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sabato 28 agosto 2021

Gabrio Piola, bigotto, reazionario e matematico sublime

 

Il sito di biografie dei matematici Mac Tutor dell’Università di St. Andrews, riferimento mondiale per lo studio della storia della disciplina, non riporta nulla sul matematico e patrizio milanese Gabrio Piola (1794-1850), eppure i suoi concittadini gli hanno dedicato una grande piazza, una fermata della metropolitana, la più vicina al Politecnico e a Città Studi, e una (contestata) statua nel cortile d’onore di Brera realizzata da Vincenzo Vela. Che Piola non fosse molto noto già pochi anni dopo la morte è dimostrato dalle polemiche che seguirono l’inaugurazione del monumento nel 1857: la stampa popolare parlò di “abuso di collocare in questo santuario di dottrina monumenti ad uomini di modestissima fama”. In un numero della rivista satirica milanese “L’Uomo di Pietra” pubblicato nello stesso anno compare una bellissima vignetta in cui la statua di Gabrio Piola è circondata dalle altre statue del cortile di Brera che cercano di consolarla perché, nel momento in cui fu presentata al pubblico, nessuno riconobbe il soggetto del ritratto!




In realtà Gabrio Piola è stato uno dei pionieri della fisica matematica in Italia. Ma che cosa si intende con questo termine? In passato, esso indicava quella branca della scienza che aveva permesso la soluzione di alcuni problemi specifici governati da equazioni alle derivate parziali, quali, ad esempio, la propagazione del calore, la teoria del potenziale, la teoria dell'elasticità; in questo senso Fourier, Lamé, Gauss, Beltrami, ecc., furono tra i più importanti fisici matematici. Oggi si riferisce allo sviluppo di metodi matematici rigorosi per l'applicazione a problemi in fisica. Il Journal of Mathematical Physics definisce il campo come "l'applicazione della matematica a problemi di fisica e lo sviluppo di metodi matematici adatti a tali applicazioni e alla formulazione di teorie fisiche". In realtà, nel periodo in cui operò Piola, l’epoca d’oro della meccanica celeste o terrestre, quasi tutti i matematici si confrontavano con problemi di fisica e la distinzione tra le varie discipline non era affatto stabilita rigorosamente.

Della giovinezza di Gabrio Piola non si hanno molte notizie se non che compì i primi studi in casa. Fu quindi iscritto a vari licei della città lombarda. Al liceo di S. Alessandro – oggi liceo Beccaria – studiò con il matematico e fisico barnabita Giuseppe Maria Racagni (1742-1822).

Compiuti gli studi liceali, si iscrisse all’università, che allora aveva sede a Pavia: dove incontrò un maestro di grande carisma, Vincenzo Brunacci (1768-1818), membro della Società Italiana delle Scienze e autore di un importante Corso di matematica sublime (cioè applicata alla fisica), pubblicato in quattro volumi fra il 1804 e il 1808. Brunacci era un convinto sostenitore di Joseph-Louis Lagrange, e pensava che il concetto di infinitesimo fosse da bandire dall’analisi e dalla meccanica. Piola ottenne il titolo di Dottore in matematica il 24 giugno 1816, ma la sua indole versatile non si limitava al solo studio delle scienze esatte, ma spaziava in più campi, come la filosofia, la teologia e la poesia.


Nei primi anni della Restaurazione, una brigata di giovani delle più ricche e nobili famiglie milanesi iniziò a incontrarsi nella Contrada del Chiossetto (vicino alla chiesa di San Pietro in Gessate) per darsi alla poesia. Dal luogo delle loro adunanze presero il nome di Accademia del Chiossetto o, con nome latineggiante, Accademia Clausetense. Negli anni successivi alla caduta di Napoleone infuriava la disputa tra Romantici e Classicisti; i salotti più progressisti di Milano sostenevano la necessità di rinnovare la poesia italiana, cercando ispirazione dalla poesia “barbarica”, come quella proveniente dall’Inghilterra e dalla Germania. Dall’altra parte vi era il partito dei Classicisti, che invece non voleva imitare ritmi, immagini e temi del mondo nordico; al contrario rivendicava la diversità della poesia italiana, che ha le sue radici in quella latina. Ovvia era la scelta di campo dell’Accademia, che ottenne anche la simpatia del voltagabbana Vincenzo Monti. L’Accademia del Chiossetto, anche se si riuniva per motivi esclusivamente poetici, aveva anche marcate coloriture politiche: essa radunava essenzialmente personalità moderate e reazionarie, molto legate agli ambienti clericali, che, pur non sostenendo l’ennesimo dominio straniero, preferivano di gran lunga la pace della Restaurazione alle guerre di Napoleone. Con il Congresso di Vienna tornava una politica più rispettosa delle differenze tra i ceti sociali e più aderente ai principi della fede cristiana. Piola fu del gruppo, cimentandosi, senza gran talento, con i versi, passione che non avrebbe mai abbandonato.

Nel 1818 moriva Vincenzo Brunacci e Piola ne redasse la commemorazione. Il sentimento di gratitudine dell’allievo verso il maestro trovò espressione anche nella riedizione degli Elementi di algebra e geometria del Brunacci. Questo manuale di successo, pensato per gli studenti dei licei e delle università, aveva già avuto tre edizioni. Piola ne curò la quarta nello stesso anno della scomparsa dell’autore, apportandovi diverse correzioni e riordinando la materia in alcuni punti, come ad esempio il capitolo dedicato alla trigonometria, che fu completamente riformulato. Nel 1824 sarebbe seguita una quinta edizione, con l’aggiunta di nuove note. Si trattava di opere che dimostrano la sensibilità di Piola per la divulgazione del sapere in una forma sempre più corretta e aggiornata: in questo solco si inseriva la pubblicazione delle Tavole logaritmiche in accompagnamento al già fortunato manuale. Intanto collaborava con il pavese Antonio Bordoni (1788-1860), allievo anch’egli del Brunacci e professore all’università di Pavia dal 1817, nell’allestimento delle Annotazioni agli Elementi di meccanica e d’idraulica dell’ingegnere e matematico bolognese Giuseppe Venturoli (1768-1846): le “annotazioni” rappresentarono un importante aggiornamento metodologico dell’opera, che aveva contribuito allo sviluppo degli studi sia della meccanica sia dell’idraulica in Italia; Piola e Bordoni rifecero, ricorrendo al metodo delle funzioni derivate di Lagrange, le dimostrazioni di Venturoli, che erano basate sull’uso degli infinitesimi.

Nel 1820 Piola fu nominato terzo allievo della Specola di Brera. La Specola Braidense era stata fondata nel 1764 dal gesuita dalmata Ruggero Boscovich. Nel 1773 la Compagnia di Gesù era stata soppressa nell’Impero austriaco e i suoi beni, incluso il palazzo di Brera, diventavano proprietà dello Stato. Da quel momento gli astronomi e gli allievi della Specola passarono alle dipendenze del Governo, che ne regolava anche la nomina. Nella Specola erano attivi tre astronomi (tra i quali Barnaba Oriani) e tre allievi. L’osservatorio, nonostante la stima di cui godeva a livello europeo, non aveva però una sufficiente dotazione economica: il governo austriaco trascurava la Specola e le promesse dell'imperatore Francesco I, in visita ufficiale nel 1825, non si tradussero mai in atti concreti. L’attività di studio e ricerca della Specola approdava nella pubblicazione delle Effemeridi astronomiche, che dal 1774 registravano le posizioni giornaliere del Sole e dei pianeti; nell’Appendice sì pubblicavano gli esiti delle ricerche degli astronomi stessi: fra queste c’è il primo contributo ufficiale di Piola in campo astronomico, Sulla teorica dei cannocchiali, del 1821. Tuttavia, non era l’astronomia il suo campo di interesse primario.

L’Imperial Regio Istituto Lombardo bandiva regolarmente dei concorsi a premi per lavori di ricerca scientifica. Un’apposita commissione individuava un tema da mettere a concorso. Gli elaborati pervenuti erano poi esaminati dai membri dell’Istituto: il vincitore riceveva un premio in denaro e il suo scritto veniva dato alle stampe. Il tema proposto nella seduta dell’Istituto del 4 ottobre 1822 era: “Si dimanda un’applicazione de’ principj contenuti nella Meccanica analitica dell’immortale Lagrange ai principali problemi meccanici e idraulici, dalla quale apparisca la mirabile utilità e speditezza dei metodi lagrangiani”. Si richiedeva dunque un’estensione della ricerca scientifica a partire da un testo fondamentale nel campo della fisica teorica del matematico italo-francese, il Traité de mécanique analytique, pubblicato in prima edizione a Parigi nel 1788.


Il problema fondamentale della meccanica ereditato dal secolo precedente consisteva nella determinazione del moto di punti materiali. In base alla concezione atomistica della materia, allora dominante, secondo la quale ogni corpo fisico è costituito da un numero finito di punti materiali, il moto di tutti i corpi doveva poter essere ridotto a loro sistemi; ma a tal fine era necessario, in primo luogo, comprendere il moto di un punto materiale. Il principio variazionale non si servì quindi, inizialmente, del metodo “diretto”, praticato con successo soprattutto da Newton, consistente nel ricondurre ogni variazione di moto (accelerazione) all'influsso di forze, bensì del metodo 'indiretto' del confronto: l'idea base del principio era di determinare, e quindi individuare univocamente, il moto effettivo del punto materiale tramite altri moti, soltanto pensati (virtuali) ma in linea di principio possibili, le cui particolari proprietà si potessero esprimere per mezzo di grandezze scalari.


Gli spostamenti virtuali sono slittamenti infinitamente piccoli del sistema, compatibili con i vincoli, ma al contrario di uno spostamento effettivo (anche di tipo infinitesimale), vanno contemplati come effettuati in un tempo nullo. Anche il lavoro necessario per essi è considerato “virtuale'” Questo principio richiede di ricondurre la dinamica alla statica, che si assume già sviluppata. Alla statica, cioè all'analisi di problemi di equilibrio, si riconduce anche la comparsa del principio dei lavori virtuali.

Il principio delle velocità virtuali assume importanza nella Mécanique analytique di Lagrange per il fatto di consentire un'organizzazione formale e deduttiva di ampie parti della meccanica. Egli introdusse a sua generalizzazione del principio delle velocità virtuali nella parte statica della sua opera come "une espèce d'axiome de Méchanique". Più tardi sostenne però che esso non possedeva l'evidenza tradizionalmente necessaria a un assioma. Egli cercò quindi di dimostrarlo per diverse vie, ma queste dimostrazioni sono considerate oggi piuttosto come petizioni di principio che non come derivazioni logiche da basi sicure.

Come è evidente dal tema proposto, la meccanica lagrangiana era considerata il metodo fondamentale per una nuova formulazione della meccanica proposta da Newton. Non è infatti agevole servirsi dell’’equazione di Newton quando la si debba riscrivere facendo uso di coordinate diverse da quelle cartesiane. La questione diventa ancor più difficile quando si considerino non solo punti materiali liberi di vagare per lo spazio, ma corpi estesi, o sistemi di punti tra loro connessi mediante vincoli di vario tipo. Il formalismo lagrangiano risolve in modo elegante il problema di scrivere le equazioni della dinamica, almeno quando siano soddisfatte alcune ipotesi in qualche senso naturali. Si trattava di un metodo in cui le equazioni del moto sono descritte tramite delle equazioni variazionali di Eulero (equazioni differenziali del secondo ordine), dove la funzione scalare argomento è la lagrangiana di Newton L, cioè la differenza tra energia cinetica T e potenziale V:

,

in cui si intende che sia l’energia cinetica T che l’energia potenziale V debbano essere espresse in funzione delle coordinate lagrangiane

 
delle velocità generalizzate


e del tempo t.

Nel descrivere sistemi in cui l'energia si conserva, la lagrangiana dipende soltanto dalle coordinate q e dalle loro derivate , in quanto il potenziale non dipende dal tempo. La dinamica di un sistema di N punti materiali soggetto a vincoli e a forze attive dipendenti dal potenziale è retta dalle equazioni di Lagrange:

dove L indica la lagrangiana di Newton. É questa la forma delle equazioni di Lagrange usata più di frequente. In questo modo, non è necessario utilizzare campi vettoriali. Il vantaggio più immediato consiste nel fatto che nel caso di sistemi vincolati è possibile ottenere le equazioni del moto senza dover tener conto delle reazioni vincolari, che sono per lo più indeterminate. A questo fine è sufficiente sostituire nella Lagrangiana per il sistema non vincolato una opportuna parametrizzazione del vincolo.

La ricerca di Piola Sull’applicazione de’ principj della Meccanica analitica del Lagrange ai principali problemi venne considerata la più meritevole fra quelle presentate e nell’adunanza solenne del 4 ottobre 1824 fu premiata con un riconoscimento monetario di 1500 lire italiane e con la pubblicazione. Nel stesso anno aveva ricevuto l’offerta della cattedra di matematica applicata presso l’Università di Pavia: era una proposta prestigiosa che il matematico tuttavia non accettò.

All’inizio della sua Memoria, Piola metteva in evidenza gli argomenti tralasciati da Lagrange che egli intendeva trattare: la descrizione del moto dei sistemi continui lineari, dei sistemi continui superficiali, l’analisi di alcuni problemi di idraulica e il riordinamento delle formule lagrangiane sul moto di rotazione. Egli partì da un principio fondamentale, ponendosi in contrasto con Lagrange: concentrare l’attenzione sul movimento, tralasciando il problema degli equilibri. Sul piano logico, a parere di Piola, occorreva premettere lo studio della dinamica e, a partire da quella, derivare il problema della statica.

Per lo studio del moto del punto materiale Piola riteneva che l’unico principio necessario fosse quello di sovrapposizione dei moti (spostamenti). Il principio è di carattere empirico; ciò non di meno esso appare assolutamente evidente perché́ fa riferimento all’esperienza di tutti i giorni; lo stesso non si può̀ dire del principio delle velocità virtuali: «Lagrange stesso ne convenne quando disse: quant à la nature du principe des vitesses virtuelles il faut convenir qu’il n’est pas assez évident». Secondo il principio di sovrapposizione dei moti (spostamenti), se si hanno due moti dovuti a due «cause» diverse, il moto risultante è pari alla somma vettoriale dei due moti. Un punto materiale è in equilibrio se e solo se i moti componenti si annullano tra loro. Con il principio della composizione dei moti si risolve non solo il problema del moto ma anche quello dell’equilibrio.


In secondo luogo, Piola criticava il ricorso ai concetti di velocità e di forza, “enti oscuri e metafisici dai quali bisogna distogliere il pensiero se si vuole avere chiarezza di concetti nello stabilire le equazioni relative al moto; le sole idee di spazio e di tempo sono invece concetti chiari e utili allo scopo”. Il metodo lagrangiano delle funzioni analitiche poteva essere applicato alla soluzione dei problemi di meccanica e Lagrange stesso lo aveva fatto parzialmente, ma non in maniera esauriente. Lagrange, partendo dal principio delle “velocità virtuali”, aveva dedotto le leggi dell’equilibrio e del moto espresse per mezzo di equazioni analitiche. Piola criticava proprio il fatto che il principio di base non era frutto di una dimostrazione bensì era stato posto come assioma. Proponeva, quindi, di sgomberare il campo dal concetto di “infinitamente piccolo” introdotto da Lagrange, che supponeva l’esistenza di un “moto minimo” nell’esposizione del principio delle “velocità virtuali”, che non era ricavato dall’esperienza.

Lo scritto voluminoso di Piola andava ben oltre il tema proposto dall'Istituto Lombardo, cosa che era stata notata e lodata anche dai commissari giudicanti. Barnaba Oriani e Francesco Carlini, estensori del giudizio di merito, rilevarono la diversità dell’approccio applicato da Piola rispetto a Lagrange: “(...) mostrando una decisa ripugnanza a quelle velocità virtuali e ancora ad ogni idea di infinitesimi, ricorre a un nuovo metodo che ha qualche rassomiglianza con quello usato due secoli prima dall’insigne matematico Bonaventura Cavalieri nella sua Geometria degl’indivisibili e che propriamente chiamasi metodo dei limiti”. Il milanese Cavalieri fu un riferimento costante per Piola, che avrebbe poi scritto una lunga e dettagliata commemorazione in occasione dell’inaugurazione della statua dedicatagli nel cortile di Brera.

Le concezioni epistemologiche di Piola sulla scienza in generale e sulla matematica in particolare sono contenute nelle Lettere di Evasio ad Uranio intorno alle scienze matematiche (Modena 1825), nel quale le verità della fede vengono confrontate con quelle della scienza, evidenziando un possibile accordo, a patto che non si metta in discussione il primato divino. Tra il fare scienza e la pratica della fede non vi è contrasto: ammettere l’esistenza di un ente eterno e creatore non è un ostacolo alla conoscenza scientifica del mondo; conoscere scientificamente il mondo, d’altro lato, può essere anzi un (ulteriore) invito alla fede.

“Raccogliendo il discorso, conchiuderemo essere buona cosa lo studiare le scienze, migliore il saper conservare la prima e la più importante di esse, che ci fu insegnata da un Maestro divino: essere conveniente il consultare le opere dei dotti scrittori, ma insieme di essenziale prudenza, specialmente a’ dì nostri, il non consolidarsi mai con alcuno in una università̀ di opinioni. Infatti, quegli stessi, che ci vorrebbero insidiare la religione, non sono essi i primi a millantare un dominio sui propri giudizi, una libertà di pensare, una costanza negli assunti principii? Ora mantiene in verità̀ il diritto di giudicare chi non si arrende a vieti sofismi, meno poi a certi frizzi maligni, che non vestono larva di ragionamento; fa l’uso più perfetto di sua libertà chi umilia la ragione davanti alla Fede con un ossequio, che dalla ragione stessa esaminato viene riconosciuto doveroso; è veracemente d’animo forte, e di carattere fermo chi per qualunque urto non si smuove dai fondamenti della sua religiosa credenza”.

Nonostante la rinuncia alla carriera accademica, Piola dedicò molto del suo tempo alla didattica della matematica e tenne regolari lezioni presso la sua casa, coadiuvato dal matematico e astronomo Paolo Frisiani. Tra i suoi allievi vi furono Francesco Brioschi, più tardi professore di meccanica razionale a Pavia e fondatore del Politecnico di Milano, e Placido Tardy, poi professore di matematica all’Università di Messina. Nel suo cosiddetto “Centro di matematica” Piola commentava gli autori più significativi e, fatto più importante, discuteva e divulgava le teorie che non trovavano ancora spazio nelle lezioni accademiche.

Tra gli autori più studiati a casa Piola c’era Augustin Louis Cauchy, il grande matematico francese ultrabigotto e reazionario (Abel lo aveva definito un cattolico pazzo). che, a seguito dei moti del luglio del 1830 contro il potere assoluto dell’ultimo re borbonico Carlo X e al colpo di stato di Filippo d’Orleans, aveva deciso di lasciare la Francia e aveva insegnato a Torino fra il 1831 e il 1833 su invito del re piemontese Carlo Alberto (quando andava a Milano era ospite in casa Manzoni). Con lui Piola era in corrispondenza almeno dal 1826.

Cauchy si era fatto precedere dalla pubblicazione di un lungo articolo in italiano intitolato Sui metodi analitici, pubblicato nell’inverno 1830-31 dalla Biblioteca Italiana di Milano. In questo lavoro presentava un’introduzione ai metodi dei suoi corsi all’École Polytechnique di Parigi. Nella prefazione, volle dimostrare che cosa significasse il suo “bisogno di rigore”. Criticando apertamente l’indeterminatezza dei metodi lagrangiani di calcolo, spiegava come il suo rigore si rifletteva su concetti fondamentali come quelli di derivata, integrale, integrazione delle equazioni differenziali. Ma il tono era pedante e generò una reazione ostile tra molti matematici italiani, ancora legati all’approccio lagrangiano al Calculus. Solo Gabrio Piola, anche perché di sentimenti politici e religiosi affini al francese, prese subito posizione a favore di Cauchy, diventandone poi il profeta in Italia (e i reazionari in politica furono tra i più innovativi in campo matematico). Lo stesso Piola avrebbe poi tradotto l’opuscolo scritto da Cauchy in difesa della religione cattolica contro “l’abuso dell’ingegno e della scienza adoperati a corrompere i cuori e pervertire le menti”, nel quale si criticava apertamente il materialista Laplace.


Piola fu eletto tra i dotti del Regio Istituto lombardo nel 1828 (per diventarne membro effettivo nel 1839), divenne membro della Società italiana delle scienze (Accademia dei XL), socio corrispondente della Nuova Accademia pontificia dei Lincei. Partecipò ai Congressi degli scienziati italiani che cominciarono a tenersi con cadenza annuale dal 1839. Fu anche editore di una rivista, Opuscoli matematici e fisici di diversi autori (Milano 1832-34), di cui uscirono solo due volumi. Tra l’altro, tale rivista fu il mezzo di diffusione delle teorie matematiche di Cauchy in Italia, contenendo alcuni dei suoi lavori fondamentali tradotti in italiano da Piola e Frisiani (Sulla meccanica celeste e sopra un nuovo calcolo chiamato calcolo dei limiti, Sui principj e sugli usi del calcolo dei residui). Una curiosità: la prima delle due memorie era stata presentata all’Accademia delle Scienze di Torino nell’ottobre 1831 per criticare la scuola lagrangiana di Giovanni Piana.

Anche nei lavori successivi Piola fu sempre guidato dall’ambizione di migliorare la teoria meccanica di Lagrange su due fronti: sul versante matematico occorreva eliminare il concetto degli infinitesimi; sul versante fisico era necessario fare chiarezza su alcuni principi enunciati da Lagrange stesso.

I suoi contributi più importanti si trovano sparsi nei lavori di matematica-fisica. I prodotti fondamentali in questo settore sono quelli di meccanica del continuo, che si occupa delle proprietà fisiche di solidi e fluidi che sono indipendenti da qualsiasi particolare sistema di coordinate in cui sono osservati. Queste proprietà fisiche sono rappresentate da tensori, che sono oggetti matematici che hanno la proprietà di essere indipendenti dal sistema di coordinate. Questi tensori possono essere espressi in sistemi di coordinate per comodità di calcolo.

I materiali, come solidi, liquidi e gas, sono composti da molecole separate dallo spazio. Su scala microscopica, i materiali mostrano separazioni e discontinuità. Tuttavia, alcuni fenomeni fisici possono essere modellati assumendo che i materiali esistano come un continuo, il che significa che la materia nel corpo è continuamente distribuita e riempie l'intera regione dello spazio che occupa. Un continuo è un corpo che può essere continuamente scomposto in elementi infinitesimali con proprietà che sono quelle dell'intero volume del materiale.



Modellare un oggetto come un continuo presuppone che la sostanza dell'oggetto riempia completamente lo spazio che occupa. Modellare gli oggetti in questo modo ignora il fatto che la materia è fatta di atomi, e quindi non è continua; tuttavia, su scale di lunghezza molto maggiori di quelle delle distanze interatomiche, tali modelli sono molto accurati. Leggi fisiche fondamentali come la conservazione della massa, la conservazione della quantità di moto e la conservazione dell'energia possono essere applicate a tali modelli per derivare equazioni differenziali che descrivono il loro comportamento; alcune informazioni sul materiale in esame vengono aggiunte attraverso relazioni costitutive.

Alla base delle opere di Piola c’è una posizione di fondo già evidente nella memoria giovanile del 1825, la stessa che si trova in Lagrange: tutta la meccanica può essere espressa per mezzo del calcolo differenziale, dichiarando di voler fondare la sua meccanica solo sui concetti base di tempo e di spazio (geometria); rinunciando al concetto di forza, che non è necessario, anche se può essere utile in quanto «vestendo d’immagini molte proprietà del moto se le rendono più famigliari»

Di sicuro uno dei contributi più rilevanti di Piola alla meccanica del continuo è il modo in cui introduce le componenti delle forze interne. Queste non sono concepite come forze scambiate tra molecole o particelle ultime componenti la materia, ma piuttosto come moltiplicatori indeterminati di Lagrange di opportune equazioni di vincolo.

Nel saggio del 1833 La meccanica dei corpi naturalmente estesi trattata con il calcolo delle variazioni, Piola andava oltre, estendendo l’applicazione dei principi della meccanica razionale ai corpi rigidi. Lagrange aveva elaborato sei equazioni di equilibrio dei corpi – le sei equazioni cardinali della statica – ma la sua attenzione si era però fermata sul problema dell’equilibrio globale, non dell’equilibrio locale. Piola. già nella Memoria del 1824 aveva spiegato che esistono nei corpi delle forze interne delle quali non è possibile farci un’idea chiara intorno alla maniera in cui interagiscono: perché un corpo sia in equilibrio, anche queste forze interne devono esserlo.

Lo studio dei sistemi di punti materiali che interagiscono tra loro richiede l’introduzione di altri principi e concetti; in particolare si devono introdurre le masse. Piola si rendeva conto della difficoltà, insita alla teoria dinamica da lui scelta. Risolse il problema ammettendo l’esistenza di “atomi” di materia tutti uguali tra loro. La massa di un aggregato è proporzionale al numero di atomi. Oltre al concetto di massa dovette introdurre anche il principio di azione e reazione. Secondo Piola tale principio, che non era mai nominato come tale, poteva essere riguardato in parte come principio di ragione, in parte come principio empirico.

Lo scopo di sviluppare una teoria meccanica rigorosa da un punto di vista matematico formale avveniva così con la rinuncia, almeno parziale, del rigore dal punto di vista fisico. Infatti, i principi assunti, la sovrapponibilità̀ dei moti e il principio dei lavori virtuali non erano giustificati in modo convincente. Ciò̀ nonostante, i risultati raggiunti da Piola furono fondamentali, dimostrando l’importanza fondamentale della meccanica analitica.

Piola iniziava il suo saggio del 1833 affermando che benché la Mécanique analytique fosse considerata la massima opera di meccanica e le sue tecniche rappresentassero la “vera meccanica filosofica”, di fatto essa doveva essere aggiornata e integrata. Piola si poneva così il problema di estendere le tecniche della Mécanique in modo che esse potessero essere applicate utilmente anche per i corpi estesi.

Attraverso lunghi calcoli, arrivava a elaborare le equazioni di condizione che esprimono l’equilibrio delle forze interne (1 e 2, cioè la rigidità dei corpi), riuscendo poi a dimostrare l’equivalenza tra tali formule con le equazioni indefinite di equilibrio (3 e 4). Tale dimostrazione nella letteratura internazionale va sotto il nome di teorema di Piola. 


 


Piola non era sempre cosciente della rilevanza dei suoi sviluppi, come accade sempre per quasi tutti i precursori, e non si accorse di avere introdotto una grandezza che sarebbe diventata importante. Si tratta del tensore nominale di tensione (o tensore di stress) P di Piola-Kirchhoff, indispensabile per lo studio del problema statico dei continui soggetti a grandi spostamenti, perché descrive le sollecitazioni e le deformazioni sia nella configurazione di riferimento che in quella corrente.

Piola scrisse anche importanti memorie di matematica pura sulle differenze finite e sulla teoria dell’integrazione, soprattutto in Note relative al calcolo degli integrali definiti (1846) e in Sull’applicazione del calcolo delle differenze finite alle questioni di analisi indeterminata (1850). Eugenio Beltrami riprenderà una generazione dopo l’approccio di Piola.

Sebbene sia stato uno dei più brillanti meccanici razionali del XIX secolo, probabilmente il più brillante degli italiani, Gabrio Piola è autore poco conosciuto e valutato. Ciò è dovuto a varie ragioni: di carattere generale, associate al provincialismo scientifico dell’Italia del tempo, e di carattere particolare, come la sua scelta di scrivere soltanto in italiano, nonostante conoscesse a fondo gli sviluppi francesi della matematica fisica. Nonostante i suoi concittadini lo conoscessero ben poco, il suo nome è tuttavia uno dei pochi a essere ancora citato nella letteratura moderna della meccanica del continuo.


Morì nella sua villa di Giussano, in Brianza, il 9 novembre 1850.


martedì 16 agosto 2016

Giovanni Plana, parabola di un matematico


Alla Scuola Centrale di Grenoble, negli anni finali del ‘700, Henri Beyle, il futuro Stendhal, alla giovanile passione matematica del quale ho dedicato il precedente articolo, incontra un giovane italiano di idee democratiche come le sue, con il quale stringe amicizia e scambierà una regolare corrispondenza negli anni successivi. Si tratta di Giovanni Plana (1781-1864), nato a Voghera da una famiglia di agiati proprietari terrieri, che, a quattordici anni, aveva piantato un Albero della Libertà nel cortile della scuola Sant’Agata della cittadina natale, inducendo i genitori a mandarlo a studiare dagli zii, che da tempo risiedevano a Grenoble, in una sorta di precoce esilio politico.

Plana è un giovane di talento e dimostra la sua abilità eccellendo nei corsi che frequenta, soprattutto in matematica (nelle Scuole Centrali istituite dalla Convenzione per “formare la nuova generazione alle virtù repubblicane” si potevano scegliere i corsi da frequentare e non esisteva un piano di studi vincolante), L’adolescente italiano resta a Grenoble per tre anni, studiando dal secondo anno aritmetica, geometria piana, algebra e trigonometria e, in quello successivo, geometria dello spazio, elementi di calcolo differenziale e integrale, con particolare riguardo alle applicazioni. Nel 1796 vince il primo premio di Disegno, nel 1797 i tre primi premi di Lettere, Matematica, Disegno, nel 1798 il primo premio di Matematica. Stendhal, in una lettera alla sorella Pauline, scrive: «Plana, se niente lo distoglie, sarà un grande entro dieci anni; sono felice di essere un suo amico intimo».

Al termine dei corsi, Plana partecipa al concorso d’ammissione all’École Polytechnique di Parigi, che si svolge a Lione nell’autunno 1800, risultando nono su 74 candidati. La selezione è basata solamente sulla preparazione matematica e valuta le qualità civiche e patriottiche del candidato. Per questo motivo chiede l’attestazione di buona condotta e di fedeltà repubblicana, che gli viene rilasciata con queste parole:
«Il prefetto del dipartimento dell’Isére, viste le attestazioni chi gli sono state fornite dalle autorità costituite di Grenoble, certifica che: il citato Jean-Antoine-Amédée Plana, allievo della École Centrale di questo dipartimento, nato a Voghera in Piemonte, risiede a Grenoble dal 1790 (sic) presso suo zio, che vi risiede da 29 anni e che vi si è stabilito da 22; che si è iscritto al registro della guardia nazionale; che ha compiuto tutti i doveri di cittadino francese compatibili con la sua età, e che ha costantemente dato prova della sua fedeltà al governo repubblicano».
La Scuola Politecnica è basata su tre anni di corso. Il programma è così costituito:
• Primo anno: analisi e sue applicazioni alla geometria a tre dimensioni, geometria descrittiva, stereotomia, elementi di chimica, fisica generale e disegno;
• Secondo anno: applicazioni dell’analisi alla meccanica e all’idrodinamica, applicazioni della geometria descrittiva ai servizi pubblici, in particolare all’architettura, fisica generale, chimica e disegno;
• Terzo anno: applicazioni dell’analisi alle macchine, fortificazioni, fisica, chimica e disegno.

Il metodo didattico adottato è quello dell’alternanza di lezioni teoriche con quelle pratiche, con l’uso di laboratori scientifici; sono previste ripetizioni e spiegazioni delle lezioni effettuate da allievi del terzo anno, scelti fra i migliori. I docenti sono i più grandi matematici e scienziati dell’epoca, tra i quali Monge, Lagrange, Laplace, Poisson e Fourier.


All’École Polytechnique Plana è fortemente influenzato da Lagrange, insegnante di analisi, anch’egli di nascita italiana, con il quale entrerà in confidenza. Apprende poi la meccanica celeste da Lagrange e Laplace. Il suo interesse per la matematica e l’astronomia e la competenza dimostrata colpiscono favorevolmente i suoi insegnanti. Conclusi gli studi, nel 1803, Fourier gli scrive l’11 marzo:
«Il cittadino Dupuy, professore di matematica alla Scuola Centrale, mi ha informato, cittadino, del desiderio di vedervi al posto di Professore della Scuola di Artiglieria di Grenoble. Io condivido a questo riguardo le opinioni di questo stimato professore».
È interessante notare che il posto gli venga offerto da un suo vecchio professore di Grenoble, segno indubbio di stima, ma Sebastien Henri Dupuy de Bordes è quello stesso insegnante che Stendhal definirà come «il nostro enfatico professore […] quest’uomo così vuoto […] questo grande Dupuy ci spiegava le proposizioni come una serie di ricette per fare l’aceto». Sia come sia, Plana rifiuta la proposta di Fourier.

Fourier non demorde, e preme affinché Plana ottenga la cattedra alla Scuola di Artiglieria di Torino e Alessandria. Il 19 marzo 1803 Plana è nominato professore di matematica e può tornare in Italia o, meglio, in Piemonte che, nel 1805, diventerà una provincia francese fino al crollo di Napoleone. Intanto l’applicazione della matematica all'astronomia lo appassiona sempre più. Così scrive a Stendhal nel 1804:
«Per parlarti ora della vita che conduco a Torino, ti dirò che è assai monotona; non frequento la società perché per carattere preferisco la solitudine alla compagnia di quelle persone con le quali ci si può intrattenere solamente sulla pioggia o il bel tempo, e d’altra parte so che ho molto da fare per perfezionarmi in una scienza di cui sono sempre più innamorato mano mano che procedo... Vedi dunque, mio adorato amico [in italiano nel testo, NdR], che la mia vita trascorre a leggere poco e a meditare molto».
Nel novembre 1805 Plana è convinto di ottenere la cattedra preferita, ma la direzione dell’Osservatorio astronomico è assegnata ad Anton Maria Vassalli Eandi, docente di fisica all’Università di Torino, e la cattedra di astronomia va a un certo Blanquet-Duchayla, privo di meriti scientifici. Nel 1806 Stendhal testimonia che: «Plana ha appena visto dare a un altro il posto che sperava. Sembrerebbe che si consoli di ciò quasi interamente con il lavoro».

A Torino in effetti Plana incomincia la sua attività scientifica vera e propria, che sarà prolifica al punto che in tutta la vita produrrà più di 800 tra articoli, saggi e monografie. Tra il 1809 e il 1810 scrive una Mémoire sur l’intégration des équations lineaires aux différences partielles du second [sic] et du troisième ordre, in cui perfeziona il metodo di Laplace per studiare un’equazione lineare alle derivate parziali in tre variabili del secondo ordine in modo diverso, più semplice e diretto, e con risultati equivalenti a quelli ottenuti da Legendre; poi Equation de la courbe formée par une lame élastique, quelle que soient les forces qui agissent sur cette lame e, in cui generalizza un problema di statica già trattato da Eulero, Legendre e Lagrange, e Sulla teoria dell’attrazione degli sferoidi ellittici, un problema di interesse astronomico che riprende la teoria di Laplace. Questo argomento otterrà l’attenzione di Gauss e Jacobi.

Tutte le tre opere sono pubblicate nel 1811, anno in cui Lagrange lo raccomanda per la cattedra di Astronomia a Torino e Plana finalmente ottiene il posto ambito, che forse avrebbe meritato già in precedenza. Egli resterà nel capoluogo piemontese per il resto della propria vita, insegnando astronomia all’università e matematica alla scuola di artiglieria. Nello stesso anno diventa socio dell’Accademia delle Scienze di Torino.

I suoi interessi sono molteplici, e comprendono Analisi matematica (integrali di Eulero, funzioni ellittiche), fisica matematica (riscaldamento di una sfera, Induzione elettrostatica), geodesia (estensione di un arco di latitudine dall’Austria alla Francia), oltre naturalmente alla meccanica celeste (soprattutto la teoria dei movimenti lunari).

Tra il 1810 e l’anno successivo frequenta l'Osservatorio di Brera a Milano, diretto da Barnaba Oriani, che lo invita a collaborare con Francesco Carlini per effettuare misure geodetiche ed elaborare una teoria del moto della luna basandosi sulle equazioni dei moti celesti elaborate da Laplace. Nel marzo 1813, l’anno in cui muore Lagrange, è finalmente nominato direttore dell’Osservatorio di Torino.

Ma le grandi tempeste della storia si abbattono di nuovo sull’Europa, sul Piemonte e sulla vita di Giovanni Plana: sconfitto sul suolo francese, Napoleone Bonaparte il 6 aprile 1814 abdica da imperatore e si consegna alle forze nemiche, che lo mandano in esilio sull’isola d’Elba. Il 20 maggio Vittorio Emanuele I ritorna a Torino: è la Restaurazione, sancita quasi subito dal Congresso di Vienna e poco scossa dall’effimero tentativo di rivalsa napoleonica durato cento giorni e conclusosi a Waterloo il 18 giugno 1815. 


La cattedra di Astronomia, ricoperta da Plana, viene soppressa perché istituita dai francesi. Inoltre la mentalità bigotta dei nuovi padroni d’Europa è malfidente verso le scienze. Plana viene allontanato dall’Accademia e dall’Università, ma per fortuna è immediatamente rinominato: nel dicembre del 1814 ottiene la cattedra di Analisi infinitesimale presso l'Università di Torino e nel 1816, è nominato professore di Meccanica razionale nella ripristinata Accademia Militare, dove ha tra gli allievi anche Camillo Benso di Cavour, al quale predice una luminosa carriera qualora voglia proseguire gli studi matematici. Nel 1817 è nominato astronomo reale e sposa Alessandra Maria Lagrange, figlia del fratello minore del matematico suo insegnante e mentore dai tempi di Parigi. Dal matrimonio nascono due figli, Sofia (1818) e Luigi (1825). 

Passato anche questo accidente, incomincia il periodo più fecondo dal punto di vista scientifico. Carlini e Plana procedono nella loro opera, intesa a continuare la teoria lunare di Laplace, consci dell’Importanza di giungere ad una soluzione completa e soddisfacente per il moto lunare, sia per ragioni puramente teoriche, sia per questioni pratiche legate al calcolo delle eclissi, alla navigazione e alla predizione dei flussi e riflussi delle maree. 

Nel 1818, Laplace decide di stimolare gli studi sul moto della Luna. Così propone all’Accademia delle Scienze di Parigi di istituire un premio da assegnare nel 1820 a chiunque fosse riuscito a costruire tavole lunari basate solamente sulla legge di gravitazione universale. 

Lavorando sulla teoria della Luna e rivedendo l’opera di Laplace, Plana si toglie la soddisfazione nelle sue lettere a Carlini di criticare alcune espressioni analitiche e certi punti procedurali di Laplace. Purtroppo ci sono giunte solo poche risposte di Carlini, pertanto non sappiamo come egli reagì alle opinioni severe espresse da Plana. Ad ogni modo è chiaro che i due avevano caratteri diversi: più impetuoso e permaloso Plana, più pensieroso e posato Carlini. 

Entrambi decidono, con qualche dubbio, di competere per il premio dell’Accademia francese, anche se temono che Laplace possa in qualche modo favorire Damoiseau, impegnato nello stesso tipo di impresa, o qualche altro studioso francese. 

Non c'è molto tempo per redigere l’articolo e inviarlo a Parigi, poiché il testo deve pervenire all’Accademia entro il primo gennaio 1820. Plana teme di non riuscire a essere pronto e, nell’agosto del 1819, scrive allarmato a Carlini: «Ho letto sul giornale di fisica che un articolo per il premio è già stato presentato». Alla fine, dopo qualche ritardo, l’articolo, che più tardi Carlini avrebbe definito un semplice sommario dei loro risultati, è inviato da Torino il 18 dicembre e arriva appena in tempo presso la segreteria del premio. Plana e Carlini presentano una soluzione basata sul metodo di Laplace, ma con sviluppi in serie di ordine superiore per tener conto della forma della Terra e della presenza del Sole, Giove e degli altri pianeti.

Nei primi mesi del 1820 i due continuano a lavorare e a modificare dove necessario la loro teoria della Luna: in particolare preparano il supplemento alla memoria con la quale sono in gara, che inviano successivamente. Il 17 marzo Plana riceve una lettera da Poisson datata ad otto giorni prima, nella quale il francese lo informa che il giorno precedente l’Accademia ha deciso di assegnare a lui e Carlini il premio per la teoria della Luna. Poisson dice anche che un premio dello stesso importo è stato assegnato a Damoiseau per il suo articolo e, nel post-scriptum, lo avvisa che Laplace ha qualche commento da fare sul loro lavoro. 

Plana spera che l’assegnazione del premio sia seguita da un commento che sottolinei la qualità innovativa del lavoro svolto e riconosca il suo potenziale di perfezionare la teoria esistente. Tuttavia si sbaglia, e una lettera di Laplace del 31 marzo dimostra che le sue speranze sono vane. Laplace, dopo le congratulazioni di rito, sostiene di voler fare alcune osservazioni che sente doverose sul lavoro dei due italiani.

Ci sono, dice, alcune differenze sostanziali tra i loro risultati e quelli di Damoiseau riguardo le ineguaglianze secolari dei pianeti maggiori, specialmente quelle del perigeo. Mentre Damoiseau, che ha seguito il metodo impiegato nella Meccanica Celeste, limitandosi a espandere ulteriormente le approssimazioni, ha conseguito risultati che gli sembrano “degni di fede”, egli non si sente di dir nulla sul metodo seguito da Carlini e Plana, che ha condotto «a serie piuttosto complicate e convergenti lentamente». Egli riconosce tuttavia che il loro lavoro è stato accurato. Per quanto riguarda il supplemento presentato successivamente, ritiene che l’analisi contenuta sulle ineguaglianze di lungo termine dovute alla forma della Terra sia incompleta. Qualche giorno più tardi la segreteria parigina comunica ufficialmente la vittoria del premio. 

Nei giorni successivi, Carlini e Piana possono leggere l’articolo che Laplace ha consegnato al Bureau des Longitudes il 29 marzo, un giudizio assai indelicato nei loro confronti. Il tono dell’articolo è davvero sgradevole: 
«Pertanto invito i geometri e gli astronomi che lavorano su questa teoria a seguire il metodo che ho esposto [nella Meccanica Celeste] e a confrontare i loro calcoli con quelli del testo [di Damoiseau] quando sarà pubblicato». 
Non sorprende che l’orgoglioso Plana sia molto irritato dalle critiche di Laplace. Ci sono molti motivi per la sua rabbia. Egli accusa Laplace di mancanza di delicatezza nel criticare pubblicamente un lavoro che non è ancora stato pubblicato: si tratta di un’ostilità preconcetta per le idee diverse dalle sue, oltre che di un pregiudizio in favore dei suoi seguaci e connazionali. 

Le accuse di Plana non sono ingiustificate, e trovano Carlini completamente d’accordo. Tuttavia questi cerca di moderare il risentimento del suo collega. La cosa che dà più fastidio è la riluttanza dell’Accademia parigina a pubblicare le opere che hanno vinto il premio (solo nel 1827 l’istituzione pubblicherà quella di Damoiseau, mentre quella di Plana e Carlini non sarà mai data alle stampe).

Dopo aver invano atteso che Laplace risponda pubblicamente alle loro obiezioni, i due si decidono a inviare una nota, ferma ma cortese, alla rivista specialistica internazionale Correspondance astronomique del barone von Zach, che viene pubblicata nel luglio 1820, con una prefazione di sostegno dello stesso editore, assai influente presso gli astronomi tedeschi. Nella nota, i due forniscono dettagliate risposte alle osservazioni di Laplace, del quale hanno assunto le stesse condizioni preliminari (la Luna compie un moto ellittico intorno alla Terra perturbato dalla massa del Sole, le leggi di gravitazione di Newton sono perfettamente valide, la velocità orbitale della Luna non è rallentata dall’attrito con l’etere, l’effetto delle masse interagenti si può considerare istantaneo). 

La differenza sostanziale consiste nel fatto che essi adottano un metodo diverso di integrazione, che essi praticano per successive approssimazioni, mentre il francese aveva adottato coefficienti indeterminati che lo costringevano a sostituire di volta in volta i coefficienti numerici ottenuti dall’osservazione. Plana mostra che quei coefficienti possono essere espressi in serie letterali di potenze di alcune costanti, in particolare l’eccentricità delle orbite solare (apparente) e lunare, la tangente dell’inclinazione dell’orbita lunare sul piano dell’eclittica, il rapporto tra il movimento medio della Terra e della Luna e il rapporto tra la distanze Terra–Luna e Terra–Sole. Così Plana e Carlini possono determinare più elegantemente i coefficienti attraverso una serie di funzioni esplicite del moto lunare e solare, senza usare valori numerici. 

Nel frattempo la storia torna a bussare alla porta del nostro protagonista. Nel luglio del 1820 Stendhal riceve da Plana una lettera in cui gli si dice che i liberali milanesi sospettano che sia una spia degli austriaci. Per Stendhal è un colpo inatteso, che lo induce a lasciare Milano: «senza i torbidi e la carboneria non sarei mai rientrato in Francia», scriverà anni dopo. La lettera segna la fine dell’amicizia, ormai minata da sospetti e accuse. A partire da quell’episodio, il nome di Plana scompare dalla corrispondenza dello scrittore. Durante la reazione seguita ai moti rivoluzionari del 1821, Plana viene accusato dalla “Commissione Superiore di Scruttinio” con un altro docente “di principii totalmente avversi al legittimo Regio Governo”, ma riesce ad evitare sanzioni per le seguenti motivazioni: 
«Li professori controscritti non potendo avere che pochissima influenza sulla gioventù, tanto per la natura dei trattati che dettano, quanto per il piccolo numero di persone intervenienti alla loro scuola; e trattandosi altronde di persone di non ordinario ingegno, la Giunta è in senso che siano mantenuti, ma che si faccia loro sentire che il Governo non ignora la loro maniera di pensare che altamente disapprova come contraria alla qualità ed ai doveri di buon suddito e che spera che la loro regolare condotta all'avvenire lo dispenserà dal prendere la menoma dispiacevole misura a loro riguardo».
L’episodio, frutto più dell’attività di sbirri zelanti che da un effettivo coinvolgimento del Plana, è presto dimenticato. Forse si tiene anche conto dei suoi ottimi rapporti personali con Vittorio Emanuele I, appassionato di astronomia. Nel 1821 Plana pubblica Sur une novelle expression analityque des nombres Bernoulliens, propre à exprimer en terms finis la formule générale pour la sommation des suites, in cui esprime i numeri di Bernoulli di indice pari mediante integrali definiti e elabora una formula per la differenza tra una somma discreta e l’integrale corrispondente, ora nota come formula di Abel-Plana (ma Abel la formulerà tre anni dopo). Inoltre, nel 1822, egli, con l’approvazione reale, trasferisce i pochi strumenti dell’osservatorio dal Palazzo dell'Accademia delle scienze di Torino in una delle quattro torri di Palazzo Madama, aggiungendone altri più evoluti e dando inizio a un'attività osservativa sistematica. Si tratta della vera rinascita dell’Osservatorio torinese, che rimarrà in quella sede centrale fino al 1912.

Nel 1821 intraprende con il Carlini degli studi di geodesia che, entro il 1825, gli consentiranno di realizzare la triangolazione della Savoia e del Piemonte e di determinare il “parallelo medio” che attraversa Francia e Italia. I risultati sono sintetizzati in due grossi volumi, le Operations geodesiques et astronomiques, 1825-1827. In riconoscimento del lavoro svolto, nel 1828 a Plana e Carlini è conferito il premio Lalande della Académie des Sciences. Plana ottiene anche la Croce di Ferro dal governo austriaco. 

Alla fine del 1823 Plana e Carlini sono rassicurati dai rispettivi governi (Piemonte e Lombardo-Veneto) che avranno i fondi per pubblicare la loro memoria sul moto lunare: una somma ingente, dato che si tratta di tre volumi. Tuttavia cominciano a manifestarsi differenze di opinioni tra i due sul vero scopo del loro lavoro. Carlini è dell’idea di rivedere l’opera così come era stato concepita, correggendo gli eventuali errori di calcolo, e di fornire una serie di tavole lunari corrette ad uso degli astronomi. L’idea di Plana è molto più ambiziosa: rivedere il lavoro in modo da costruire una nuova teoria della Luna che possa risolvere in ogni dettaglio analitico le incongruenze logiche e le approssimazioni che erano talvolta emerse nell’opera di Laplace. Proseguendo il lavoro, egli lo vuol trasformare in un trattato di matematica applicata al problema generale dei tre corpi. Alla fine i due si rendono conto della inevitabile fine della loro collaborazione. Carlini compilerà le sue tavole lunari, mai pubblicate ma utilizzate a Brera fino al 1862, mentre Plana proseguirà da solo, fino a pubblicare nel 1832 a Torino i tre massicci volumi della Théorie du mouvement de la lune, opera premiata dalla Società astronomica di Londra per il suo approccio innovativo.


L’attività matematica e astronomica di Plana comincia a essere riconosciuta: nel 1827 diventa Astronomo Reale e socio della Royal Society, nel 1831 viene nominato cavaliere di Casa Savoia. 

Nello stesso anno, per uno strano scherzo della storia, la strada del liberale Plana, colui che poco più che bambino aveva piantato l’Albero della Libertà rivoluzionario, si incrocia con quella del più reazionario dei matematici francesi, e forse europei: Augustin-Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, esule a Torino, colui che un incredulo Niels Abel aveva definito un "cattolico fanatico” , aggiungendo che "era pazzo e non c'era nulla da fare per lui", ma allo stesso tempo aveva riconosciuto come "il solo che sappia come si fa la matematica"

Nei tre giorni finali del luglio 1830, i moti di rivolta contro il potere assoluto dell’ultimo re borbonico Carlo X, costretto all’esilio, portano sul trono francese Filippo d’Orleans. A questa rivolta parteciperebbe, se non fosse rinchiuso nelle mura della Ècole Normale, anche uno dei più grandi geni matematici dell’epoca, Èvariste Galois, repubblicano convinto, che morirà non ancora ventunenne in un duello alla fine di maggio del 1832. Il bigotto Cauchy, invece, vede il suo mondo crollare, e decide di lasciare le sue cariche d’insegnamento e di seguire il suo re nell’esilio. 

Dopo un breve soggiorno in Svizzera, dove pensa inizialmente di fondare a Friburgo un’accademia scientifica e religiosa, Cauchy accetta l’invito (suggerito dai Gesuiti) del re piemontese Carlo Alberto di venire a insegnare a Torino, dove lo attende la cattedra di Fisica Sublime (teorica) istituita apposta per lui. 

Cauchy si è, per così dire, fatto precedere dalla pubblicazione di un lungo articolo in tre parti in italiano, intitolato Sui metodi analitici, pubblicati nell’inverno 1830-31 dalla Biblioteca italiana di Milano. In questi tre articoli presenta un’introduzione ai metodi dei suoi corsi all’École Polytechnique di Parigi. Il motivo principale di queste pubblicazioni è una recensione, comparsa sulla stessa rivista milanese, del matematico Giuseppe Cossa, che aveva preso in esame i suoi Exercises de Mathématiques e aveva criticato l’eccesso di numeri a scapito delle parole e la “soverchia concisione” delle spiegazioni. Nella sua risposta, il francese vuole dimostrare che cosa significhi il suo “bisogno di rigore” e spiega anche che il suo testo aveva un carattere di supporto alle sue lezioni. Critica poi apertamente l’indeterminatezza dei metodi lagrangiani di calcolo e spiega come il suo rigore si rifletta su concetti fondamentali come quelli di derivata, integrale, integrazione delle equazioni differenziali. Ma il tono è risentito e pedante e genera una reazione ostile tra molti matematici italiani, ancora legati al vecchio approccio lagrangiano al Calculus. Solo il nobile e benestante Gabrio Piola, matematico per diletto, di sentimenti politici e religiosi affini al francese, prende subito posizione a favore di Cauchy, diventandone poi il profeta in Italia (e i reazionari in politica saranno in questo caso i più innovativi in campo matematico).


Cauchy arriva a Torino nella tarda estate del 1831, e il suo interlocutore privilegiato non può essere che Plana, anch’egli dotato, come si è visto, di un carattere per nulla incline ai compromessi. Nelle loro conversazioni, Cauchy gli rimprovera l’utilizzo di metodi di calcolo astronomici che portano a calcoli pedestri e complessi, che egli si propone di semplificare. 

Per questo motivo Cauchy scrive una Mémoire sur la mécanique céleste et sur un nouveau calcul appelé calcul des limites, che consegna all’Accademia delle Scienze ancor prima di iniziare a insegnare. Nel testo, datato 15 ottobre, poi pubblicato litografato, dichiara che i suoi metodi sono necessari per contribuire a ridurre le fatiche degli astronomi «quando sapranno che sono giunto a stabilire, sullo sviluppo delle funzioni, (…) principi generali e di facile applicazione, mediante i quali si può non solo dimostrare con rigore le formule e indicare le condizioni della loro esistenza, ma fissare inoltre i limiti degli errori che si commettono trascurando i resti che devono completare le serie». Egli inoltre presenta la prima versione della sua celebre “formula integrale”: una funzione complessa può essere rappresentata in qualche dominio da una serie convergente di potenze. Il teorema mette in relazione il valore di una funzione olomorfa in un punto con un integrale di linea lungo una curva semplice chiusa.

Plana si sente attaccato in prima persona, ma rimane legato all’analisi della sua giovinezza. Non ama i nuovi metodi. Sulle idee di Cauchy commenta “Io guardo ai numeri”, e vede nella “nuova analisi ipertrascendente” solo una confusione di formule sempre più astratte e inapplicabili man mano che passano gli anni. 

Nella capitale piemontese intanto Cauchy pubblica i Résumés analytiques, continuazione degli Exercises forzatamente interrotti per l’esilio, in cui raccoglie le sue lezioni. Egli partecipa anche alla vita politica, dato che il suo nome compare in alcune note sui gruppi di fuoriusciti francesi ultrareazionari che si leggono nei diari del giovane Camillo di Cavour. Nel 1833 tuttavia lascia Torino, chiamato a Praga da Carlo X che lo vuole come precettore scientifico del figlio. 

Nonostante l’ingombrante presenza di Cauchy, Giovanni Plana trova il modo di farsi ancora apprezzare. Tra il 1831 e il 1835 costruisce presso la sagrestia della cappella dei Mercanti di Torino il Calendario Meccanico Universale, tuttora esistente, che permette, scegliendo un giorno, un mese e un anno qualunque (dall'anno 1 all'anno 4000) di identificare il giorno della settimana corrispondente, le festività fisse e mobili (tra cui la data della Pasqua), i cicli lunari e le maree relativi a quell'anno. Lo strumento, assai raffinato, è composto da memorie a tamburo, a disco e nastro, con mezzi di accesso e di lettura azionati da ruote dentate, catene e viti, un vero e antesignano meccanico del computer. Per realizzare quest’opera, Plana deve superare diverse difficoltà astronomico-matematiche e tecnico-pratiche. Tra le numerose variabili che deve considerare ci sono il passaggio dal calendario giuliano a quello gregoriano, gli anni bisestili, il calcolo della durata esatta del giorno, del mese lunare, dell’anno solare. Di sicuro Plana farà vedere il suo meccanismo a Charles Babbage, quando questi verrà a Torino nel 1841 in occasione della sua nomina a socio dell’Accademia delle Scienze piemontese.



Dagli anni ’30 Plana diventa socio di numerose accademie internazionali e riceve onorificenze in vari paesi. Si dedica soprattutto all’insegnamento, dove ha il merito di tenere corsi universitari modellati su quelli dell'École polytechnique, contribuendo così ad aggiornare l’insegnamento scientifico in Piemonte. Di lui scriverà il collega Luigi Menabrea: 
«[Plana] fu certamente uno dei professori più abili e affascinanti che abbiano resa illustre un’Università. Con una lucidità straordinaria, faceva assistere l’allievo alla nascita delle teorie e ne sviluppava le conseguenze; sapeva interessarlo con delle ingegnose applicazioni che ne dimostravano l’utilità». 
Probabilmente Menabrea esagera, perché certi aspetti del carattere di Plana lo rendono talvolta scostante. Celebre è rimasta la frase che rivolge al giovane Schiaparelli: «Di astronomi ve n'è uno in Piemonte e basta!». Forse per questo non ha eredi scientifici. 

Il periodo creativo si esaurisce, sia per motivi personali (la morte per malattia del figlio Luigi a soli 7 anni nel 1832, lo sfortunato matrimonio della figlia con un avventuriero nel 1840), sia perché la matematica è cambiata ed egli è rimasto ancorato a un’epoca che è finita. 

Nel 1842 diventa vicepresidente dell’Accademia, nove anni dopo ne è il presidente. Nominato barone nel 1844, diventa senatore nel 1848, carica che conserverà anche con lo stato unitario. Muore a Torino il 20 gennaio 1864. Di lui scriverà il matematico e storico della matematica Francesco Giacomo Tricomi: 
«A mio avviso, il merito di Plana non sta tanto in questo o quel risultato da lui raggiunto, bensì nell’aver egli potentemente contribuito ad elevare il livello, dianzi assai depresso, degli studi matematici in Piemonte, portandovi il soffio vivificatore delle idee spiranti a Parigi nella sua giovinezza, ove operavano un Lagrange, un Fourier, un Monge ed altri sommi».