moderna dai termini di origine greca introdotti successivamente da vari autori, le rocce primitive e primarie sono effettivamente precambriane e, poi, paleozoiche, le rocce secondarie sono essenzialmente mesozoiche e le terziarie sono le rocce di età cenozoica. I termini di base latina Primario e Secondario sono ancora usati occasionalmente ancor oggi. Inoltre, nonostante i tentativi di sopprimerli, anche negli ultimi decenni i termini Quaternario, e in misura minore Terziario, hanno resistito alla sostituzione, rimanendo in molte situazioni nell'uso corrente.