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lunedì 12 novembre 2018

Vita logica e morte illogica di George Boole


George Boole è famoso per i suoi lavori sulla logica matematica, che aprirono la strada allo sviluppo dell’informatica e al mondo contemporaneo. In realtà fu un genio versatile, uno di quelli che nel mondo anglosassone chiamano polymath, termine riservato alle poche persone in grado di eccellere in quasi tutti campi del sapere. 

Era nato, primo di quattro figli, il 2 novembre 1815 a Lincoln, in Inghilterra, in una famiglia di mezzi modesti, con un padre che era sicuramente più un buon compagno che un buon capofamiglia. Il padre John era infatti un calzolaio che non dedicava molto impegno alla sua attività, perché nutriva una grande passione per la scienza e la tecnologia, in particolare per l'applicazione della matematica agli strumenti scientifici. Questo amore per il sapere fu chiaramente ereditato da George. John fu infatti il primo insegnante di matematica del figlio, e ne incoraggiò la passione per il sapere. Insieme costruirono macchine fotografiche, caleidoscopi, microscopi, telescopi e una meridiana. 

Dopo aver studiato il latino da un insegnante privato, George Boole imparò da solo il greco. A 14 anni era diventato così abile da provocare una piccola polemica. Tradusse un’opera del poeta greco Meleagro, che suo padre orgogliosamente fece pubblicare, suscitando la reazione di un insegnante locale, che dubitò che un quattordicenne avesse potuto scrivere con tanta profondità. A quel tempo George frequentava l'Accademia commerciale di Bainbridge a Lincoln, dove era entrato nel 1828. Questa scuola non forniva il tipo di educazione linguistica e scientifica che avrebbe desiderato, ma era ciò che i suoi genitori potevano permettersi. George fu tuttavia in grado di imparare il francese, l’italiano e il tedesco, studiando da solo anche le materie scientifiche che una scuola commerciale non trattava. La sua capacità di leggere le lingue straniere lo favorì negli studi matematici da quando, a 16 anni, lesse il Calcul Différentiel di Lacroix, ricevuto in regalo da un amico. 

Alla stessa età George dovette trovarsi un impiego retribuito per sostenere i genitori e i fratelli, poiché suo padre non era più in grado di provvedere alla famiglia, in quanto la sua attività era fallita. Dopo aver lavorato per tre anni come insegnante nelle scuole private, decise, nel 1834, di aprire una sua piccola scuola a Lincoln. Sarebbe stato un insegnante privato di lingue e matematica per i successivi 15 anni. Con pesanti responsabilità verso la famiglia, è notevole che abbia comunque trovato il tempo di continuare la propria istruzione. John Boole frequentava spesso la Lincoln Mechanics Institution, che era essenzialmente un’associazione culturale che promuoveva la lettura, le discussioni e le lezioni sulla scienza. Era stata fondata nel 1833 dal matematico Sir Edward Bromhead, membro della Royal Society, che viveva a poche miglia da Lincoln. Nel 1834 John Boole divenne il curatore della biblioteca. Senza il beneficio di una scuola d'élite, ma con una famiglia unita e l'accesso a libri eccellenti, in particolare quelli prestati da Bromhead, George mostrò presto le sue doti. Mantenne il suo interesse per le lingue, iniziò a studiare seriamente la matematica, principalmente le equazioni differenziali e il calcolo delle variazioni legate ai lavori di Lacroix, Laplace e Lagrange, perfezionando scrupolosamente le sue abilità con letture ripetute, finché non comprese il loro uso del calcolo differenziale e integrale. Lesse e con profitto anche i Principia di Newton. 

La motivazione iniziale di George Boole di studiare matematica era di approfondire la sua comprensione della scienza pratica, in particolare meccanica, ottica e astronomia. Con l'avanzare della sua padronanza dell'argomento, riconobbe che la matematica è estremamente eccitante e creativa a pieno titolo. Nel 1838, scrisse il suo primo articolo matematico (sebbene non il primo ad essere pubblicato), Su alcuni teoremi nel calcolo delle variazioni, concentrandosi a migliorare i risultati della Méchanique Analytique di Lagrange. 

All'inizio del 1839 Boole si recò a Cambridge dove conobbe il giovane matematico Duncan F. Gregory (1813-1844), editore del Cambridge Mathematical Journal (CMJ). Gregory aveva fondato questo giornale nel 1837 e lo curò fino a quando la sua salute peggiorò nel 1843 (morì all'inizio del 1844, a soli 30 anni). Gregory divenne un importante mentore per Boole. Con il sostegno di Gregory, che gli insegnò come scrivere un articolo matematico, Boole entrò nel mondo delle pubblicazioni nel 1841. 

Nei suoi primi anni di carriera, Boole pubblicò una trentina di articoli, tutti tranne due nel CMJ e, dal 1846, nel The Cambridge and Dublin Mathematical Journal, che ne aveva preso l’eredità. Si occupò di argomenti matematici standard, principalmente equazioni differenziali, integrazione e calcolo delle variazioni. L’articolo del 1841 Sull'integrazione di equazioni differenziali lineari con coefficienti costanti fornì un miglioramento significativo al metodo di Gregory per risolvere tali equazioni differenziali, basato su uno strumento standard in algebra, lo sviluppo in frazioni parziali. 

Nel 1841 uscì anche il suo primo articolo sugli invarianti, un’opera che avrebbe persuaso Eisenstein, Cayley e Sylvester a sviluppare l'argomento. Arthur Cayley (1821-1895), futuro professore a Cambridge e uno dei più prolifici matematici della storia, scrisse la sua prima lettera a Boole nel 1844, complimentandosi con lui per l’eccellente lavoro. Diventò un caro amico, che sarebbe andato a Lincoln a trovare Boole e stare con lui negli anni prima che Boole si trasferisse a Cork, in Irlanda. Nel 1842 Boole iniziò una corrispondenza con Augustus De Morgan (1806-1871) che diede inizio ad un'altra costante amicizia.

Nel 1843 Boole concluse un lungo lavoro sulle equazioni differenziali, combinando una sostituzione esponenziale e una variazione dei parametri con il metodo della separazione dei simboli. L’articolo era troppo lungo per il CMJ. Gregory, e più tardi De Morgan, lo incoraggiarono allora a presentarlo come memoria alla Royal Society. Il primo referee respinse il lavoro di Boole, ma il secondo lo raccomandò per la medaglia d'oro per la migliore opera matematica scritta negli anni 1841-1844: questa raccomandazione fu accettata. Nel 1844, la Royal Society pubblicò l’opera di Boole e gli assegnò la medaglia d'oro, la prima attribuita a un matematico. L'anno seguente, nel giugno 1845, Boole tenne una conferenza alla riunione annuale della British Association for the Advancement of Science a Cambridge. Ciò portò a nuovi contatti e amici, in particolare William Thomson (1824-1907), il futuro Lord Kelvin, che era professore di filosofia naturale presso l'Università di Glasgow.

Non molto tempo dopo aver iniziato a pubblicare articoli, Boole era ansioso di trovare un modo per ottenere un titolo in un’istituzione prestigiosa. Valutò l’ipotesi di frequentare l'Università di Cambridge per ottenere una laurea, ma gli fu consigliato che soddisfare i vari requisiti richiesti avrebbe probabilmente interferito seriamente con il suo programma di ricerca, per non parlare dei problemi di ottenere finanziamenti. Alla fine, nel 1849, ottenne la nomina alla cattedra di matematica al Queen's College di Cork, in Irlanda. In questa sede egli insegnò per il resto della sua vita. Boole si inserì nella vita accademica, godendo di un certo grado di indipendenza finanziaria e di un nuovo senso di libertà. A marzo dell'anno successivo scrisse al suo amico e corrispondente William Thomson: 
"Posso dire in tutta onestà che provo un piacere sempre maggiore nei miei nuovi compiti".

Nel 1847 pubblicò la sua prima opera di logica, Mathematical Analysis of Logic, seguita da Laws of Thought del 1854. Inoltre, durante questo periodo, Boole pubblicò decine articoli di matematica tradizionale, e solo un articolo di logica. Nel 1851 gli fu conferita la laurea ad honorem presso l'Università di Dublino. 

Per capire come Boole abbia sviluppato, in così poco tempo, la sua straordinaria algebra della logica, è utile ripercorrere le linee generali del dibattito sui fondamenti dell'algebra che era stato iniziato dai matematici affiliati all'Università di Cambridge nell'Ottocento prima dell’inizio della sua carriera matematica. 

Il XIX secolo si aprì in Inghilterra con una stasi della matematica. I matematici inglesi erano in lotta con i matematici continentali sulla priorità nello sviluppo del calcolo infinitesimale, che portò gli inglesi a seguire la notazione di Newton, e i continentali quella di Leibniz. Uno degli ostacoli da superare nell'aggiornamento della matematica inglese era il fatto che i grandi sviluppi dell'algebra e dell'analisi erano stati costruiti su basi dubbie, e c'erano matematici inglesi che erano piuttosto espliciti riguardo a queste carenze. Nell'algebra ordinaria, a preoccupare era l'uso di numeri negativi e dei numeri immaginari. 

Il primo grande tentativo tra gli inglesi di chiarire i problemi fondamentali dell'algebra fu il Treatise on Algebra, 1830, di George Peacock (1791-1858). Una seconda edizione apparve in due volumi, negli anni 1842-1845. Egli divise l’argomento in due parti: la prima era l'algebra aritmetica, vale a dire l'algebra dei numeri positivi (che non consentiva operazioni come la sottrazione nei casi in cui il risultato non era un numero positivo), la seconda era l'algebra simbolica, che non era governata da una specifica interpretazione, come nel caso dell'algebra aritmetica, ma solo da leggi formali. Nell'algebra simbolica non c'erano restrizioni all'uso della sottrazione, ecc. 

La terminologia dell'algebra era alquanto diversa nel diciannovesimo secolo rispetto a quanto si usa oggi. In particolare, non si usava la parola "variabile"; la lettera x era chiamata simbolo, da cui il nome "algebra simbolica".

Peacock riteneva che, affinché l'algebra simbolica fosse un metodo utile, le sue leggi dovevano essere strettamente correlate a quelle dell'algebra aritmetica. A questo proposito, introdusse il principio della permanenza delle forme equivalenti, che collegava i risultati dell'algebra aritmetica a quelli dell'algebra simbolica. Questo principio consisteva di due parti:
1. I risultati generali nell'algebra aritmetica appartengono alle leggi dell'algebra simbolica.
2. Ogni volta che un'interpretazione di un risultato di algebra simbolica ha senso nell'impostazione dell'algebra aritmetica, il risultato dà un risultato corretto in aritmetica.

Un interessante uso dell'algebra fu introdotto nel 1814 da François-Joseph Servois (1776-1847), che affrontò le equazioni differenziali separando la parte dell'operatore differenziale dalla parte della funzione algebrica. Con questo nuovo metodo simbolico considerava un'equazione differenziale, per esempio:


 e la scriveva nella forma Operatore (y) = cos(x). Ciò si otteneva (formalmente) ammettendo:

Portando a un’espressione dell’equazione differenziale come:


A questo punto entrava in gioco l'algebra simbolica, semplicemente trattando l'operatore D2 come se fosse un polinomio algebrico ordinario. Questa applicazione dell'algebra catturò l'interesse di Gregory, che pubblicò sul suo giornale diversi articoli sul metodo della separazione dei simboli, cioè la separazione tra operatori e oggetti. Egli si occupò anche dei fondamenti dell'algebra, dando un’interpretazione che Boole condivise quasi alla lettera. Gregory aveva abbandonato il principio di Peacock sulla permanenza delle forme equivalenti a favore di tre semplici leggi, una delle quali Boole considerava semplicemente una convenzione di notazione. Sfortunatamente, queste leggi non erano sufficienti a giustificare neanche i risultati più elementari dell'algebra, come quelli che implicano la sottrazione. 

In On the foundation of algebra (1839), il primo di quattro articoli di De Morgan su questo argomento apparsi sulle Transactions of the Cambridge Philosophical Society, si trova un tributo alla separazione dei simboli in algebra, e l'affermazione che i moderni algebristi di solito considerano i simboli come denotanti operatori (ad esempio, l'operazione derivativa) invece di oggetti come numeri. La nota in calce: 
"Il professor Peacock è il primo, credo, che ha distinto chiaramente la differenza tra ciò che ho chiamato i rami tecnico [sintattico] e logico [semantico] dell'algebra" 
riconosceva a Peacock il merito di essere stato il primo a separare quelli che vengono ora chiamati gli aspetti sintattici e semantici dell'algebra. Nel secondo documento di fondazione (nel 1841) egli propose quello che considerava un insieme completo di otto regole per operare con l'algebra simbolica. 

La strada verso la fama logica di Boole cominciò in modo curioso. All'inizio del 1847 fu stimolato a iniziare le sue indagini sulla logica da una disputa banale ma pubblica tra De Morgan e il filosofo scozzese Sir William Hamilton (1788-1856) – da non confondersi con il suo contemporaneo, il matematico irlandese Sir William Rowan Hamilton (1805-1865). Questa disputa ruotava attorno a chi spettasse il merito dell'idea di quantificare il predicato (ad esempio, "Tutto A è tutto B", "Tutto A è una parte di B", ecc.). Osservando la disputa a distanza, Boole intuì che i due approcci rivali potevano essere sintetizzati: ogni classe di oggetti poteva essere rappresentata da un singolo simbolo, mentre le relazioni tra classi potevano essere rappresentate da equazioni algebriche che collegavano i simboli. Nel giro di pochi mesi, Boole scrisse la sua monografia di 82 pagine, Mathematical Analysis of Logic, An Investigation of the Laws of Thought on which are founded the Mathematical Theories of Logic and Probabilities, fornendo un approccio algebrico alla logica aristotelica. (Pare che questa monografia e il libro di De Morgan, Formal Logic, apparvero lo stesso giorno nel novembre 1847). Boole stesso descrisse l’opera come: 
"Un'indagine sulle leggi fondamentali di quelle operazioni della mente con cui viene eseguito il ragionamento; per dar loro espressione nel linguaggio simbolico di un calcolo e, su questa base, per stabilire la scienza della logica e costruire il suo metodo; fare di quel metodo stesso la base di un metodo generale per l'applicazione della dottrina matematica delle probabilità; e infine per raccogliere dai vari elementi di verità riportati nel corso di queste indagini alcuni probabili indizi riguardanti la natura e la costituzione della mente umana".
Boole accettava pienamente la logica di Aristotele. Gli obiettivi di Boole erano "andare sotto, sopra, e oltre" quella costruzione: 
1. Fornendole basi matematiche che coinvolgono equazioni; 
2. Estendendo la classe di problemi che poteva trattare mediante la valutazione della validità per la risoluzione delle equazioni; 
3. Espandendo la gamma di applicazioni che poteva trattare, ad es. dalle proposizioni che hanno solo due termini a quelle che ne hanno arbitrariamente molti. 

Più specificamente, Boole concordava con ciò che aveva detto Aristotele, ma ritenne necessario aggiungere qualche concetto., Boole ridusse le quattro forme proposizionali della logica di Aristotele alle formule sotto forma di equazioni, di per sé un'idea rivoluzionaria. In secondo luogo, nel campo dei problemi della logica, l'aggiunta di Boole della risoluzione di equazioni alla logica - un'altra idea rivoluzionaria - comprendeva la dottrina di Boole secondo cui le regole di inferenza di Aristotele (i "sillogismi perfetti") devono essere integrate da regole per la risoluzione delle equazioni. Terzo, nel campo delle applicazioni, il sistema di Boole poteva gestire proposizioni e argomenti a più termini, mentre Aristotele poteva gestire solo proposizioni e argomentazioni di soggetto-predicato a due termini. 


Queste opere ampliarono l'orizzonte della matematica attraverso la logica simbolica. La matematica classica era incentrata sui concetti di forma e numero: quando venivano impiegati i simboli, venivano solitamente interpretati in termini di numero. Boole introdusse l’idea di interpretare i simboli come classi o insiemi di oggetti: lo studio di insiemi definiti di oggetti poteva essere affrontato attraverso la matematica. De Morgan elogiò il lavoro di Boole sulla logica dicendo:
"Il sistema logico di Boole è solo una delle tante prove di genialità e pazienza combinate ... Che i processi simbolici dell'algebra, inventati come strumenti di calcolo numerico, dovrebbero essere competenti per esprimere ogni atto di pensiero e per fornire la grammatica e il dizionario di un sistema di logica onnicomprensivo non sarebbe stato creduto fino a che non fosse stato dimostrato."
In The Laws of Thought, Boole utilizzò testi di Baruch Spinoza (1632-77) e altri filosofi e esaminò questi testi da un punto di vista logico. Perciò Boole rafforzò il ruolo della logica e questo ebbe un impatto importante sulla filosofia, in particolare attraverso il Circolo di Vienna che, nei primi anni ‘20 del Novecento, sviluppò la filosofia analitica. Dopo la morte di Boole furono scoperti numerosi manoscritti che mostrano che egli intendeva pubblicare un altro libro in cui le sue scoperte nella logica dovevano informare la sua visione personale della filosofia. 


Sebbene l'algebra logica di Boole non sia l'algebra booleana degli insiemi con le operazioni di unione, intersezione e complemento, tuttavia lo scopo delle due algebre è lo stesso, cioè fornire una logica che contempli equazioni per il calcolo delle classi e la logica proposizionale. Il nome "algebra booleana" fu introdotto da Charles Sanders Peirce (1839-1914), poi adottato dal filosofo di Harvard Josiah Royce (1855-1916) intorno al 1900, e infine da tutti. Si riferiva essenzialmente alla versione moderna dell'algebra della logica, introdotta nel 1864 da William Stanley Jevons (1835-1882), una versione che Boole aveva respinto. Per questo motivo, alla parola "booleano" è preferibile il nome di algebra “di Boole” per descrivere l'algebra della logica che Boole effettivamente sviluppò nelle sue opere.

Boole fu colpito dalle capacità computazionali del suo nuovo tipo di algebra. Era sorpreso di scoprire che la sua algebra poteva essere applicata all'arduo compito di risolvere complessi problemi di logica aristotelica. Non fu la prima persona a confondere la logica con il pensiero, e per molti anni pensò di aver scoperto il modo in cui la mente umana funziona e morì deluso dal fatto di non essere riconosciuto per questo. Ma ciò che aveva effettivamente scoperto è come funziona la logica formale. Aveva sviluppato un modo pratico per rappresentare e risolvere matematicamente complessi problemi logici. Durante la sua vita, non ebbe che la sua algebra sarebbe stata la base per una rivoluzione di grande scala, Tra la fine del diciannovesimo e l'inizio del ventesimo secolo, la sua logica trovò una pratica applicazione quando fu ampiamente utilizzata per verificare le implicazioni di contratti assicurativi complessi. Ma la logica booleana trovò la sua vera casa tecnologica a metà del XX secolo, quando il pioniere americano del computer Claude Shannon dimostrò nella sua tesi magistrale che i circuiti elettrici binari (quelli che sono rappresentati come solo o "chiusi" o "aperti") si comportano secondo le leggi dell'algebra booleana. Shannon mostrò che la logica complessa poteva essere rappresentata nei circuiti binari, che divennero la base per i computer digitali. 

Durante gli ultimi dieci anni della sua carriera, dal 1855 al 1864, Boole pubblicò altri articoli e due libri di matematica, uno sulle equazioni differenziali e uno sulle equazioni alle differenze parziali, che costituivano il suo primo amore matematico. A Treatise on Differential Equations fu pubblicato nel 1859. Boole fu molto felice quando ricevette la notizia che l'Università di Cambridge aveva adottato questa sua opera lavoro come libro di testo. Tenendo conto dell'impatto del suo lavoro matematico negli ultimi 20 anni, Boole rivide la sua produzione e comprese che molti dei suoi metodi e tecniche in relazione ai problemi di calcolo dovevano essere rivalutati, a causa della loro gamma potenzialmente più ampia di applicazioni. Così si mise al lavoro sul suo quarto e ultimo libro, un libro di testo intitolato A Treatise on the Calculus of Finite Difference. Lo scopo di questo nuovo testo era quello di far luce sulle connessioni tra equazioni alle differenze e equazioni differenziali, mentre metteva a fuoco la potenza dei metodi dell'operatore astratto applicati a una nuova area della matematica. In questo periodo arrivarono importanti onorificenze, dalla Royal Society (Fellowship, 1857), dalla Cambridge Philosophical Society (Membro onorario, 1858) e dall’Università di Oxford (Doctor Civilis Legis, Alto dottorato honoris causa).

A Cork, nel 1850, il futuro caposcuola della logica algebrica conobbe Mary Everest, che era la nipote del Colonnello George Everest, il Topografo Generale dell’India da cui il monte più alto del mondo prese poi il nome. A partire dal 1852, George Boole divenne l’insegnante privato di matematica di Mary e, quando il padre di lei morì nel 1855 senza lasciarle alcun mezzo di sostentamento, Boole le propose di sposarlo. La cerimonia ebbe luogo l’11 settembre 1855. Nonostante una grande differenza d’età (lei aveva 17 anni di meno), si trattò di un matrimonio felice, dal quale nacquero cinque figlie, una delle quali, Alicia, più tardi maritata Stott (1860-1940), sarebbe diventata una valente matematica, esperta nella geometria dimensionale (fu lei a coniare il termine politopo).


Mary Everest Boole era una donna intelligente, che sopravvisse al marito per 52 anni, durante i quali fu divulgatrice delle idee e delle scoperte di George, con una libertà di spirito e concezioni pedagogiche che l’hanno resa a suo modo un’icona del femminismo. Ella, tuttavia ebbe una grande responsabilità proprio nella sua morte. Vediamo come andarono i fatti, secondo il resoconto che ne diede Alexander Macfarlane in Lectures on Ten British Mathematicians of the Nineteenth Century (New York, 1916):
“Un giorno del 1864 egli percorse a piedi le due miglia dalla sua residenza al College sotto un violento acquazzone, e fece lezione con gli abiti bagnati. La conseguenza fu un’infreddatura con febbre, che ben presto si trasformò in una polmonite e pose fine alla sua carriera (…)”. 
Boole non aveva mai goduto di salute robusta. Riguardo alla sua delicata costituzione, Mary Boole disse che soffriva di una "Malattia ereditaria dei polmoni, aggravata dalla residenza in un clima umido, con un sistema nervoso sensibile al massimo grado".

Ciò che la maggior parte delle persone non sa è che George Boole fu assai probabilmente ucciso dall'omeopatia, o almeno da una sua interpretazione eccessivamente letterale. Sfortunatamente per lui, il padre di Mary era stato un fervente seguace delle teorie mediche di Samuel Hahnemann, il fondatore dell’omeopatia, e gli Everest avevano vissuto per anni nella residenza parigina del medico tedesco in rue de Milan, dove anche la futura signora Boole era diventata una discepola delle sue idee eterodosse.

Mary Boole, affascinata dal principio dei simili, cardine del pensiero omeopatico, e cioè che Similia similibus curantur (I simili si curano con i simili), pensò, forse su consiglio di un medico ciarlatano, che il freddo era la miglior cura per un raffreddore e che bisognava esporre George alle stesse condizioni che lo avevano fatto ammalare. Lo mise a letto e gli gettò addosso alcuni secchi d’acqua fredda. Per la donna questo trattamento, che oggi giudicheremmo crudele e avventato, era perfettamente logico. Per diversi giorni Boole rimase a letto mentre Mary bagnava le lenzuola. Il matematico, geniale ma assai ingenuo, lasciò fare, si ammalò di polmonite e morì. Vano fu il tentativo di un medico, il professor Bullen, chiamato troppo tardi al suo capezzale, di curarlo con metodi tradizionali. Boole morì l’8 dicembre 1864 a soli 49 anni. Il certificato di morte indicò la causa del decesso in una pleuro-polmonite e stabilì che la durata della malattia era stata di 17-19 giorni. Fu sepolto nel cimitero della chiesa di St. Michael a Blackrock, nella contea di Cork.


La veridicità di queste vicende è testimoniata da diverse fonti, tra le quali una significativa lettera scritta dalla figlia più piccola, Ethel sposata Voynich, che diventò una grande intellettuale e scrittrice apprezzata. Ethel non nasconde di attribuire alla madre la colpa della morte del padre:
(…) Mia sorella Mary Hinton, che fu sua amica, e che raccolse diversi aneddoti sulla famiglia, mi disse che, almeno secondo Mary Ann [la sorella di Boole], la causa della morte prematura di papà fu ritenuta la fede della Signora [Mary Everest Boole] in un certo bizzarro dottore che prescriveva cure con acqua fredda per ogni cosa. Qualcuno, non sono in grado di ricordare chi, pare che sia entrato in casa e abbia trovato il papà “che tremava tra lenzuola bagnate”. Ora, per quanto mi riguarda, sono incline a credere che ciò possa essere accaduto. Gli Everest sembra proprio che fossero una famiglia di gente eccentrica, che seguiva degli eccentrici. Il padre della Signora a quanto pare adorava Mesmer e Hahnemann e la stessa Signora seguì le teorie fino alla morte”. 
Di sicuro Hahnemann non avrebbe mai “curato” Boole con il metodo sciocco e disgraziato utilizzato da Mary Everest. Il principio dei simili riguarda i principi attivi, i rimedi, che il medico deve utilizzare per produrre una malattia artificiale simile a quella reale, che ad essa si sostituisce per poi scomparire. Le dosi da utilizzare devono essere ridotte al minimo indispensabile, in modo da minimizzare o annullare gli effetti sfavorevoli. Questi rimedi sono somministrati in dosi infinitesimali e opportunamente “dinamizzati”, al punto che è difficile trovarne traccia nella soluzione acquosa o nello zucchero. L’omeopatia fu la causa della morte di Boole solo perché interpretata in modo aberrante. Utilizzata correttamente, essa semplicemente non avrebbe avuto alcun effetto.


martedì 4 settembre 2018

De Morgan, tra erudizione e umorismo


Nel 1920 il fisico e matematico inglese Lewis F. Richardson (1881-1953), che si occupò di fisica applicata alla meteorologia e di matematica computazionale, mise come epigrafe e sintesi al suo articolo The supply of energy from and to Atmospheric Eddies (“L’apporto di energia da e verso i vortici atmosferici”) la seguente quartina, il cui ritmo ricorda le filastrocche per i bambini (nursery rhymes): 

Big whorls have little whorls 
That feed on their velocity, 
And little whorls have lesser whorls 
And so on to viscosity. 

Le grandi spire hanno piccole spire 
che si cibano della loro velocità, 
e le piccole spire hanno più piccole spire 
e così di seguito, fino alla viscosità. 

Questa poesiola, che si riferisce simpaticamente alla natura frattale della turbolenza, ha illustri precedenti. Si tratta infatti di una parodia dell’originale quartina sulle pulci di Jonathan Swift (1667-1745), che così recitava (da Poetry, a Rhapsody): 

So, naturalists observe, a flea 
Has smaller fleas that on him prey; 
And these have smaller still to bite 'em; 
And so proceed ad infinitum. 

Così una pulce, i naturalisti concordano, 
di pulci più piccole che la predano è il sito; 
e queste ne hanno di più piccole che le mordono; 
e così si va avanti all'infinito. 

La poesia delle pulci aveva ispirato anche il grande matematico e logico Augustus De Morgan (1806-1871) che aveva scritto mezzo secolo prima di Richardson una parafrasi più fedele (da A Budget of Paradoxes): 

Great fleas have little fleas upon their backs to bite 'em, 
And little fleas have lesser fleas, and so ad infinitum. 
And the great fleas themselves, in turn, have greater fleas to go on; 
While these again have greater still, and greater still, and so on. 

Le grandi pulci hanno piccole pulci sulla schiena che le mordono con appetito, 
e le pulci piccole hanno pulci più piccole, e così all'infinito. 
E le stesse grandi pulci, a loro volta, hanno pulci più grandi per campare; 
e queste ne hanno di ancor più grandi, e ancor più grandi, e via andare.


De Morgan era nato a Madura, in India. Fu educato in scuole private fino al suo ingresso al Trinity College di Cambridge, all'età di sedici anni. Fu uno studente eccellente, vicino al massimo del suo corso, ma scelse di non ottenere il titolo di Master of Arts, o di concorrere per una borsa di studio universitaria, a causa della sua obiezione di coscienza alle prove religiose richieste ai candidati per il dottorato a Cambridge. Nel 1828, per i suoi risultati accademici, ricevette un incarico come professore di matematica presso la neonata Università di Londra (che divenne l’University College). Ci insegnò per oltre trent'anni, ispirando generazioni di studenti. La sua reputazione crebbe grazie al suo eccezionale, incoraggiante e premuroso insegnamento e ai suoi articoli su argomenti d'avanguardia, enigmi matematici, giochi, stranezze e paradossi. De Morgan era il Martin Gardner del diciannovesimo secolo. 

Egli fu uno degli insegnanti di matematica più influenti e di successo della sua epoca. Possedeva una rara combinazione di intuizione, umorismo e creatività e le sue lezioni erano concise e lucide. A differenza dei suoi colleghi, era convinto che gli studenti dovessero essere stimolati, sfidati, ispirati e attentamente istruiti con buona pianificazione e pedagogia. Detestava i concorsi e la mancanza di condivisione delle conoscenze che ne deriva: era a favore dell'apprendimento cooperativo. Gli studenti riferivano che le sue lezioni erano ricche di umorismo, applicazioni ad altre discipline, riferimenti per ulteriori studi e amore per la sua materia. Anche il più astratto dei concetti era reso chiaro attraverso il suo brillante uso dell'analogia, della metafora e della similitudine. 

Si occupò di algebra, trigonometria, calcolo differenziale e integrale, calcolo delle variazioni, probabilità e logica simbolica. Tra le sue pubblicazioni più note ci sono An Essay On Probabilities (1838), Calculus (1842), Formal Logic (1847) e Double Algebra (1849), che prefigurava l'algebra astratta. Con George Boole, suo amico e corrispondente, fu l’artefice della rinascita della logica che si verificò nel XIX secolo. A lui dobbiamo un famoso teorema che si applica alla logica booleana, e quindi a tutti i tipi di circuiti logici, che consente di trasformare un prodotto logico di due o più variabili nella loro somma, o viceversa. Il teorema di De Morgan è meglio conosciuto sotto forma di due enunciati:

a) il complemento di un prodotto di variabili equivale alla somma dei complementi delle singole variabili:


b) il complemento di una somma di variabili equivale al prodotto dei complementi delle singole variabili:


Di carattere assai riservato, il matematico e logico inglese ebbe più volte a dichiarare di preferire lo studio al divertimento. Aveva infatti molteplici interessi culturali e una erudizione enciclopedica, ben al di là del mero campo logico-matematico: basti dire che fu il compilatore di alcune delle voci della più diffusa enciclopedia mitologica dei suoi tempi. Ci si aspetterebbe allora che fosse una persona seria e noiosa, ma non lo era affatto. De Morgan fu infatti un sostenitore della libertà religiosa e della libertà di espressione, un polemista raffinato, anticonformista e nemico di ogni forma di ipocrisia, un bibliofilo appassionato e una collezionista insaziabile di curiosità, bizzarrie, paradossi, indovinelli. Manifestò il suo humour e i suoi molteplici interessi scrivendo una serie di articoli tra il 1863 e il 1866 per la rivista londinese Athenæum, poi riuniti in A Budget of Paradoxes, pubblicato postumo dalla moglie nel 1872, una raccolta divertente di considerazioni, aneddoti, recensioni, citazioni sulla matematica, la scienza, la religione, compresa un’analisi dei rapporti tra scrittori ed editori, una pagina con centinaia di anagrammi del suo cognome (come “Great gun! Do us a sum!”), una serie di vivaci descrizioni del mondo scientifico inglese a lui contemporaneo. Un’edizione completa del Budget, con aggiunte e commenti, oggi considerata quella definitiva, fu poi curata dal matematico David Eugene Smith nel 1915.

Secondo De Morgan, un paradosso “è qualcosa che si distacca dall’opinione comune, o per l’oggetto o per il metodo, o per la conclusione”. Questa definizione a maglie larghe gli consente di considerare dei paradossi per la loro epoca anche le idee di William Gilbert, il precursore della teoria magnetica, o la scoperta del pianeta Nettuno da parte di Le Verrier. De Morgan però distingue due tipi di paradosso: “Il criterio con il quale si giudica una persona come autore di un paradosso, sensato o non sensato, non dipende da ciò che sostiene, ma dal fatto se egli abbia o non abbia acquisito una conoscenza sufficiente di quanto è stato fatto dagli altri, specialmente del modo in cui è stato fatto”. Sono così paradossi sensati le nuove idee in ogni campo del sapere, perché, per quanto rivoluzionarie siano, si basano sullo studio delle idee dei predecessori e sulla conoscenza del metodo con il quale sono state raggiunte; sono viceversa insensati i paradossi di coloro che hanno idee che si distaccano dall'opinione comune e che non tengono in alcun conto le evidenze storiche o scientifiche, o un metodo condiviso.

Ovviamente l’interesse di De Morgan è attirato soprattutto da questo secondo tipo di paradossi, per cui egli si diverte a presentarci quella varia umanità di folli letterari costituita da pseudo-matematici impegnati a quadrare cerchi, duplicare cubi, trisecare angoli con riga e compasso, di sedicenti sapienti che giocano con il numero 666, di neofiti che sperano in un colpo di geniale fortuna per entrare nel novero dei grandi matematici, ignorando del tutto quello che fanno e immaginandosi chissà quali guadagni. Non mancano poi coloro che pensano di essere profeti in patria, di essere vittime di chissà quali complotti o di non essere divenuti professori universitari perché per diventarlo occorrono rendite e appoggi considerevoli (idea che non sempre è campata per aria nel nostro povero paese, ma questa è un’altra storia). 

Tra gli scrittori stravaganti della raccolta troviamo anche il matematico scozzese John Napier (1550-1617). Ecco come commenta De Morgan il libro A plain discoverie of the whole Revelation of St. John ... whereunto are annexed certain oracles of Sibylla... Set Foorth by John Napeir, London, 1611:
“Napier sempre pensò che la sua grande missione fosse di rovesciare il papa, e che i logaritmi non erano altro che episodi e passatempi. (…) Egli fu uno dei primi a riportare la profezia dei seimila anni. “C’è una frase della casa di Elia che sempre perdura, che contiene queste parole: Il mondo ci sarà per 6000 anni, e poi sarà consumato dal fuoco: 2000 anni sarà vuoto o privo di leggi, per 2000 anni sotto la legge, e 2000 anni saranno i giorni del Messia…” La conclusione del libello dell’inventore dei logaritmi suona profetica e minacciosa: “Se tu Roma consenti a riformarti e a credere al vero Cristianesimo, allora credi a San Giovanni il discepolo, colui che Cristo amava, che in questa Rivelazione proclama la tua rovina (…) Pentiti dunque, in questo tuo ultimo respiro, se desideri la tua salvezza eterna, amen”.” 
Sembra sconcertante che la stessa persona abbia pubblicato dopo soli tre anni (1614) il Mirifici logarithmorum canonis descriptio, contenente la teoria dei logaritmi. La realtà è che siamo così abituati a considerare così assodate certe conoscenze da ignorare o dimenticare quanto queste nascano da un lungo processo di tentativi ed errori, da uomini per loro natura incoerenti e viventi in società e tempi contraddittori, e ci stupiamo di come uomini di grande valore potessero elaborare le loro straordinarie scoperte e contemporaneamente credere in idee sbagliate, coltivare passioni bizzarre, auspicare la realizzazione di sogni messianici.

Una delle follie letterarie più divertenti citate nel Budget of Paradoxes. meravigliosamente imbecille per l’uso bizzarro della matematica, è l’opera pubblicata a Londra nel 1839 da un certo E. B. Revilo, dal titolo The creed of St. Athanasius proved by a mathematical parallel. Before you censure, condemn, or approve; read, examine, and understand (“Il Credo di Sant’Atanasio dimostrato da un parallelismo matematico: Prima di censurarlo, condannarlo o approvarlo, leggi, esamina e capisci”). L'opuscolo (6 pagine) esamina tutti i passi del cosiddetto Credo di Sant’Atanasio, simbolo liturgico una volta utilizzato nelle chiese dell’Occidente, dalla forte impronta trinitaria. Ad ogni proposizione l’autore accompagna una sorta di “spiegazione matematica”, che della disciplina utilizza tuttavia solo i simboli. L’infinito è rappresentato da ∞, come al solito, mentre P, F, S, sono interi finiti; le tre persone della Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, sono indicate rispettivamente con P, (u ∞)F e, S, dove la frazione finita u rappresenta la natura umana. Ecco un paio di esempi:

CREDO Una è infatti la persona del Padre, altra quella del Figlio ed altra quella dello Spirito Santo. Ma Padre, Figlio e Spirito Santo hanno una sola divinità, uguale gloria, coeterna maestà.
CORRISPONDENZA MATEMATICA È stato dimostrato che ∞P, (u ∞)F e, ∞S insieme corrispondono a ∞, e che ciascuno vale ∞, e che ogni grandezza dell’essere rappresentata da ∞ sempre è esistita, esiste ed esisterà per sempre. Perciò non può essere creata, o distrutta, e tuttavia esiste”. 
CREDO Uguale al Padre nella divinità, inferiore al Padre nell'umanità. 
CORRISPONDENZA MATEMATICA (u ∞)F è uguale a ∞P in quanto ne condivide ∞, ma è inferiore a ∞P in quanto tocca u, perché u non è infinita.
Secondo De Morgan, l’autore sembra proprio credere in ciò che dice. Il fatto sconcertante è che dietro lo pseudonimo di E. B. Revilo si nasconde, scritto al contrario, Oliver Byrne (1810? –1890?), un eccentrico scrittore matematico che si definiva anche ingegnere civile, militare e meccanico, nonché ispettore dell’insediamento della regina Vittoria nelle isole Falkland. 

Byrne è stato autore anche di The first six Books of the Elements of Euclid; in which coloured diagrams and symbols are used instead of letters (1847), libro che gode ora di un rinnovato interesse perché la sua concezione grafica innovativa anticipa gli esperimenti delle avanguardie artistiche del primo Novecento, soprattutto l’arte di Piet Mondrian. Nel 2010 la casa editrice d’arte Taschen ha ripubblicato l’opera in un’edizione facsimile. Byrne è oggi rivalutato per tutta la sua opera, al punto che il Credo di Sant’Atanasio pare non tanto l’opera di un folle letterario, ma un’intelligente, singolare, estrema presa in giro di un anticipatore del dottor Faustroll. 


De Morgan si dimostra scrittore colto e di talento, esponendo le sue conoscenze con la vivacità di un moderno divulgatore e, nel solco della buona tradizione anglosassone, con uno humour che non esita a far ricorso all'aneddoto curioso, al gioco di parole, alla poesia umoristica o nonsensical. Così ci informa che gli astronomi inglesi non erano affatto dei seriosi asceti, riportando una lunga drinking song cantata in coro durante una delle loro riunioni. De Morgan afferma di aver trovato tra le carte di un amico deceduto un foglietto riportante la canzone. Qui riporto la strofa su Galileo:

Poor Galileo, forced to rat 
Before the Inquisition, 
E pur si muove was the pat 
He gave them in addition: 
He meant, whate’er you think you prove, 
The earth must go its way, sirs; 
Spite of your teeth I’ll make it move, 
For I’ll drink my bottle a day, sirs! 

Il povero Galileo, costretto a spergiurare 
davanti all'Inquisizione, 
Eppur si muove fu la pacca 
che diede loro in addizione: 
voleva dire, qualunque cosa vogliate provare, 
la Terra segue il suo moto, signori; 
malgrado la vostra autorità la farò muovere, 
perché berrò la mia bottiglia al giorno, signori! 

De Morgan mantenne riservate le sue opinioni religiose, ma fu generalmente considerato un agnostico, se non un ateo. In una lettera che scrisse a Rowan Hamilton il 1° settembre 1852, così rispose a un sonetto che l’amico gli aveva inviato: 
“Mi piace la vostra determinazione a non discutere di teologia. Mi avete inviato un paragrafo o sonetto, e io invio una risposta. Voilà la discussion commencée. Come dice il proverbio, “La zuffa incomincia al secondo colpo”. (…) Ora, la vostra teologia mi ha fatto venire in mente le righe scritte su una Bibbia, al tempo in cui iniziò a svilupparsi il libero giudizio.
Hic liber est in quo quaerit sua dogmata quisque,
Invenit et pariter dogmata quisque sua.  
È questo il libro in cui ognuno i suoi dogmi cerca,
E allo stesso tempo ognuno i propri trova.  
E poi mi è venuta in mente questa parafrasi:
One day at least in every week
The sects of every kind
Their doctrines here are sure to seek
And just as sure to find.

Almeno un giorno alla settimana
Le sette di ogni sorta
Le dottrine qui vengono a cercare
Che son certi di trovare.